Comparazione dei codici etici
di Ciro Punzo[1] e Francesca Di Santo[2]
Sommario: 1. Codice etico negli Stati Uniti d’America – 2. Codice etico nel continente asiatico – 3. Codice etico nel panorama europeo – 3.1. Introduzione – 3.2. Il codice etico in Spagna – 3.3. Il codice etico in Francia – 3.4. L’esperienza di common law: la codificazione etica nel Regno Unito – 3.5. Il codice etico nell’ordinamento giuridico italiano – 4. Analisi analitica dei diversi vantaggi applicativi di un codice etico sinodale nelle relative economie internazionali
Abstract: Il presente lavoro mira a svolgere una comparazione in un panorama internazionale della figura del cotice etico, nonché a suggerire l’applicazione di un codice etico avente carattere sinodale.
Abstract in inglese: This work aims to carry out a comparison in an international panorama of the figure of the ethical code, as well as to suggest the application of an ethical code having a synodal character.
1. Codice etico negli Stati Uniti d’America
Il codice etico è uno strumento largamente utilizzato nelle realtà aziendali del sistema statunitense, quale terreno privilegiato in cui si è sviluppata la business ethics, alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, quale specificazione della c.d. etica applicata[3]. Quest’ultima ha costituito l’asse teorico portante il processo di codificazione, quale “insieme di principi, di norme o di finalità morali relativi ad ambiti particolari dell’esperienza umana”[4], tradotti in concreto in una applicazione in un certo contesto, come – in questo caso – quello aziendale. Il nuovo approccio, teso a riconoscere dimora all’etica di affari entro le dinamiche della governance d’impresa era già stato delineato all’inizio del Novecento, ma i rispettivi studi restarono a lungo confinati entro il pensiero economico-giuridico[5], per poi riemergere nel Secondo dopoguerra ed essere trapiantati tanto nella vicina realtà inglese, quanto nei Paesi di civil law, con differenti apporti e risultati. La ratio sottesa ai primi codici etici della storia americana[6] era quella di contrastare la corruzione, radicata come fenomeno sistemico entro le companies[7] a più alta produttività e con attività fortemente incidenti sul PIL del Paese[8]. Il ricorso ai codici etici è stato previsto ex lege da Foreign Corrupt Practices Act (FCPA) del 1977, modificato a più riprese – sia nel 1988, che nel 1999 –, con l’obiettivo di contrastare la pratica del pactum sceleris tra pubblici ufficiali stranieri e amministratori delle società con sede principale negli Stati Uniti; da questa evoluzione, derivò la prassi contrattuale di inserire clausole ad hoc negli accordi commerciali, con lo scopo di disincentivare il ricorso a pattuizioni (o atti prodromici a esse) di carattere corruttivo[9].
L’iniziativa[10] fu seguita, l’anno successivo, dall’istituzione di un ente governativo con funzioni di (Office of Government Ethics), ossia l’Ethics in Government Act[11] – in vigore dal 26 ottobre 1978 e poi sostituita su base quinquiennale – e dall’emanazione della norma Social Accountability 8000 (SA8000) da parte del Council on Economic Priorities Accreditation Agency (CEPAA), costituito in seno al Council of Economic priorities.La norma stabilisce un protocollo internazionale per l’etica di azienda, individuando una serie di parametri in materia di tutela dei diritti umani e dei lavoratori, da poter considerare in sede di redazione del codice etico, attesa la natura non vincolante della norma.Quest’ultima, infatti, può essere osservata su base consensuale da parte delle imprese, anche individuali, oltre che da associazioni, enti pubblici e organizzazioni di diverse dimensioni e oggetto sociale, ai fini dell’ottenimento di una certificazione rilasciata dalla Social Accountability International – SAI, organizzazione non governativa attiva nella promozione del rispetto dei diritti umani sui luoghi di lavoro[12]. Pur essendo stata elaborata entro il sistema statunitense, la norma propone un modello di condotta fondato su fonti internazionali, quali la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e le Convenzioni OIL, e principi generali del diritto, comuni alle diverse esperienze nazionali, così da assumere un rango sovra-nazionale e poter essere adottata anche da imprese stabilite all’estero. La successiva evoluzione ha coinciso con gli scandali connessi alla presidenza di Ronald Reagan, a cui seguirono, quale rimedio di extrema ratio a fronte della “accentuata richiesta dell’opinione pubblica […] di una più decisa politica di controllo del crimine, di una più severa repressione dei reati e di una piena certezza della esecuzione della pena[13] –, il Sentencing Reform Act (1984), a complemento del Comprehensive Crime Control Act, che operò una sostanziale riforma del diritto penale vigente, rimasto immutato dall’inizio del secolo”[14]. Il Sentencing Reform Act costituì, a sua volta, la base giuridica per l’emanazione delle Federal Sentencing Guidelines (FSG), le quali disciplinano – tra gli altri aspetti – anche quello della responsabilità degli amministratori e dei dipendenti per condotte contra legem, estendendo il proprio ambito di applicazione anche a forme di aggregazione sociale diverse da quella societaria, come nel caso degli enti senza scopo di lucro. Esse miravano a colpire la c.d. criminalità del colletto bianco (white collar’s crimes), ovverosia gli illeciti commessi nell’esercizio di attività economiche da soggetti operanti all’interno dell’impresa (c.d. corporate crimes, commessi da parte di dirigenti societari a favore delle società, nonché i reati delle società stesse)[15]o che esercitano funzioni pubbliche statali. Le Guidelines hanno posto in luce la necessità di prevenire, più che punire, il comportamento illecito e penalmente rilevante, attraverso meccanismi interni alla governance d’impresa e la predisposizione di un programma etico (ethic program), teso a sensibilizzare gli stakeholders al rispetto della legge e dei valori morali non espressamente richiamati dal legislatore. Dunque, un programma con funzione educativa in senso lato rispetto alla cultura delle legalità, di cui si rende portatrice non solo la fonte di rango superiore (legge federale), ma anche ogni atto promanante dall’autonomia privata, quale il codice etico. Quest’ultimo, invero, anche nel sistema statunitense è inquadrato quale atto di autoregolamentazione posto in essere da un soggetto per definire gli standard di comportamento e le norme minime a cui i destinatari devono attenersi. Sul piano formale, il codice etico dovrebbe presentare requisiti minimi di chiarezza e accessibilità per tutti i lavoratori e per i rappresentanti del titolare dell’impresa, costituendo la manus longa di un più ampio e generico compliance program, adeguatamente predisposto al fine di evitare condotte distorsive che potrebbero portare alla commissione di un reato[16]. I limiti correlate all’adozione di un compliance program senza ricorrere ai codici etici sono sottolineati, ex multis, anche dalla International Federation of Accountants (IFAC), la quale si è resa promotrice dell’iniziativa di redigere un codice etico di applicazione settorializzata al proprio ambito di interesse[17], su modello statunitense. Secondo l’IFAC, il solo programma: a) “can address […] a limited set of