Collaborazione post delictum e impunità del corruttore: analisi e disciplina della causa di non punibilità ex art. 323 ter c.p.
Sommario: 1. Inquadramento della disciplina – 2. La causa di non punibilità introdotta dalla Legge Spazza Corrotti: ratio e criteri applicativi – 3. Art. 323 ter c.p. e fattispecie tentate – 4. Ulteriori criteri temporali e applicativi – 5. Limiti negativi di applicazione: la figura dell’agente provocatore – 6. Criticità interpretative e applicative
1. Inquadramento della disciplina
La corruzione può definirsi come la classica ipotesi di reato-contratto, caratterizzata da prestazioni corrispettive tra corruttore e corrotto contra legem. Si tratta, quindi, di una fattispecie a concorso necessario, caratterizzata da due condotte che si consacrano nel cd. pactum sceleris.
Il dilagarsi del fenomeno corruttivo ha costretto il legislatore ad intervenire ed aggiornare sia le norme a carattere preventivo che quelle a carattere punitivo, al fine di meglio adattarle ad un’ottica sovranazionale ed al fine di disincentivare il fenomeno stesso.
A tal proposito, si rammenta che già con la legge n. 69/2015, è stato introdotto un primo istituto premiale consistente nell’aggiunta del comma 2 nell’ art. 323 bis c.p. per chi sceglie di collaborare con l’autorità giudiziaria.
Sinteticamente, la circostanza attenuante di cui all’art. 323 bis c.p. riconosce una consistente diminuzione della pena a chi, con comportamento post delictum, si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, per collaborare con gli inquirenti per l’individuazione di ulteriori soggetti responsabili e per favorire la raccolta e la conservazione delle prove dei reati o il sequestro delle somme o utilità trasferite all’intraneus.
2. La causa di non punibilità introdotta dalla Legge Spazza Corrotti: ratio e criteri applicativi
Nel quadro delle misure di contrasto dei fenomeni corruttivi e paracorruttivi, si colloca la Legge Spazza Corrotti, la quale ha introdotto l’art. 323 ter c.p. integrante un’inedita causa di non punibilità.
La funzione primaria dell’istituto si coglie nella capacità di contrasto della corruzione ed opera in una duplice direzione: una prima direttrice valorizza la capacità deterrente della norma ed opera in una prospettiva general-preventiva, andando ad introdurre un fattore di instabilità teso a mettere in crisi l’accordo corruttivo o paracorruttivo; una seconda direttrice valorizza, invece, la collaborazione post delictum. Trattasi di aspetti indiscutibilmente complementari, sicchè è evidente che il monito dissuasivo sortirà gli effetti sperati laddove si interverrà ex lege con maggiore pregnanza ed incisività, al fine di contrastare il fenomeno corruttivo che, nel caso di specie, passa attraverso l’impunità.
Tuttavia, l’ipotesi in esame trova applicazione solo se la denuncia del correo risponde a precisi criteri temporali e modali, ai fini della dimostrazione della efficacia general preventiva spiegata dalla norma, nonché della adesione al precetto penale da parte del “collaboratore”.
Il nuovo istituto appare effettivamente riconducibile all’alveo delle cause di non punibilità in senso stretto, riferendosi ad un reato completo nei suoi elementi costitutivi e trovando la sua ratio in una valutazione frutto di una specifica opzione discrezionale, di marca politico-criminale.
Il legame corruttivo si sa essere di reciproco vantaggio e nell’ottica dell’efficiente riuscita del pactum sceleris esso è destinato a rimanere perpetuamente segreto con il mutuo interesse delle parti; con la norma si prova, invece, a togliere sicurezza e solidità al patto stretto, insinuando nei contraenti il dubbio che l’altra parte possa venir meno agli accordi e denunciare la commissione dell’illecito. L’obiettivo principale, però, è soprattutto quello di favorire l’emersione dei fatti corruttivi; riconoscendo l’impunità a chi denuncia si vuole stimolare il comportamento di resipiscenza delle parti del patto e, attraverso l’autodenuncia, la conseguente individuazione della notitia criminis.
L’istituto de quo è destinato a trovare applicazione non solo in relazione alle fattispecie corruttive, ma anche in relazione alle fattispecie paracorruttive, in particolare ai delitti anche monosoggettivi, come la turbata libertà degli incanti, la turbata libertà del procedimento di scelta del contraente.
