Cenni sul delitto tentato

Cenni sul delitto tentato

Un’esplorazione sullo sviluppo del delitto tentato in diritto romano può rendere l’interprete maggiormente consapevole delle problematiche odierne.

Secondo alcuni alla fine del periodo classico si colloca il momento in cui giunge a maturazione una idea di tentativo autonoma, valida per l’intero ordinamento penale romano. La causa di tale innovazione viene rinvenuta nei cambiamenti sociali prodottisi a seguito della valorizzazione dell’elemento volontaristico. Esso  è conseguenza della visione cristiana del diritto. Il legislatore del basso impero intende offrire una soluzione per alcune ipotesi di reato, mediando tra diritto e morale. Ciò determinerebbe l’ingresso nel sistema del diritto penale della figura generale del tentativo.  Si tratta pur sempre di ricostruzioni controverse.

Il delitto tentato è un autonomo titolo di reato che nasce dalla combinazione fra la disposizione dell’art. 56 cod. pen. e la disposizione di parte speciale che descrive una determinata fattispecie incriminatrice.

La definizione legislativa si basa sulla idoneità e univocità degli atti. Il tentativo non è  una circostanza attenuante. Pertanto, esso non è soggetto al bilanciamento tipico delle circostanze. Il giudice dovrà verificare l’arco edittale della fattispecie tentata (pena stabilita per il delitto consumato diminuita da 1/3 a 2/3).

Il principio di offensività aiuta a comprendere la ragione, per la quale viene prevista l’anticipazione della tutela penale. Tale principio presuppone che possa esservi reato solo a condizione si riscontri offesa o messa in pericolo di un bene giuridico.

Si è ritenuto che il tentativo sussista perché il soggetto che esegue una siffatta condotta dimostra una volontà ribelle rispetto all’ordinamento. Può argomentarsi che il nostro ordinamento non è impostato sulla sanzione di personalità orientate a delinquere, secondo un paradigma criminologico soggettivistico. Per punire un soggetto occorre che la volontà ribelle si manifesti nella realtà concreta, proprio in base al principio di offensività. E’ necessaria una condotta idonea a porre in pericolo beni giuridici cui l’ordinamento fornisce tutela. Un supporto normativo a questa conclusione deriva dall’art. 49, 2 c.  c.p.. Il reato è impossibile e non punibile per inidoneità dell’azione o per inesistenza dell’oggetto. Resta salva l’applicazione di una misura di sicurezza. Una normativa affine è prevista dall’art. 115 c.p., per l’ipotesi in cui due o più persone si accordino per compiere un reato e questo poi non venga commesso. Anche in tal caso residua la possibilità di applicare una misura di sicurezza.

L’istituto del tentativo si giustifica alla luce dei princìpi costituzionali. Essi racchiudono anche il principio di offensività. Si sanziona la messa in pericolo di un bene giuridico. La medesima riserva di legge in materia penale ha un suo ruolo decisivo. Occorre individuare la soglia di pericolo provocato, che rende punibile un soggetto. Il rilievo del principio di offensività è primario, anche secondo le ricostruzioni del medesimo operate dalla Corte costituzionale.

Il codice Zanardelli del 1889 rendeva punibili solo gli atti esecutivi, prevedendo come irrilevanti sotto il profilo penale gli atti preparatori. Il codice Rocco del 1930 abbandona, in apparenza, la distinzione fra atti preparatori ed esecutivi. Nell’intenzione del Legislatore, elaborata in un periodo autoritario, si presenta l’idea di rendere punibili anche gli atti preparatori. Il motivo dell’abbandono della distinzione è contingente. In quel momento storico sembra irrazionale punire un soggetto che non abbia iniziato l’esecuzione materiale del delitto.

Si esclude che gli atti preparatori possano essere puniti, nonostante l’originaria intenzione del Legislatore. Essi vengono considerati inoffensivi, anche in base all’interpretazione degli artt. 49 e 115 c.p.. ma l’interpretazione non è univoca.

Più in particolare, si registra un atteggiamento ondivago della giurisprudenza, che, secondo un orientamento, esclude la punibilità degli atti preparatori.

Esiste un filone giurisprudenziale che sostiene siffatta punibilità. Occorre che si possa fondatamente ritenere che l’agente attuerà il reato e che esso si compierà. Non rileva il non inizio, la non imminenza della condotta.

La legge individua come requisiti, per la configurazione del tentativo, l’idoneità e l’univocità degli atti.

Atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto sono quelli che esteriorizzano un’intenzione criminosa- Peraltro, se il crimine sia stato commesso. Può mancare l’evento, nonostante la condotta sia stata realizzata Può accadere che la condotta sia stata realizzata solo in parte. L’idoneità può considerarsi la probabilità della consumazione del reato. Essa si traduce nella messa in pericolo del bene, protetto dalla fattispecie di reato consumato.