organizational situations and behaviors, namely, those that can be reduced to simple standards of right and wrong. The most difficult issues faced by employees often involve dilemmas brought on by new technologies, new business arrangements, or cases in which two or more obligations of the standard conflict”; b) “[when it comes to] minimum standards for organizational behavior does nothing to define types of behavior that the organization wishes to encourage. It can direct employees not to mistreat customers, but it cannot help them see how to treat customers well”; c) “may indicate to employees that the program is designed to control their behavior because they are not trusted. This runs directly counter to efforts to empower employees to use their personal judgment in handling the many situations they face daily”; d) “may inadvertently give the impression that the organization wants only minimum behavior, and that employees will not be rewarded for substantial attention”[18]. A livello dottrinale, si afferma che “al fine di creare una vera e propria ‘cultura della compliance’, una società deve andare al di là di mere dichiarazioni di intenti da parte dell’ufficio legale: la leadership aziendale deve realmente fare propria tale politica e informare ad essa i comportamenti di tutti i soggetti interessati, dall’amministratore delegato fino a ogni singolo livello di gestione. In altre parole, vi deve essere la certezza diffusa che la violazione di una qualsiasi norma […] sia intollerabile”[19]. Del resto, compliance program e codice etico rappresentano strumenti complementari, in quanto quest’ultimo non è sufficiente, da solo, soprattutto nelle grandi imprese, ad allineare il comportamento dei singoli alla norma etica, proprio in ragione della minima vincolatività. In questo senso, anche la struttura del codice etico riveste la sua importanza: alcuni commentatori, rilevano infatti che “what ethical issues are addressed in a code and how they are explained have an impact on an ethics policy’s effectiveness. If a code only addresses a narrow set of issues and/or only sets out rules with which the employees are expected or comply, it is unlikely to help create an ethical culture”[20]. I codici etici presentano un ulteriore vantaggio, ovverosia il carattere della flexibility[21],nel senso che devono essere costantemente aggiornati in ragione dei mutamenti che interessano il settore produttivo in cui la corporation esercita la propria attività, che potrebbe essere soggetto a diversi livelli di “rischio criminale” o comunque importare una differente considerazione dei valori tutelati. In particolare, il formante dottrinale statunitense è concorde nel sostenere che “[a]n effective compliance program is more a commitment and process than an exact blueprint for conduct. There are three major components of the process. First, larger organizations are required to develop and review formal written standards and procedures for conduct. A code of ethics by itself is not enough to ensure ethical behavior within an organization or profession. On the other hand, it is possible for an effective code of ethics to provide specific guidelines to address major areas of risk within an entire industry […] Second, organizations must establish and continuously revise guidelines for specific offenses that are most likely to occur due to the nature of its business. For instance, if the organization gives salespeople great flexibility in setting prices, then it must have standards to detect and prevent price-fixing and bid rigging. Price discrimination and human resource issues such as privacy and conflict of interest must be closely monitored by all managers. Finally, the prior history of the organization may indicate offenses for which preventive action should be taken. The recurrence of similar offenses casts doubt on an organization’s effort to prevent misconduct”[22]. Questo iter comporta inevitabilmente che il codice etico predisposto secondo il modello delle Federal Sentencing Guidelines sia “ragionevolmente progettato”, nonché “attuato” e “provvisto di meccanismi sanzionatori”[23]. La deterrenza delle regole in esso contenute è assicurata dalla previsione di punishments a carico del soggetto che viola il codice, così da aumentare la forza vincolante di quest’ultimo oltre il dato dell’adesione a certi valori etici che il corpus normativo rispetta e richiama: si pensi solo al principio di uguaglianza, al rispetto della privacy, alla tutela dell’ambiente o alla protezione della salute sui luoghi di lavoro, assicurata anche attraverso l’osservanza di buone prassi da parte di ciascun dipendente. La definizione di un compliance program che utilizza lo strumento dell’etica in funzione anti-corruttiva si articola in diversi passaggi: come evidenziato dalle stesse Guidelines, il senso stesso del programma richiede un processo che conduca a “prevent and detect violations of law’ […] means that it has been reasonably designed, implemented, and enforced so that it generally will be effective in preventing and detecting criminal conducts. Failure to prevent or detect the instant offense, by itself, does not mean that the program was not effective. The hallmark of an effective program to prevent and detect violations of law is that the organization exercises due diligence in seeking to prevent and detect criminal conduct by its employees and its agents”[24]. In primis, deve essere individuata l’area di rischio, attraverso una analisi dei possibili comportamenti devianti e, dunque, dei reati ipotizzabili ad alta o bassa configurabilità entro lo specifico contesto aziendale; in secondo luogo, si procede ad adottare quelle norme che consentono una riduzione del rischio, così come a istituire un organo di controllo con ruolo di ethical auditing e a nominare una figura apicale quale responsabile dell’attuazione del programma. Il sistema è corredato dalla previsione di un apparato sanzionatorio adeguato, sotto il profilo disciplinare, a colpire la condotta del dipendente contraria ai principi etici aziendali e, soprattutto, alla legge; inoltre, si aggiungono opportune verifiche in termini di accountability[25] e trasparenza.
Questo processo si estende a tutti i rami di impresa, in cui il programma deve essere diffuso, applicato e verificato periodicamente. Come il codice etico che ne rappresenta la specificazione più compiuta, anche il compliance program deve essere modificato, adeguato e aggiornato nel tempo, così da rendersi compatibile non solo con la contingente realtà d’impresa, ma anche con i dettami normativi, in materia di lotta e prevenzione di determinati reati, quali quelli corruttivi. Per la loro importanza e per l’impatto che hanno avuto nel tessuto imprenditoriale statunitense in termini di aumento delle società che hanno adottato codici etici, le FSG sono state definite “l’esperienza più significativa di intervento pubblico volto a incoraggiare e guidare i processi volontari di autoregolazione, in vista della diffusione tra le imprese di ‘migliori pratiche’”, con la “finalità ultima” di mettere i destinatari in condizioni di “migliorare il clima etico interno e di ridurre il bisogno del ricorso alla regolazione statale diventando un “buon cittadino” nella società”[26]. Le FSG hanno costituito una “risposta al deterioramento morale