È pur vero che, spesso, queste fattispecie vengono commesse in concorso con altri e soprattutto con funzionari pubblici, ma in astratto tale situazione può anche non verificarsi. Considerando, ad esempio, uno dei reati presupposto sopracitati, e cioè la turbata libertà degli incanti, e tenendo presente che esso, come reato di pericolo, si realizza indipendentemente dal risultato della gara che si vuole influenzare, ci si potrebbe trovare nella situazione di un agente che non riesca nemmeno ad influenzare l’andamento di una gara ad evidenza pubblica, pur avendo posto in essere la condotta tipica.
Rispettando il termine utile dei quattro mesi, potrebbe decidere di autodenunciarsi, limitandosi a fornire indicazioni utili per assicurare la prova del reato, non essendo presente un corresponsabile da denunciare e non essendoci utilità da dover restituire. Con tale comportamento adempirebbe solo formalmente agli obblighi previsti dall’art. 323 ter c.p. e finirebbe per sfuggire alle conseguenze penali, senza arrecare alcun vantaggio effettivo per l’attività investigativa.
3. Art. 323 ter c.p. e fattispecie tentate
La causa di non punibilità è applicabile, inoltre, alle fattispecie tentate, alla luce dell’orientamento giurisprudenziale per cui l’autonomia del delitto tentato comporta che i soli effetti giuridici sfavorevoli previsti con specifico richiamo a determinate norme incriminatrici, debbano riferirsi alle sole ipotesi di reato consumato.
Nondimeno, alla luce del fondamento della causa di non punibilità in esame, essa non appare applicabile quando l’iter criminis non sia progredito almeno sino a coinvolgere entrambe le parti del divisato pactum sceleris, in quanto solo a queste condizioni ha modo di dispiegarsi l’efficacia scriminante della previsione finalizzata a riparare l’antidoverosità della condotta pregressa anche attraverso una collaborazione che superi il muro di omertà che tradizionalmente caratterizza i reati a schema contrattuale a incriminazione bilaterale: in altri termini, in assenza di un approdo concorsuale del tentativo, l’offesa non è riparabile nelle forme codificate dall’art. 323 ter c.p.
In ogni caso, non ci si può esimere dal rilevare come, alla luce della struttura consensuale dei reati presupposto, il progredire della condotta sino ad uno stadio tale da involgere le parti dell’accordo segni, di norma, la consumazione del reato, notazione che riduce la rilevanza pratica dell’estendibilità al tentativo della scriminante in esame a fattispecie del tutto marginali, al contempo privando di reale interesse la problematica del rapporto tra la causa di non punibilità in rassegna e la desistenza volontaria.
Ai fini della fruibilità della causa di non punibilità in esame, in ipotesi di tentativo, non è, evidentemente, necessaria la messa a disposizione dell’utilità conseguita dal reato, nel caso in cui lo sviluppo del fatto non sia pervenuto allo scambio di utilità tra le parti.
Per quanto concerne il criterio temporale, il soggetto autore del reato potrà beneficiare della causa di non punibilità ex art. 323 ter c.p. solo se la denuncia interviene prima di avere notizia che nei suoi confronti sono svolte indagini in relazione a tali fatti e, comunque, entro quattro mesi dalla commissione del fatto. Questa connessione temporale, che viene così determinata tra la commissione del fatto e la sua denuncia, è giustificata dalla volontà di reprimere in maniera più efficace l’illecito, ma anche di garantire una tutela, seppur tardiva, del bene giuridico precedentemente leso, attraverso una sorta di regressione dell’offesa.
4. Ulteriori criteri temporali e applicativi
Tuttavia, si pone il problema dell’individuazione del dies a quo del termine, da ricollegare al dibattito scaturito intorno alla determinazione del momento consumativo dei reati di corruzione.
Invero, secondo la giurisprudenza, tale momento è da ricollegare al momento in cui avviene, a seguito di promessa, l’effettiva dazione e ricezione dell’utilità, mentre, per la dottrina, è da individuare nel semplice raggiungimento dell’accordo, essendo questo il momento in cui si verifica un’effettiva lesione del bene giuridico, qualificando il successivo adempimento della promessa come semplice post factum non punibile.