Si distingue un tentativo compiuto da uno incompiuto. Dal testo dell’articolo 56, si desumono le ipotesi in cui l’evento non si compie o l’azione non si verifica. Il tentativo compiuto si ha quando il reo ha posto in essere tutto l’iter criminoso . Nonostante ciò, l’evento non si è verificato. Il tentativo è incompiuto quando la condotta criminosa non è stata portata a termine.

La Corte costituzionale ha avallato la tesi, che gli atti preparatori possano essere puniti

Una parte della giurisprudenza, come sopra riferito, esclude la punibilità degli atti preparatori. Ciò si collega alla lettura della nozione di univocità. Essa, secondo questo orientamento, viene collegata agli atti esecutivi. Vi deve essere corrispondenza anche in minima parte con la condotta tipica. Ciò vale sia si tratti di un delitto a forma libera, sia di un diritto a forma vincolata.

Un altro orientamento recupera la punibilità degli atti preparatori. Ciò perché essi fanno ritenere che l’agente stia per attuare il reato e che esso si compierà, salvo che intervengano eventi imprevedibili. L’atto preparatorio è letto in termini di univocità e idoneità. Si considera punibile un atto preparatorio che sia di poco precedente la esecuzione del tentativo.

L’univocità è l’attitudine a esprimere un chiaro progetto criminoso. Si può ragionare in termini probatori. Da questo deriva che, ove sia dimostrato il proposito criminoso, è presente l’univocità. Questa conclusione sminuisce il requisito dell’univocità. Essa, altresì, lo soggetti vizza. Vi è chi ritiene che questo contrasti con l’essenza del requisito.

Appare conducente ritenere che l’univocità debba esprimere il proposito di realizzare il delitto quantomeno a titolo di tentativo. Si potranno integrare la dimostrazione dell’intenzione soggettiva dell’agente e della congruità verso il fine criminoso.

Un altro indirizzo, che collega univocità e atti preparatori, afferma che devono considerarsi univoci quegli atti che, ancorché preparatori, rivelino la volontà del fine dell’agente. Questo potrà ricavarsi da norme di esperienza e da ciò che ordinariamente accade.

La Cassazione individua l’univocità degli atti nel momento in cui il reato esce dalla fase dell’ideazione non punibile. Esso assume connotati di aggressività concreta, da cui emerge la messa in pericolo del bene. La non equivocità è presente quando l’atto contiene in sé un frammento di tipicità. L’atto denota in sé la direzione criminosa. Non rileva la volontà criminale. Sotto un profilo oggettivo, la condotta è incorporabile nella fattispecie di parte speciale.

Una seconda ricostruzione, più presente in giurisprudenza, intende l’univocità come stretta anticipazione naturalistica o teleologica della condotta rispetto alla fattispecie di parte speciale.

La mancata distinzione fra atti preparatori ed esecutivi rende inapplicabile la costruzione del frammento di fattispecie. Il comportamento deve dimostrare l’attitudine a mantenere il proposito criminale. Si recupera la punibilità degli atti preparatori. L’attitudine è desumibile sia dagli atti preparatori, sia dagli atti esecutivi.

Secondo la teoria del frammento di azione tipica, per la forma vincolata occorre che vi sia una parte di tipicità, come gli artifici per la truffa, per i reati a forma libera, come l’omicidio,  occorre l’uso di un mezzo con il quale si possa pervenire in potenza alla realizzazione del delitto consumato.

Si è elaborata anche una teoria oggettiva per la ricostruzione del requisito dell’univocità. Essa consiste nella possibilità di provare il dolo all’interno della condotta dell’agente. Si ravvisa una vicinanza all’azione tipica.

Per la configurazione del delitto tentato, è richiesto il dolo. A questa conclusione può pervenirsi considerando la disciplina sul delitto, che considera come coefficiente soggettivo tipico il dolo. Non vi è possibilità di integrazione del tentativo a titolo di colpa. L’univocità è incompatibile con la colpa e appartiene alla oggettività, Occorre tener conto dell’art. 42, 2° c, c.p. Oggetto del dolo è il reato nella sua forma consumata, ma esso appare estensibile al tentativo.

Occorre domandarsi se vi sia compatibilità fra dolo eventuale e tentativo. Il dolo eventuale si ha quando il soggetto non vuole l’evento, ma accetta il rischio di esso. Questa è la tradizionale demarcazione del dolo eventuale, rispetto alla colpa cosciente, in cui vi è una rappresentazione, che contempla la speranza di evitare l’evento lesivo. L’agente fa leva sulla capacità di evitare che il rischio si concretizzi. La giurisprudenza ha ulteriormente precisato l’essenza del dolo eventuale. Il verificarsi dell’evento deve far parte della rappresentazione dell’agente. Non è sufficiente l’accettazione del rischio.

Una parte della giurisprudenza ritiene il tentativo incompatibile con il dolo eventuale. Si reputa presente un’antitesi fra lo stato di dubbio caratteristico di siffatto dolo e l’univocità. Può, forse, ritenersi che così vi sia sovrapposizione dell’elemento materiale e di quello psicologico. Parte della dottrina ritiene che vi sia compatibilità fra dolo eventuale e tentativo.