del contesto economico” statunitense, attraversato per un lungo periodo da crisi aziendali, conseguenza dei dissesti provocati dalla mala gestio da parte amministrativa e da “comportamenti irregolari dei vertici aziendali”[27]. Infine, i dipendenti dovranno essere informati (e formati) circa le nuove policies aziendali e le disposizioni contenute nel codice di condotta, quale fase preliminare a quella attuativa, in cui essi potrebbero ricevere anche dei benefici per i comportamenti tenuti, così come i lavoratori in posizione apicale potrebbero incorrere in responsabilità gerarchica per omessa vigilanza ovvero per aver consentito (o impartito di tenere) una certa condotta al soggetto sottoposto, entro l’organigramma del personale aziendale. L’ultimo step – di natura operativa – costituisce uno dei più complessi e delicati per la vita dell’impresa, perché può condurre al fallimento del modello di compliance adottato. Procedendo nell’excursus normativo, l’integrazione della business ethics nel contesto societario è stato ulteriormente dettagliato attraverso una successiva riforma delle Federal Sentencing Guidelines, intervenuta nel 2004 con il Sarbanes Oxley Act (SOX, anche nota con la denominazione di Public Company Accounting Reform and Investor Protection Act), definito come “corporate governance and accounting oversight act”, che incide sui doveri e le responsabilità di vari soggetti, dall’organo esecutivo al board of directors. L’art. 8, par. 2, lettera b), di tale ultima legge effettua un richiamo al concetto di cultura d’impresa, imperniata su un modello valoriale in cui si riconoscano tutti i dipendenti. Grazie al codice etico, questi ultimi sono mossi ad adottare un comportamento positivo e in linea con gli standard previsti dall’impresa, anche in relazione a specifici aspetti, che potrebbero formare oggetto di codici distinti, secondo una classificazione che oppone codici etici “generali”, contenenti norme che insistono su una varietà di aspetti valoriali connessi all’attività di impresa, e codici etici “particolari”, come quelli relativi alla financial ethics, che riguardano i rapporti finanziari e, più nel dettaglio, i doveri dei revisori contabili, in particolare del CFO (Chief Financial Officer). Secondo le nuove Linee Guida, l’impresa dovrebbe: “(1) exercise due diligence to prevent and detect criminal conduct and (2) otherwise promote an organizational culture that encourages ethical conduct and a commitment to compliance with the law”. La compliance rispetto a standard etici impone anche di segnare condotte illecite di cui ogni soggetto operante nell’impresa venga a conoscenza nell’esercizio della propria attività. Da qui, l’esigenza di introdurre una disciplina a tutela del c.d. whistleblowing, prevedendo sanzioni penali a carico di colui che pone in essere minacce o ritorsioni verso il soggetto segnalatore (sezione 1107 del Sarbanes-Oxley Act). Il ricorso a tale strumento repressivo, a fianco delle regole contenute nei codici etici, contribuisce a rafforzare la creazione di un clima valoriale condiviso all’interno della corporation e a innalzare il livello di osservanza delle disposizioni di legge e di autoregolamentazione, accrescendo, così, anche la fiducia degli stakeholders. In chiave comparatistica, si tratta di una prospettiva vicina a quella adottata nel contesto italiano, con opzione a favore del modello preventivo rispetto alla commissione di reati da parte delle persone giuridiche, attraverso l’introduzione di un “sistema di risk management”, poi esteso anche ai reati contro la pubblica amministrazione, nonché disposizioni a protezione del whistleblower[28].
2. Codice etico nel continente asiatico
Nel continente asiatico, il percorso di introduzione di codici etici quale fonte di regolamentazione delle dinamiche interne ed esterne all’impresa è stato influenzato dalla dimensione culturale che sottende alla business ethics. Il ricorso all’etica come strumento per migliorare la governance di impresa appare ancora limitato, al punto che solo alcuni Paesi hanno promosso l’adozione di codici di condotta, funzionali all’auto- disciplina dei dipendenti e dei vertici aziendali, soprattutto con il fine di prevenire la commissioni di reati, primi tra tutti quelli di stampo corruttivo. Tra questi figurano le Filippine, l’Indonesia, la Mongolia, Singapore, la Cina e il Bangladesh, i quali si sono dotati di una disciplina pubblicistica che impone l’osservanza del codice etico ai dipendenti pubblici[29]. Il comune intento di migliorare il clima aziendale, diffondendo una cultura della legalità, ha ispirato iniziative transnazionali, dirette all’elaborazione e applicazione, negli Stati aderenti, di regole di condotta con finalità precipuamente anti-corruttive. È il caso dell’azione promossa, a partire dal 2004, dal Forum on the Implementation of the Asia-Pacific Economic Cooperation (APEC), per favorire la trasparenza e accrescere la competitività delle imprese, abbattendo il fenomeno della corruzione. L’anno seguente, la Task Force istituita in seno all’APEC, costituita da esperti nel settore dell’anticorruzione e trasparenza (ACT), ha sviluppato un Codice di Condotta (c.d. Codice APEC) diretto alle imprese, poi introdotto negli ordinamenti dei Paesi aderenti attraverso un progetto condotto da Australia, Cile e Vietnam nel 2009 (c.d. Progetto Pathfinder). Il codice non è vincolante per gli Stati membri, ma segna un punto di svolta nella sensibilizzazione verso pratiche etiche nella gestione dell’impresa, restando assoggettato al principio del comply or explain[30], elemento di identità che accomuna tutte le esperienze di codificazione etica. Nonostante siffatta iniziativa, i codici etici continuano ad avere un basso tasso di diffusione in alcuni Paesi asiatici[31], per motivi principalmente legati all’assenza di una cultura della legalità, che impone il primato della logica del business, a discapito della tutela delle istanze degli stakeholders. Se l’operato delle multinazionali ha determinato un aumento degli standard di tutela dei diritti umani, soprattutto con riguardo alle condizioni del lavoro[32], ciò non ha comportato ricadute penetranti in termini di adesione a un modello etico similare a quello impiegato negli Stati europei e negli USA, bensì una forma di trapianto di suddetto modello attraverso l’operato delle grandi imprese in sede secondarie stabilite nei Paesi asiatici[33]. A ciò contribuisce l’incidenza del retaggio filosofico e religioso che orienta il modus vivendi della collettività e il modus operandi delle imprese che in essa si inseriscono. Attenzionando, in via emblematica, il caso cinese, emerge come la pratica del Taoismo e del Confucianesimo abbia influenzato la considerazione dell’etica, determinando per lungo tempo un immobilismo in materia di codificazione etica, legato alla necessità di non intraprendere azioni per mantenere l’armonia determinatasi dall’equilibrio (status quo) nei rapporti con gli stakeholders[34]. Per questa ragione, suddetta opera di codificazione non ha origine autonome, ma si pone come un riflesso al rispetto della persona, principio cardine nella cultura asiatica, purtroppo non applicato nel relativo mondo imprenditoriale, se si considera che il principio corruttivo porta inevitabilmente un arricchimento personale a discapito del prossimo.
