Indurre il lavoratore ad accettare condizioni inique sotto minaccia di licenziamento: è estorsione
Con una recente sentenza (n. 37248/22) la seconda sezione penale della Corte di Cassazione ha ribadito il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui “commette il reato di estorsione il datore di lavoro che, approfittando della sua posizione di vantaggio rispetto al lavoratore, lo induca ad accettare condizioni inique e retribuzioni inadeguate sotto la minaccia, se pure celata, di licenziamento”.
La vicenda sottoposta all’attenzione della Corte riguardava il caso di due lavoratori che prestavano servizio oltre l’orario di lavoro, in maniera sostanzialmente ininterrotta, espletando compiti non inerenti alle loro mansioni e senza che venisse loro corrisposta equa retribuzione per le ore lavorative effettivamente espletate.
Nel caso di specie la Suprema Corte ha censurato la motivazione resa dalla sentenza di Appello nella parte in cui escludeva la sussistenza della minaccia facendo leva sulla possibilità di scelta lasciata al lavoratore dal datore di lavoro, quanto alla possibilità di proseguire il rapporto di lavoro o di rispettare le (ingiuste) condizioni di lavoro. L’argomentazione spesa dai magistrati del gravame, però, non considerava che la stessa nozione di minaccia implica proprio che sia rimessa alla vittima del reato la scelta della condotta ultima da adottare, nella consapevolezza che ove questa dovesse essere diversa da quella rappresentata e pretesa dal soggetto attivo, si avrebbe la conseguenza del male ingiusto prospettato. Proprio da tale caratteristica della minaccia discende che l’estorsione è il tipico reato per la cui perpetrazione è richiesta la cooperazione della vittima mediante la coartazione della sua volontà.
Come noto, infatti, il reato di cui all’art. 629 c.p. punisce con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da 1.000 a 4.000 €, innalzata a reclusione da sette a venti anni e a multa da 5.000 e 15.000€ se concorre taluna delle circostanze indicate nell’ultimo capoverso dell’articolo precedente, chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno.
Trattasi di reato comune a condotta vincolata, consistendo, la condotta incriminata, nell’uso di violenza o minaccia diretta, prima a creare uno stato di costrizione psichica e poi ad ottenere un profitto ingiusto con altrui danno. Per la sussistenza del delitto di estorsione non si richiede che la volontà del soggetto passivo, per effetto della minaccia, sia completamente annullata, ma che, residuando la possibilità di scelta fra l’accettare le richieste dell’agente o subire il male minacciato, la libertà di autodeterminazione sia condizionata in maniera più o meno grave dal timore di subire il pregiudizio prospettato; se la minaccia, viceversa, si risolvesse in un costringimento psichico assoluto, si configurerebbe infatti un vero e proprio «impossessamento» e, conseguentemente, con il concorso degli ulteriori presupposti, il diverso reato di rapina.
L’estorsione, pertanto, non si realizza solo mediante prospettazione di un male intrinsecamente ingiusto, potendo la minaccia consistere in un mezzo di coazione lecito (quale il licenziamento) piegato, tuttavia, ad uno scopo illecito (violazione delle norme a tutela dei lavoratori) tale da determinare una pressione psicologica sulla vittima che la induce a fare o ad omettere qualche cosa, nel convincimento che il pregiudizio sopportato (mancata percezione di una retribuzione equa) sia minore rispetto a quello alternativo prospettato dall’agente (licenziamento).
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Donatella Cirocco
Laureata in Giurisprudenza presso l'Università Federico II di Napoli, attualmente praticante avvocato e stagista presso la Procura della Repubblica.
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