Sembrerebbe preferibile quest’ultima interpretazione, anche alla luce delle intenzioni del legislatore, in quanto l’applicazione dell’interpretazione giurisprudenziale finirebbe per dar luogo a delle strumentalizzazioni della norma, poiché gli autori del reato di corruzione, postergando volontariamente il momento del pagamento o della dazione dell’utilità, sarebbero in grado di individuare a loro piacimento il momento di decorrenza del dies a quo, rendendo così inefficace la previsione.
Ai fini della sua applicazione, l’art. 323 ter c.p. richiede una doppia resipiscenza, consistente in un’attività effettiva di collaborazione e nella restituzione di quanto ottenuto, ovvero, in caso di impossibilità, di una somma di denaro che abbia valore equivalente, oppure l’indicazione di elementi utili ad individuare l’effettivo beneficiario dell’utilità.
Per quanto riguarda la prima forma di resipiscenza, si richiede che l’interessato denunci il fatto e fornisca le indicazioni utili ad individuare gli altri autori del reato, oltre che ad assicurare le prove dello stesso. La disposizione prevede che ciò avvenga volontariamente e, a tal fine, non è richiesto che la denuncia sia anche spontanea o che sia espressione di un effettivo pentimento, perché ciò che conta è che sia frutto di una decisione libera del reo.
5. Limiti negativi di applicazione: la figura dell’agente provocatore
Il comma 3 dell’art. 323 ter c.p. individua i limiti negativi di applicazione della causa di non punibilità, cioè le situazioni in cui, pur essendo presenti tutte le condizioni per un suo riconoscimento, il beneficio non può in nessun caso operare.
Tale disposizione ha come fine principale quello di contrastare possibili strumentalizzazioni della norma. In riferimento alla prima parte del comma 3, l’esclusione è derivata dalla volontà di non riconoscere la non punibilità all’attività dell’agente provocatore, nell’intento di evitare la produzione di un effetto criminogeno che si verificherebbe nel caso in cui si riconosca l’operatività del beneficio a favore di chi abbia convinto altri a compiere il reato e lo denunci in un momento immediatamente successivo, al solo fine, ad esempio, di incastrare il rivale; ovviamente, in tali situazioni si pone il problema della prova della preordinazione della commissione del delitto, che può configurarsi come vera e propria probatio diabolica, a causa della difficoltà di accertamento della effettiva volontà del denunciante, fattore che inevitabilmente inciderà sulla portata applicativa della norma.
La seconda parte del comma 3 esclude il riconoscimento dell’impunità nei casi in cui il reato sia stato commesso nell’ambito di un’attività sotto copertura, effettuata in violazione dell’art. 9 della l. 16 marzo 2006, n. 146, nell’intenzione di ribadire i limiti di queste speciali attività ed evitare che queste si trasformino in comportamenti istigatori, assimilabili a quelli dell’agente provocatore.
Si ritiene, inoltre, che la causa di non punibilità non possa trovare applicazione del caso di errore sulla sua sussistenza, in quanto non si considera applicabile l’ultimo comma dell’art. 59 c. p., nel caso di erronea supposizione dell’esistenza di circostanze di esclusione della pena, dal momento che si riferisce alle cause di giustificazione e non alle cause di non punibilità.
Qualora, invece, vi sia il dubbio sulla sussistenza delle condizioni di applicabilità del beneficio, che non vengono meno neanche nel corso del procedimento, dopo aver ascoltato le dichiarazioni collaborative dell’interessato, allora, in ossequio al principio in dubio pro-reo, dovrà trovare applicazione la causa di non punibilità.
6. Criticità interpretative e applicative
L’intento del legislatore nell’elaborazione dell’intera normativa e, in particolare, l’art. 323 ter c. p. era quello di creare un efficace sistema di repressione della corruzione, ritenendo decisive in questo senso alcune delle novità apportate alla disciplina già esistente.
Tuttavia, nonostante le aspettative del legislatore fossero molto elevate, le critiche maggiori si sono concentrate proprio sulla previsione di cui all’art. 323 ter c.p., molte delle quali sono da ricollegare alle diverse problematiche sorte dalle prime analisi della norma, evidenziandone delle lacune che inevitabilmente si vanno a ripercuotere sul suo effettivo funzionamento. La prima critica mossa alla norma in esame è la facilità con la quale la stessa possa essere oggetto di abusi e strumentalizzazioni.