Codice etico nel panorama europeo
3.1. Introduzione
Il codice etico è approdato con un certo ritardo negli ordinamenti giuridici europei. Invero, la codificazione etica ha rappresentato fino agli Settanta un fenomeno limitato alla sola realtà statunitense, per una varietà di ragioni, tra le quali figurano l’assenza di un interesse scientifico diffuso per l’etica degli affari e, a latere, il mancato recepimento a opera del legislatore delle istanze di riforma sentite a livello internazionale, soprattutto rispetto al problema della corruzione. Più in dettaglio, attenta dottrina ha messo in evidenza come, alla fine del XX secolo, le solide basi di etica di affari consolidatesi negli Stati Uniti non fossero state trasmesse oltreoceano. In Europa, mancava ancora una forma mentis atta a percepire la rilevanza della business ethics e a realizzare il connubio tra istanze economiche e valori morali, soprattutto a causa della mancanza di vincolatività delle norme contenute nei codici etici, i quali essendo carenti sotto il profilo della “chiarezza ed effettività, che sarebbero tipiche della legge” porterebbero a una forma di “autoregolazione […] ingannevole”[35], nel senso di andare incontro al paradosso dell’iper-regolamentazione senza, in realtà, condurre a un’effettiva disciplina dell’assetto degli interessi attenzionato e incidere persuasivamente sul destinatario, al punto di incentivarlo a modificare la propria condotta, allineandola allo standard previsto. L’approccio di soft law costituiva il principale ostacolo all’introduzione di codici etici su modello statunitense – che trovava il suo precursore nella tradizione inglese – soprattutto negli ordinamenti giuridici di civil law, in quanto fondati sulla supremazia della fonte legislativa e poco propensi ad accogliere regole promananti da atti di diritto “morbido”, specie se non emanati da una istituzione sovranazionale. Il codice etico è lo strumento par excellence che si colloca oltre la gerarchia delle fonti, “al di là delle esigenze regolamentari e convenzionali [a] cui [le imprese] devono comunque conformarsi”[36]. Con esso, i destinatari sono chiamati a raggiungere l’ulteriore obiettivo di rispettare norme altre e diverse da quelle di derivazione legislativa; compito della impresa socialmente responsabile sarebbe, quindi, quello di “sforza[rsi] di elevare le norme collegate allo sviluppo sociale, alla tutela dell’ambiente e al rispetto dei diritti fondamentali, adottando un sistema di governo aperto, in grado di conciliare gli interessi delle varie parti interessate nell’ambito di un approccio globale […]”[37]. Inoltre, i codici etici erano ritenuti – a opinione di alcuni commentatori – inconciliabili con la visione propria del cittadino europeo, il quale considera “la ricerca del profitto e del benessere come qualcosa di moralmente ambiguo, in parte a causa dell’influenza dei valori aristocratici e pre-capitalisti: il che l[o] rende […] facilmente sorpres[o] […] quando scopr[e] che dirigenti o aziende si sono comportati avidamente”[38]. Non potendosi del tutto accogliere questa ricostruzione di impronta generalista, le ragioni più profonde del mancato interesse per la quaestio etica – soprattutto da parte del formante legislativo – si rinvengono nell’incidenza della Comunità europea a presidiare le dinamiche commerciali tra gli Stati membri, oltre qualsivoglia logica valoriale che non fosse quella derivante dalle rispettive tradizioni costituzionali, in una prospettiva di dialogo tra esse. Questo dato si rileva tanto dal testo del Trattato di Roma, quanto dagli atti di diritto derivato, che non si occupano di possibili integrazioni tra dinamiche economiche del mercato interno e principi etici. Una apertura, per quanto forzata, verso una visione di questo tipo potrebbe essere intravista nelle eccezioni ammesse dal Trattato al divieto di ostacolare la libera circolazione delle merci –quale caposaldo dell’unione economica e doganale propria dell’ordinamento comunitario –, oggi previste dall’art. 36 TFUE, che contempla la necessità di tutelare valori etici oltre la dinamica del commercium: dalll’ambiente alla salute, fino alla moralità pubblica. Solo con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, con la conseguente Carta di Nizza e con l’implementazione della relativa Strategia – complice anche il trapianto delle teorie di Corporate Social Responsability entro gli ordinamenti nazionali –, si è verificata una evoluzione verso la previsione di una nuova “etica di impresa”, inserita negli obiettivi strategici dell’UE, con linee guida dirette agli Stati membri, che si rendono così portatori di una nuova cultura di impresa la quale, grazie ai principi di uguaglianza, dignità e solidarietà sanciti dalla citata Carta di Nizza, riesce ad avvicinare i due poli apparentemente opposti dello scopo lucrativo e del fine solidale. A partire da alcune iniziative con valore informativo e raccomandatorio realizzate dalla Commissione, è stato costruito un quadro UE in materia di condotta etica delle imprese, ricondotto anche al rilancio delle buone pratiche di concorrenza, secondo il principio per cui la condotta socialmente responsabile delle imprese “possa fornire un contributo essenziale allo sviluppo sostenibile rafforzando al tempo stesso il potenziale innovativo e la competitività dell’Europa”[39].
3.2. Il codice etico in Spagna
Quanto all’ordinamento spagnolo, lo strumento del codice etico (Código de Ética y Conducta) è utilizzato quale strumento di compliance (c.d. cumplimiento normativo), introdotto da due interventi normativi in materia di responsabilità penale delle persone giuridiche, ex art. 31-bis Código Penal (“El que actúe como administrador de hecho o de derecho de una persona jurídica, o en nombre o representación legal o voluntaria de otro, responderá personalmente, aunque no concurran en él las condiciones, cualidades o relaciones que la correspondiente figura de delito requiera para poder ser sujeto activo del mismo, si tales circunstancias se dan en la entidad o persona en cuyo nombre o representación obre”): la Ley organica n. 1 e la Ley organica n. 5, entrambe emanate nel 2005. Anche in questo caso, come in Italia e nelle esperienze extra-europee, si dimostra come il ricorso alla codificazione etica sia sostanzialmente legato alla necessità di prevenire la commissione di reati da parte della società o di soggetti in essa operanti. Grazie ai sistemi di compliance, è garantito un controllo interno all’impresa non solo con riguardo all’osservanza della legge, ma anche rispetto allo standard di comportamento richiesto dal codice etico, che si ispira spesso (ma non necessariamente) ai valori fondanti il quadro normativo (si pensi solo al principio di non discriminazione o alle policies anti-violenza sui luoghi di lavoro). Il sistema di gestione e contenimento del rischio si fonda sull’esame delle attività svolte dall’impresa, a cui segue una valutazione del pericolo di commissione (risk assessment), nonché l’elaborazione e attuazione del compliance program, che prevede anche l’adozione di un codice etico, considerato una fonte di autoregolamentazione indispensabile per la vita societaria e il mantenimento di elevati livelli di trasparenza nei confronti di tutti gli stakeholders. In caso di sospetta violazione del codice, il compliance officer conduce una serie di indagini, anche assumendo informazioni dall’organo amministrativo, prima di irrogare una sanzione a carico del soggetto che abbia tenuto una condotta non conforme agli standard previsti dal codice etico. Sul piano storico, l’apertura della Spagna all’adozione dello strumento codicistico, quale fonte di autodisciplina e mezzo di corporate governance – “la cui inosservanza deve essere motivata”[40], secondo la regola del cumplir o explicar, pur restando il Codice non obbligatorio e mancando di forza di legge[41] –, era già avvenuta alla fine degli anni Novanta del secolo scorso, con l’adozione del c.d. Código Olivencia (1998), che trae la denominazione dal cognome dell’esperto di diritto commerciale, il Professor Manuel Olivencia, Presidente di una Commissione ad hoc istituita dal Governo per la redazione del codice stesso[42]. Il Codice è diretto tanto alle società quotate, quanto a quelle non operanti nei mercati regolamentati, e contiene raccomandazioni dirette ad aumentare la fiducia degli stakeholders (soprattutto investitori e piccoli risparmiatori) attraverso l’adozione di un nuovo modello di governance, fondato sul controllo e sul principio della trasparenza, poi dettagliato e rinnovato dal successivo Informe Aldama, elaborato da una Commissione speciale istituita dal Consiglio dei ministri il 19 luglio 2002447. Esso contiene “reflexiones y recomendaciones”[43] per la riforma del Código Unificado de buen gobierno (2003), il cui ambito di applicazione è limitato alle sole società quotate e ai “los partícipes en los mercados de capitales”, e si affianca alle iniziative intraprese dal Governo a favore di una codificazione etica privatistica, che valorizzi la Corporate Social Responsability delle imprese.