Il codice penale non distingue fra le varie figure di dolo e l’univocità, per sua essenza oggettiva. Essa appare come un concetto che non deve interferire sull’indagine sull’elemento soggettivo.  Si può, tuttavia, ribaltare l’argomento. Il tentativo è un reato diverso da quello consumato. La modulazione dell’elemento soggettivo riguardo al tentativo potrà essere diversa rispetto a quella prevista per il delitto tentato. Da questo potrà discendere la incompatibilità fra dolo eventuale e tentativo. Emerge una significativa differenza rispetto alla compatibilità tra dolo eventuale e il delitto consumato.

Ci si può concentrare sull’essenza del dolo eventuale come elemento di accettazione del rischio dell’evento dannoso. Ciò presuppone una situazione di incertezza. Sembra che alla questione non possa darsi una soluzione univoca. A volte si supera la problematica della compatibilità fra dolo eventuale e tentativo affermando che nel tentativo sia ammissibile il dolo alternativo. Si tratta dell’ipotesi in cui un soggetto indifferentemente vuole un evento o un altro.  La suddetta sovrapposizione può dare adito a perplessità.

L’arresto giurisprudenziale delle Sezioni Unite “Thyssenkrupp” n.38343 del 2014 ha fatto acquisire al dolo eventuale una connotazione più pregnante. La volizione dell’evento collaterale entra a far parte della struttura del dolo eventuale. Si risolve in senso negativo il quesito sulla compatibilità del dolo indiretto con il tentativo

Prima del 2014 il dolo eventuale si considera dotato di un sia l’elemento oggettivo consistente nell’astratta prevedibilità dell’evento A questo si aggiunge un elemento soggettivo consistente nell’accettazione del rischio da parte dell’agente. Peraltro, la teoria dell’accettazione del rischio, detta anche formula di Frank, è una formula meramente ipotetica, quasi “vuota” Per tali motivi si è avvertita da parte della giurisprudenza e dottrina una inversione di tendenza, al fine di conferire maggiore concretezza alla fattispecie in esame. La Cassazione si è orientata nel senso di un dolo eventuale basato su un giudizio di subordinazione del bene violato al fine perseguito da parte dall’agente.

Nel 2014 le Sezioni Unite aderiscono al c.d. criterio economico in base al quale ciò che rileva ai fini della configurabilità o meno del dolo indiretto, è il bilanciamento di interessi operato dal reo. Si considera il sacrificio del bene violato per raggiungere il risultato voluto dell’agente. Si considerano i costi/benefici che l’agente avrebbe considerato, pur di conseguire i propri interessi.

Tale orientamento si basa sulla valorizzazione di 11 criteri, fra i quali anche la accettazione del rischio., tali criteri sono: la condotta dell’illecito; la lontananza dalla regola cautelare, A essi si aggiungono la personalità dell’agente; la storia e le precedenti esperienze del reo. Si considerano la durata e la ripetizione della condotta; la condotta successiva all’evento; il fine della condotta; la probabilità di verificazione dell’evento. Si valutano anche le conseguenze lesive e negative anche per l’agente a seguito della verificazione dell’evento. Gli ultimi criteri sono il contesto lecito o illecito di base e l’accettazione del rischio.

Si perviene ad una concezione più intensa di dolo eventuale ascrivibile al criterio economico suesposto.

Anche questa teoria ad oggi ancora seguita, non è stata esente da critiche dalla dottrina e dalla giurisprudenza seguente. Si censura infatti che così verrebbe punito a titolo di dolo indiretto solo l’agente che abbia agito in modo razionale e logico. 2.3 La

Anche su tale categoria giuridica di cui all’art. 56 c.p. infatti, con specifico riguardo all’univocità degli atti, sono state avanzate diverse teorie, in particolare due, l’una di carattere oggettivo e l’altra soggettivo.

Anche se il dolo indiretto non è più basato sul solo criterio dell’accettazione del rischio, la compatibilità di tale fattispecie con una nozione di delitto tentato in senso soggettivo è esclusa.

Tali conclusioni, potrebbero però essere messe in discussione dalle critiche suesposte in ordine al c.d. “criterio economico” a cui hanno aderito le Sezioni Unite del 2014.

Tale orientamento porta ad una qualificazione del dolo eventuale tale da poterlo difficilmente differenziare dalle fattispecie dolose più incisive. Questa considerazione mal si concilia con l’asserita incompatibilità del dolo eventuale con l’art. 56 c.p..

 

 

 

 

 


Sitografia
Paolo Franceschetti in Delitto tentato (altalex.com)
Deborah Quattrone in I rapporti tra dolo eventuale e tentativo prima, durante e dopo le Sezioni Unite “Thyssenkrupp” | Salvis Juribus

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