Come si determina l’assegno di divorzio? L’evoluzione giurisprudenziale
L’art. 5 co. 6 della L. 898/70, recante disposizioni in materia di «Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio», più comunemente nota come “Legge sul divorzio”, prevede espressamente che «Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive».
Tale norma, nel corso degli anni, è stata variamente interpretata dalla giurisprudenza che, infatti, mentre in un primo momento si preoccupava di ricercare altrove il contenuto dei requisiti richiesti dalla suddetta disposizione in punto di spettanza e di determinazione dell’assegno divorzile, successivamente – come si evince dalle più recenti pronunce – si è resa conto dell’autosufficienza della norma stessa.
A partire dagli anni ‘90, infatti, l’orientamento che si è consolidato nella giurisprudenza di legittimità[1], parametrava l’assenza di mezzi adeguati – requisito richiesto dal legislatore ai fini della valutazione della spettanza dell’assegno divorzile – a qualcosa che la norma non menziona, ossia al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio. In particolare, nella pronunce della Suprema Corte si legge che la concessione dell’assegno «trova presupposto nell’inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, da intendersi come insufficienza dei medesimi […] a conservargli un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, senza cioè che sia necessario uno stato di bisogno, e rilevando invece l’apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle precedenti condizioni economiche, le quali devono essere tendenzialmente ripristinate, per ristabilire un certo equilibrio».
Tra l’altro, il riferimento era non al concreto bensì al potenziale tenore di vita goduto durante il matrimonio, motivo per il quale non era possibile condurre una equazione con lo stile di vita tenuto dai coniugi in quanto quest’ultimo avrebbe potuto essere largamente sottodimensionato rispetto alle potenzialità economiche degli stessi.
Lapalissiana risultava, quindi, la funzione prevalentemente, se non esclusivamente, assistenziale dell’assegno di divorzio che, invece, in punto di quantum debeatur poteva ammontare anche ad una somma inferiore al tetto massimo determinato mediante il riferimento al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio. Infatti, la giurisprudenza, utilizzava il criterio compensativo, il criterio risarcitorio e quello temporale, cui fa riferimento l’art. 5 co. 6, al solo fine di determinare la somma da corrispondere al coniuge debole e non anche al fine di valutare la spettanza della somma stessa.
Tale orientamento è stato, però, recentemente sconfessato – in prima battuta – da una pronuncia della I Sezione civile della Corte di Cassazione (la n. 11504 del 10 maggio 2017). Con un overruling di natura sostanziale, infatti, i giudici di legittimità hanno ritenuto di dover ancorare l’inadeguatezza dei mezzi del coniuge debole non tanto al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio bensì all’esistenza libera e dignitosa.
La ratio alla base di tale decisione è da rinvenire nell’interpretazione costituzionalmente orientata e personalistica della famiglia: pensare che il coniuge forte debba corrispondere all’ex coniuge un assegno che gli consenta di mantenere il tenore di vita goduto durante il rapporto di coniugio, contraddirebbe l’istituto stesso del divorzio. Con il divorzio, infatti, il rapporto matrimoniale si estingue definitivamente sia sul piano dello status personale dei coniugi sia sul piano dei loro rapporti economico-patrimoniali. Pertanto, pur riconoscendo all’assegno di divorzio la natura assistenziale già attribuitagli dalle Sezioni Unite degli anni ’90 e pur rinvenendo il suo fondamento costituzionale nel dovere inderogabile di solidarietà economica – alla luce degli artt. 2 e 23 Cost. –, il parametro cui ancorare l’an debeatur deve tener conto della rilevanza degli, ormai, ex coniugi come persone “singole” e, conseguentemente, la sua spettanza è strettamente correlata all’autosufficienza economica del coniuge richiedente. In un passaggio motivazione, infatti, il Collegio ha precisato che «è necessario soffermarsi sul parametro dell’“indipendenza economica”, al quale rapportare l’“adeguatezza-inadeguatezza” dei “mezzi” dell’ex coniuge richiedente l’assegno di divorzio, nonché la possibilità-impossibilità per ragioni oggettive dello stesso di procurarseli».
Quanto statuito nel 2017 dai giudici della I Sezione civile della Suprema Corte è stato, però, oggetto di revirement ad opera delle Sezioni Unite. Con la sentenza n. 18287 del 2018, infatti, è stato chiarito che in realtà la funzione dell’assegno divorzile è da considerarsi prevalentemente compensativa-perequativa e solo marginalmente (ed eventualmente) assistenziale. Ma come si è giunti ad un capovolgimento di tal fatta?
Secondo le S.U. del 2018 ciò che dà contenuto all’adeguatezza dei mezzi, cui l’art. 5 co. 6 della L. 898/70 fa riferimento, è da ricercarsi direttamente all’interno della suddetta disposizione e non altrove. In particolare: al contributo dato dal coniuge istante alla vita familiare, alla formazione del patrimonio comune e del patrimonio personale dell’altro coniuge (criterio compensativo) nonché alla durata del rapporto di coniugio (criterio temporale). Pertanto, l’assegno divorzile sarà dovuto soltanto laddove lo squilibrio patrimoniale esistente tra gli ex coniugi sia dovuto alla ripartizione dei ruoli endofamiliari avvenuta in costanza di matrimonio, ripartizione che ha portato il coniuge istante a fare delle scelte professionali che si sono ripercosse poi sulla sua capacità reddituale (a titolo esemplificativo: la scelta di occuparsi di tutte le esigenze della famiglia o di accudire i figli a tempo pieno, permettendo così all’altro coniuge di dedicarsi esclusivamente alla professione). Soltanto laddove ciò accada e soltanto laddove ciò sia stato il frutto di scelte condivise, il coniuge istante avrà diritto all’assegno di divorzio. Diversamente, quest’ultimo – almeno nella sua componente compensativa – non gli sarà dovuto; il giudice potrà, al più, riconoscergli una somma parametrata alla mera componente assistenziale dell’assegno laddove egli, autonomamente, non sia in grado di vivere una esistenza libera e dignitosa.
Alla luce di ciò, le Sezioni Unite chiariscono come «il criterio individuato, proprio per la sua natura composita, ha l’elasticità necessaria per adeguarsi alle fattispecie concrete, perché […] non ha quelle caratteristiche di generalità e astrattezza variamente criticate in dottrina».
[1] Il riferimento è, in particolare, alle sentenze – cd. gemelle – delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 11489 e n. 11490 del 29 novembre 1990
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Francesca Zerella
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