3.3. Il codice etico in Francia
I codici etici di area francese sono eredi di una tradizione attenta alle problematiche del governo di impresa. La Francia, infatti, accanto al Regno Unito e agli USA, è stata tra i primi Paesi occidentali a promuovere sistemi di corporate governance fondati sulla considerazione degli stakeholders, quali soggetti incidenti sulle dinamiche d’impresa, e sulla necessità di promuovere la trasparenza e l’accountability. In questa dimensione, la necessità di ricorrere ai codici etici è stata riconosciuta come prassi consolidata nella vita delle imprese, soprattutto dal formante dottrinale[44]; manca, invece, da parte legislativa, una specifica attenzione per la questione e, dunque, un riconoscimento normativo – e, quindi, una collocazione precipua entro la gerarchia delle fonti – del codice etico aziendale. Per tratteggiare il percorso che ha portato la dottrina ad attenzionare la problematica etica e a introdurla entro il dibattito degli interpreti, occorre ricordare come primi tratti regolamentarii tesi ad assicurare il rispetto di standard etici a opera delle imprese, soprattutto in tema ambientale e sociale, siano rinvenibili nella Loi n. 2001-429, emanata il 15 maggio 2001, e nella Loi n. 2003-706 del 1° agosto 2003, sulla contabilità e i sistemi di controllo (audit), esterno e interno. A latere, si pongono le norme del Code du Travail, che impongono il rispetto di condizioni minime da parte degli emplyoiee dirette a garantire il rispetto dei diritti dei dipendenti, anche in termini di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro. Tali norme sono, a loro volta, richiamate dai codici etici e da un documento affine adottato dal datore di lavoro della singola impresa e definito règlement intérieur. Quest’ultimo, ai sensi dell’art. 1321-1 del Code du Travail, viene redatto dal datore di lavoro per assicurare, nello svolgimento dell’attività d’impresa, che siano rispettate: “les mesures d’application de la réglementation en matière d’hygiène et de sécurité”, nonchè “les conditions dans lesquelles les salariés peuvent être appelés à participer, à la demande de l’employeur, au rétablissement de conditions de travail protectrices de la sécurité et de la santé des salariés dès lors qu’elles apparaîtraient compromises” e “les règles générales et permanentes relatives à la discipline, et notamment la nature et l’échelle des sanctions que peut prendre l’employeur”. Tale regolamento si distingue dal codice etico letteralmente detto perché trova riconoscimento in una norma di legge, che ne sottolinea la natura giuridica: si tratta di una fonte di rango sotto-ordinata, a livello gerarchico, tanto alla legge quanto ad altri regolamenti, e non potrà contrastare con i contratti collettivi di lavoro e altre disposizioni aventi forza di legge. Questa precisazione, contenuta nell’art. L.1321-3 del Code du travail, si estende anche a tutti i documenti annessi al regolamento, quali gli allegati o eventuali successivi atti di analogo tenore. Discussa è, inoltre, la possibilità di controllare l’effettivo rispetto del regolamento da parte dell’impresa, con una sfumata forma di enforcement che conduce ad avvicinare il modello appena descritto di autodisciplina a quella propria del codice etico. Parte della dottrina propone, quale rimedio, quello di sottoporre l’applicazione del regolamento a controllo giurisdizionale, strada che – ad oggi – non risulta praticabile non solo per la mancata disposizione di legge, ma anche per l’ostacolo costituito dalla natura giuridica del regolamento, che resta un atto unilaterale emanato da parte del datore di lavoro con funzione di autocontrollo dell’attività di impresa, restando lontano da qualsiasi rilievo pubblicistico[45]. Riterrei però, data l’esistente normativa, che gli organi preposti alle attività dichiarate dal datore di lavoro nel regolamento potrebbero d’ufficio svolgere opportuni controlli in merito. Disciplina diversa deve essere applicata alle pubbliche amministrazioni le quali, essendo datori di lavoro, devono essere soggetti a controlli da parte della Funzione Pubblica. Altra dottrina evidenzia come il regolamento non abbia la stessa forza vincolante del contratto, che impone la partecipazione di una contro-parte (il lavoratore), assumendo la caratteristica della bilateralità. Un attento commentatore aderente a questo orientamento sostiene che “si l’employeur se lie lui-même, soit en instituant un droit (comme le «droit à l’entretien d’appréciation» déjà cité) soit par une qualification juridique (comme la qualification de faute professionnelle), on a affaire à une véritable règle de droit susceptible d’être invoqué par le salarié (pour bénéficier de ce droit ou exciper de cette qualification) […] Si au contraire ces normes ne lient aucunement l’employeur, on a affaire à de simples actes de gestion, qui visent à normaliser le comportement des salariés. On quitte alors le domaine du droit pour le domaine des faits. Ces règles de normalisation participent de l’ensemble plus vaste de la pratique du pouvoir de direction”[46]. Quanto, invece, ai codici etici in senso proprio, essi assumono una diversa denominazione (da charte éthique a code de conduite) e, al pari di quanto osservato per altri ordinamenti giuridici, non presentano un contenuto specifico, potendo essere lo stesso rimesso alla discrezionalità del soggetto emanante, fermi restando i limiti imposti ex lege in ordine all’impossibilità che l’attività di impresa sia condotta contrariamente alla legge stessa. La varietà contenutistica dei codici è confermata anche dal formante dottrinale, che evidenzia come essi siano diretti a regolamentare aspetti già attenzionati dal legislatore, calandoli nella rispettiva realtà d’impresa, con particolare riguardo ai seguenti aspetti: “Les conflits d’intérêts; les délits d’initiés et la détention d’informations privilégiées; la transparence et l’exactitude des données transmises par le collaborateur; la protection des informations et de la propriété intellectuelle; l’utilisation des actifs de l’entreprise; les liens de dépendance avec les fournisseurs/clients, notamment les règles concernant l’offre ou l’acceptation de cadeaux, les invitations […] ; la corruption”[47]. Tale elencazione risulta esemplificativa, ma non esaustiva, potendo l’oggetto (e l’impatto) del codice etico estendersi fino a considerare specifiche e innominate esigenze degli stakeholders della impresa, per esempio in materia di tutela ambientale o rispetto del principio di non discriminazione. Anche la dottrina francese è concorde nel sostenere, parimenti al formante dottrinale dominante in altri ordinamenti di civil law, che i codici etici restano una fonte di auto-regolamentazione privatistica, priva di carattere vincolante, ovverosia di autorités de fait[48].