Invero, si ritiene che, nonostante la previsione di limiti negativi di operatività, di cui al comma 3, sia in ogni caso difficile riuscire a dimostrare la sussistenza di una premeditazione alla denuncia, tale da poter applicare il comma 3, in quanto, in assenza di elementi probatori consistenti, si configurerebbe un’ipotesi di probatio diabolica; inoltre, si critica anche il fatto che possa essere facilmente usata come arma di ricatto da una delle parti dell’accordo corruttivo.
La seconda criticità guarda all’inedita causa di non punibilità come un fattore in grado di determinare un forte indebolimento della funzione general preventiva dell’ordinamento penale, poiché, in nome di una maggiore efficienza investigativa, quindi dell’interesse ad una corretta amministrazione della giustizia, si va a sacrificare la risposta penale per il soggetto che abbia denunciato il fatto , risposta che si configurerebbe anche in termini consistenti, effettuando una sorta di baratto tra la non punibilità e l’efficiente svolgimento delle indagini.
Infine, si discute della potenzialità della norma di garantire una più facile scoperta dei fatti di corruzione e affini, in quanto determinerebbe, al più, l’effetto opposto, ossia quello criminogeno; questo perché, nonostante sia stata introdotta per inoculare il dubbio sull’affidabilità della controparte nel rispetto dell’accordo corruttivo, potrebbe sortire gli effetti opposti, soprattutto quando si tratti di corruzioni sistemiche legate ad uno stabile circuito criminale in cui si determinerebbe un accrescimento della solidità del patto corruttivo e del legame che lega i vari partecipanti, con la conseguenza che questi, nel timore di essere denunciati dalla controparte nel caso in cui avvenga una rottura del pactum sceleris, saranno determinati a mantenerlo segreto e a perpetrare il crimine.
Ulteriore aspetto critico rileva nella reale capacità della nuova norma di far emergere i reati di corruzione e quelli paracorruttivi.
Tale questione si ricollega alla ritenuta scarsa possibilità che si verifichi una denuncia volontaria. È, infatti, alquanto improbabile, nella prassi, che un soggetto che abbia stretto un accordo corruttivo, in poco tempo decida di autodenunciarsi, rinunciando anche al vantaggio indebitamente ottenuto, soprattutto se si tiene conto delle diverse conseguenze che seguiranno questo suo comportamento. Sotto questo punto di vista, a seguito della denuncia, il soggetto vedrà comunque iscrivere il proprio nome nel registro delle notizie di reato, in quanto il beneficio gli potrà essere riconosciuto solamente dopo che, presentata la richiesta di archiviazione da parte del P.M., il giudice avrà valutato positivamente la sussistenza di tutti i presupposti stabiliti dall’art. 323 ter c. p.
A questo si ricollega anche la possibilità che l’autodenuncia possa essere ritenuta dall’Autorità Giudiziaria inefficace, in quanto resa in assenza delle condizioni richieste, con conseguente inapplicabilità della non punibilità, che non è esclusa anche nel caso in cui ricorrano i presupposti sanciti dall’art. 323 ter c.p., ogni volta che il soggetto abbia commesso anche reati ulteriori, ugualmente riconducibili al fatto di corruzione denunciato, ma che non rientrino nei reati richiamati nella disposizione, quali false comunicazioni sociali o vari illeciti fiscali.
In ogni caso, si ritiene dubbio che un soggetto proceda ad autodenunciarsi anche semplicemente per le ripercussioni che il procedimento, su cui si concentrerebbero le attenzioni mediatiche, potrebbe determinare sulla sua reputazione, senza contare che, nel caso in cui l’interessato sia un pubblico funzionario, dovrà essere sottoposto ad un procedimento disciplinare, poiché la non punibilità di cui all’art. 323 ter c.p. non si estende anche ai procedimenti amministrativi connessi.
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Silvia Ingrosso
Classe 1995.
Laurea magistrale in giurisprudenza.
Attualmente tirocinante presso Tribunale di Sorveglianza e praticante presso studio legale.