3.4. L’esperienza di common law: la codificazione etica nel Regno Unito
Attenzionando, l’esperienza di common law entro il panorama europeo dei codici etici, è possibile ravvisare somiglianze tra la realtà inglese e quella americana, per ragioni storiche e affinità di tradizione giuridica che segnano un analogo atteggiamento di apertura verso l’integrazione dell’ethics entro la governance di impresa. Nel Regno Unito, il fenomeno della codificazione etica si inserisce entro un quadro giuridico ricco e cospicuo: solo considerando il scorso secolo, possono menzionarsi i Companies Acts del 1948 e del 1967, nonché quelli emanati nel 1985 e, infine, nel 2006. Siffatto corpus normativo deve essere letto in combinato con la legislazione anti-corruzione, che trae le mosse dal Public Interest Disclosure Act (PIDA), emanato nel 1998 con lo scopo di bilanciare l’interesse pubblico alla prevenzione e repressione dei reati con quello di non rivelazione delle informazioni apprese in virtù di un rapporto di lavoro. In assenza di adeguate tutele, al whistleblower non era riconosciuta una protezione “proporzionata al rischio assunto con la segnalazione” e ciò riduceva i casi di “denuncia degli illeciti commessi all’interno dell’azienda”, per timore di ritorsioni da parte dei datori di lavoro, così creando un terreno fertile per l’assunzione di condotte contra legem entro il contesto aziendale. Si tratta di interventi normativi tesi a innalzare gradualmente il livello di trasparenza e accountability entro le corporations, in ossequio alla stakeholder theory, che ha gradualmente superato l’impostazione pro-shareholders, accentuativa di una logica di business tesa alla remunerazione dei soli azionisti o, comunque, a valorizzare l’interesse egoistico dell’impresa a perseguire un profitto, senza considerazione di valori altri e diversi. Questa inversione di rotta emerge, con chiara evidenza, dalla sezione 172 del Companies Act (2006), rubricata Duty to promote the success of the company, la quale pone una serie di doveri in capo ai vertici aziendali, tra cui alcuni orientati a perseguire finalità di tipo superindividuale, quale la protezione dell’ambiente. Invero, il primo paragrafo della sezione 172 stabilisce: “A director of a company must act in the way he considers, in good faith, would be most likely to promote the success of the company for the benefit of its members as a whole, and in doing so have regard (amongst other matters) to (a) the likely consequences of any decision in the long term, (b) the interests of the company’s employees, (c) the need to foster the company’s business relationships with suppliers, customers and others, (d) the impact of the company’s operations on the community and the environment, (e) the desirability of the company maintaining a reputation for high standards of business conduct, and (f) the need to act fairly as between members of the company”[49]. Il focus sull’importanza di tenere condotte etiche nell’amministrazione dell’impresa è stato evidenziato non solo dal legislatore, ma anche da soggetti promotori di iniziative di autoregolazione, determinandosi così una stratificazione delle fonti da cui derivano obligations di natura etica a carico delle imprese. In questo ambito rileva, in particolare, il ruolo svolto dal Financial Reporting Council (FRC), autorità di regolazione indipendente nel settore contabile, la quale ha proposto, nel tempo, vari modelli di governance codes, che integrassero negli obiettivi propri delle companies anche scopi tesi alla tutela del bene comune. Da ultimo, il FRC ha emanato un Codice di Stewardship, il cui ambito di applicazione soggettivo è limitato alle società assicurative, ai gestori di fondi e ad altre companies operanti nel settore dei servizi (service providers). Esso sostituisce il previgente codice del 2012, a sua volta seguito al codice del 2002, ma ne conserva la struttura, articolata per principii non vincolanti. La ratio di questi ultimi, sui quali fondare le norme etiche da trasfondere nei singoli codici aziendali, è ravvisata dalla stessa FCA nell’esigenza di attenzionare valori con cui l’attività di impresa può entrare in collisione, motivo per cui è richiesto agli operatori economici che aderiscono al Codice di fornire un adeguato reporting sull’attuazione dello stesso. Lo schema proposto dalla FCA non ha valore vincolante. La sua efficacia dipende dalla comune volontà dei soggetti destinatari: nella specie, “asset owners”, “asset managers” e “service providers” che dovrebbero operare in collaborazione reciproca entro la comunità (finanziaria) di riferimento. Tuttavia, l’impresa deve manifestare l’eventuale opzione a favore di policies e modelli di governance non conformi agli standard minimi previsti dal codice, nel senso di giustificare l’allontanamento da questi ultimi. Si applica, quindi, il sistema del complain or explain, già previsto, a livello di legislazione nazionale, quale strumento atto a responsabilizzare le companies, chiamate a fornire adeguate motivazioni della loro condotta. Tale meccanismo non è unicamente impiegato nel Regno Unito: esso, come evidenziato in precedenza, è utilizzato anche in Spagna, ed è stato richiamato anche dal legislatore europeo, all’art. 7, comma 1, lett. b) della Direttiva 2006/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, emanata il 14 giugno 2006, ai sensi del quale quando “una società, a norma del diritto nazionale, si discosta dal codice sul governo societario […] [essa] rende noto da quali parti del codice di governo societario si discosta e i motivi di tale scelta. Laddove la società abbia deciso di non applicare alcuna disposizione di un codice di governo societario […] ne spiega i relativi motivi”. Come sottolineato dalla Financial Conduct Authority (FCA), le imprese con sede sul territorio britannico dovranno indicare i motivi che hanno determinato la mancata applicazione delle regole di cui al Codice, pur restando quest’ultimo un atto privo di obbligatorietà in senso stretto. Il Codice di Stewardship si pone in dialogo con un altro strumento elaborato dal FRC: si tratta dello UK Corporate Governance Code, adottato nel 2016, e poi sostituito da una nuova versione a luglio 2018, entrata in vigore dal 1° gennaio 2019. Esso riprende l’assetto strutturale dello Stewardship Code, ma aggiunge anche alcune disposizioni – di natura parimenti non binding per le imprese –, definendole letteralmente provisions. Il punto di partenza del Governance Code è simile a quello del Codice di Stewardship, ovverosia istituire un ponte di collegamento tra le imprese e il contesto in cui esse si inseriscono, mettendo in rilievo l’importanza di considerare gli interessi di cui tutti coloro che entrano in contatto con le companies e la collettività, in generale, sono portatori. Questo elemento emerge nelle premesse del Codice, in cui la FRC sostiene che le società non sono “isolate”, né tra di loro, né rispetto al contesto culturale e sociale in cui si trovano a operare. Essa prosegue, poi, con l’affermare: “[s]uccessful and sustainable businesses underpin our economy and society by providing employment and creating prosperity. To succeed in the long-term, directors and the companies they lead need to build and maintain successful relationships with a wide range of stakeholders. These relationships will be successful and enduring if they are based on respect, trust and mutual benefit. Accordingly, a company’s culture should promote integrity and openness, value diversity and be responsive to the views of shareholders and wider stakeholders”[50]. Si tratta di un approccio che richiama, in parte, quanto affermato dal formante dottrinale italiano, che si sofferma sull’applicazione della teoria degli stakeholders come motore portante il cambiamento verso il recupero dell’etica nella governance aziendale. Se nella vita di un’impresa è sempre “opportuno identificare i fattori critici di successo per ogni gruppo di stakeholder e ogni area di interesse[51]” e “[p]er costruire un canale di dialogo continuo con gli stakeholder bisogna dotarsi di una struttura organizzativa coerente: una struttura stakeholder oriented”, quest’ultima non potrà fare a meno della codificazione etica, per poter adeguatamente funzionare. L’esperienza inglese insegna, in questo senso, che è possibile far discendere dai codici un minimo grado di osservanza di regole etiche, connesso all’esigenza di spingere le imprese – in caso contrario – a motivare la mancanza di compliance e, più in generale, la non volontà di sottoporsi a un decalogo di principii che renderebbero la governance non solo socialmente responsabile, ma anche più effettiva a sostenere la competizione sul mercato. Del resto, le imprese che adottano i codici etici, ne riconoscono l’importanza anche in termini di strumento di tipo informativo (“communication tool”), che consente di adeguare la mission aziendale (valori interni) alle istanze provenienti dall’estero, in primo luogo dagli stakeholders. Questo approccio è stato recentemente confermato dal nuovo Codice di Autodisciplina (Corporate Governance Code), emanato dal FRC, a modifica del testo previgente, che risale al Cadbury Code del 1992. Esso è stato applicato a partire dal 1° gennaio 2019, con un ambito di applicazione circoscritto alle società quotate in borsa. Sul versante contenutistico, il Corporate Governance Code delinea una serie di parametri che queste ultime sono chiamate a rispettare nei rapporti con azionisti, dipendenti e altri stakeholders, aprendo ancora di più il catalogo tematico dei valori contemplati dal codice etico aziendale, già di per sé più ampio se raffrontato a quello di altre realtà nazionali.
3.5. Il codice etico nell’ordinamento giuridico italiano
La codificazione etica nel contesto italiano segue una duplice traiettoria, che distingue in due sentieri l’esperienza pubblica da quella privata. Storicamente, essa ha inizio alla fine del secolo scorso, “quando la comunità economica avverte che l’opinione pubblica, scossa da numerosi scandali verificatisi in quel periodo [emblematicamente, quello di Tangentopoli], si interroga sulle regole negli affari e chiede nuove norme di correttezza e trasparenza nei rapporti tra imprese e politica”[52]. Come negli Stati Uniti, i codici etici sono stati introdotti nell’ordinamento giuridico nazionale come mezzo attraverso il quale rimediare a situazioni criminose radicate entro la prassi di certe imprese, e solo in secondo luogo e per ciò che concerne i codici pubblici, quale strumento di miglioramento dell’efficacia dell’azione amministrativa e di prevenzione dei reati contro la PA, in primis quelli di stampo corruttivo, in senso coerente con lo sviluppo del diritto internazionale e le iniziative promosse dai legislatori di altri Paesi. Tali codici hanno formato oggetto di attenzione normativa a partire da una proposta presentata dal Dipartimento della Funzione Pubblica nel 1993 (c.d. proposta Cassese)[53], con l’obiettivo di “ricostruire una deontologia del pubblico impiego”. A essa seguì l’adozione del Codice di comportamento, avvenuta con Decreto ministeriale n. 149 del 31 marzo 1994, poi modificato con Decreto del Ministro per la Funzione Pubblica del 28 novembre 2000. In seguito, il panorama delle fonti si è arricchito grazie a un atto normativo di portata immediatamente precettiva – nella specie, il D.P.R. 62/2013 (Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, introdotto dall’art. 1, comma 44, L. n. 190/2012476) – e con i singoli codici adottati dalle varie amministrazioni ex art. 54 del Testo Unico sul Pubblico Impiego (D. Lgs. n. 165/2001), il cui primo comma riconosce nel codice lo strumento più adatto a perseguire l’obiettivo di “assicurare la qualità dei servizi, la prevenzione dei fenomeni di corruzione, il rispetto dei doveri costituzionali di diligenza, lealtà, imparzialità e servizio esclusivo alla cura dell’interesse pubblico”. La norma prosegue ponendo un accento sulla funzione deterrente svolta dal codice etico, soprattutto rispetto alla commissione di reati corruttivi: esso deve contenere una “specifica sezione dedicata ai doveri dei dirigenti, articolati in relazione alle funzioni attribuite, e comunque prevede[re] per tutti i dipendenti pubblici il divieto di chiedere o di accettare, a qualsiasi titolo, compensi, regali o altre utilità, in connessione con l’espletamento delle proprie funzioni o dei compiti affidati, fatti salvi i regali d’uso, purché di modico valore e nei limiti delle normali relazioni di cortesia”. In ambito privatistico, la possibilità di ricorrere allo strumento della codificazione etica è stata introdotta con il già citato D. Lgs. n. 231/2001, il quale – come osservato dalla Suprema Corte – “sanci[sce] la morte del dogma societas delinquere non potest”[54]. Esso ha portato anche alcuni enti territoriali (soprattutto, Regioni) a dotarsi di propri statuti conformi alla normativa statale: tra queste, la Regione Lombardia, ha reso obbligatorio l’adozione del modello ex lege con una delibera ad hoc, rivolta alle strutture sanitaria[55], introducendo un sistema di compliance sul modello 231[56]. I codici etici di derivazione privatistica presentano contenuto variegato, seppure ispirato latamente a quelli di marca pubblicistica: infatti, questi ultimi non differiscono dai primi, se non quanto al carattere della vincolatività nei confronti del destinatario, rispondendo alla ratio di adottare uno “strumento efficace nei confronti di coloro che non si adeguano spontaneamente a principi che dovrebbero essere connaturali, conosciuti e seguiti non solo senza alcuna imposizione, ma con fierezza e personale impegno da chi è posto al servizio dei cittadini”[57] e anche da soggetti che non occupano un ruolo pubblico, quali i dipendenti di una impresa. Sotto il profilo contenutistico, le obligations discendenti dal codice etico si imperniano su un modello a cinque livelli. Esse attengono, rispettivamente: a) alla mission aziendale, che si concreta in alcuni principi di carattere generale; b) alle “norme etiche per le relazioni dell’impresa con i vari stakeholders”; c) ai parametri di comportamento che richiamano il rispetto per i diritti umani ed, eventualmente, anche i doveri imposti dal quadro normativo nazionale (per esempio, in materia di protezione dei dati personali o di protezione della salute); d) alle conseguenze disciplinari discendenti dalla violazione delle norme codicistiche; e) alle modalità attuative del codice entro il contesto della singola impresa. Le norme etiche sono espressione della deontologia aziendale e, dunque, restano assoggettate a un controllo di Organismo di vigilanza, quanto alla loro osservanza da parte dei destinatari, pur non imponendosi come obbligatorie. Infine, giova ricordare che in giurisprudenza è stato rilevato come la pubblicità del codice etico non sia necessaria, quando è dimostrato che la condotta punita “sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecit[a], perché contrari[a] al c.d. minimo etico o a norme di rilevanza penale”. In tali casi, “il lavoratore ben può rendersi conto, anche al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, della illiceità della propria condotta”[58].
4. Analisi analitica dei diversi vantaggi applicativi di un codice etico sinodale nelle relative economie internazionali
Dall’analisi delle varie esperienze nazionali, emerge come il processo di elaborazione e applicazione di regole etiche alla vita di impresa sia estremamente variegato e complesso. Esso, invero, non si esaurisce nella definizione di modalità comportamentali e standard valoriali, il cui rispetto si impone al singolo, ma nella previsione più estesa di un regime di responsabilità a carico dell’intera societas, che di quelle condotte e regole etiche si rende portatrice a fronte della collettività. Ogni forma di codificazione etica si è declinata in modo diverso, non solo a fronte del differente contesto normativo e – lato sensu – sistema giuridico in cui si inseriva, ma anche in considerazione del tessuto sociale in cui le norme etiche trovavano implementazione. Marcate distinzioni emergono con riguardo al retaggio storico della codificazione, che ha interessato gli Stati Uniti quale Paese di origine del fenomeno e patria del sostrato teorico su cui esso è stato costruito, per poi estendersi ad altre tradizioni, culturalmente distanti non solo tra loro, ma anche dal modello occidentale di cui gli USA si rendevano portatori, come nel caso della Cina. Siffatto iter a spirale, ha determinato l’emersione di diverse “isole etiche”, tra loro non comunicanti, anche a causa della a-sistematicità della materia e dell’assenza di una normativa internazionale specificatamente dedicata ai profili etici del commercium. Del resto, l’attenzione del legislatore sovranazionale è maggiormente diretta alle questioni transfrontaliere dell’attività d’impresa, il che spiega – in parte – anche l’assenza di una precipua normativa internazionale dedicata all’etica, oggetto di qualche disposizione inserita in varie convenzioni, senza però addivenire a una soluzione organizzata. A rafforzare tale chiusura, contribuisce il rilievo squisitamente endo-societario del codice etico, il quale resta un decalogo da applicarsi all’interno della singola impresa, senza avere una capillarità diffusa, neanche se fondato su un modello previsto ex lege, come il codice di condotta dei dipendenti pubblici nel sistema italiano. Come evidenziato dalla lettura comparatistica sopra proposta[59], ciò “rende arduo qualunque tentativo di sistematizzazione; ciascun ordinamento […] attua modelli ‘ibridi’, e a profili value-based si associano elementi rule-based”[60]. A tali barriere oggettive, si contrappongono una serie di aperture a favore di un codice etico comune, concordato da tutti i soggetti in base a un principio volontaristico, che potrebbe assumere portata internazionale. Infatti, un’attenta indagine comparatistica importa la considerazione dei codici etici come espressione di una identica ratio auto-regolamentatrice e risultato della necessità di sradicare – o, quanto meno, evitare – il rischio di lesione di diritti, libertà e valori non solo individuali, ma anche collettivamente parte di un bagaglio condiviso a livello internazionale. Dalla tutela dell’ambiente alla protezione dei lavoratori, i principi a cui si ispirano i codici dimostrano l’impossibilità di rinunciare all’etica e l’urgenza di trarre da essa un quadro regolatore adeguato alla vita dell’impresa, ma anche alla società stessa. Il punto di equilibrio tra le diverse istanze può essere raggiunto nella stessa sede da cui promanano i suddetti principi, poi trasfusi nei codici, ovverosia entro la dimensione ultra-individuale. Sul piano operativo, il ricorso a strumenti di diritto internazionale per delineare una serie di disposizioni sulla codificazione etica costituirebbe una valida soluzione per superare la frammentazione e la disomogeneità delle scelte adottate dalle imprese ovvero dai singoli legislatori – laddove fosse prevista una normativa ad hoc per l’adozione dei codici o, a livello più generale, per la predisposizione di compliance programs di orientamento alla condotta dei dipendenti e degli operatori che partecipano all’impresa, così come di standard di due diligence per la responsabilità sociale d’impresa. La natura di tali principi potrebbe variare in ragione del favore per una maggiore o minore vincolatività della soluzione scelta. Da un lato, infatti, potrebbe rendersi praticabile l’avviamento di trattative per la conclusione di un trattato internazionale, che possa uniformare il settore entro certe regole di base, da attuare in ogni Stato membro. Dall’altro, una opzione più facilmente sostenibile e meno onerosa, anche sotto il profilo dei negoziati, potrebbe essere rappresentata dall’emanazione, da parte di un organismo ad hoc di natura privatistica o da una organizzazione internazionale, di una serie di Guidelines o Principi Comuni che, sebbene non obbligatori per i destinatari, potrebbero dare vita a un atto di soft law dalla forza raccomandatoria penetrante, come accaduto già in materia commerciale con i Principi Contabili Internazionali o con i Principi Unidroit. La prima alternativa potrebbe comportare ricadute positive in termini di omogeneità della regolamentazione, ma determinerebbe il correlativo effetto di una limitata erosione della sovranità nazionale, in un ambito tradizionalmente connotato per territorialità. In altri termini, essa contribuirebbe a porre in risalto le differenze emergenti oltre il “nocciolo duro” delle disposizioni pattizie oppure potrebbe esporsi al pericolo di essere strumento a basso tasso (almeno iniziale) di ratifica da parte degli Stati che desiderano rinunciare al proprio modello di codificazione etica. Il discrimen tra gli istituti di diritto commerciale presenti nei vari ordinamenti giuridici – si pensi solo alla distinta disciplina delle società – renderebbe ancora più complesso poter piegare la legislazione interna a nuovi e diversi standard. Invece, la seconda soluzione sembrerebbe la più idonea a intercettare l’esigenza di mantenimento del dominio riservato degli Stati, temperando quest’ultimo con interventi uniformatori minimi, ma non prescrittivi. Dall’assenza di normatività, però, potrebbe discendere una maggiore flessibilità da parte dei legislatori statali ad adattarsi al modello sovranazionale: emblematico è, a questo riguardo, il successo ottenuto dalle Linee Guida OCSE sulle imprese multinazionali. Per quanto entrambe le strade possano apparire percorribili, non mancano criticità che potrebbero condurre a una terza via, in aperta mediazione tra le due sopra menzionate e individuata nelle opportunità offerte da un codice etico sinodale, mutuando così la soluzione dal diritto canonico. In altre parole, si potrebbe pensare ad una legislazione comunitaria che promulghi, previo dialogo, i principi base di una corretta regolamentazione etica, lasciando ai singoli Stati membri la formulazione di legislazioni integrative, le quali devono prevedere modalità operative per la formazione di una unanime volontà da parte dei portatori di interesse nella redazione del codice etico. In altre parole, il dialogo e la fiducia reciprocante sono alla base per un progetto codiciale etico – sinodale. I principi di una business ethics di derivazione sinodale quindi potrebbero essere recepiti, a livello microscopico, entro gli ordinamenti nazionali come soft law di stampo canonico, di valore raccomandatorio per le imprese, con il vantaggio di accumunare le realtà aziendali presenti in tutto il mondo e unite dall’osservanza del camminare sinodalmente.
[1] Dottore di Ricerca in Scienze Economiche e Politiche IUS Sophia. POST DOC in Diritto Privato in corso.
[2] Dirigente ASL
[3] H. Bowen, Social Responsibilities of the Businessmen, New York, 1953, p. 6, il quale sostiene che “those policies, to make those decisions, or to follow those lines of action which are desiderable in terms of the objectives and values of our society”. La portata di questo goal, come evidenziato già nel secondo capitolo di questa trattazione, delinea i margini della Corporate Social Responsability, la quale presenta carattere multiforme, non restando limitata al campo etico-giuridico ovvero etico-economico, ma intercettando le “aspettative” che la società proietta sugli organismi collettivi quali espressione di un aggregato di interessi comuni a più persone, secondo il concetto non molto lontano di societas (cfr. A. B. CARROLL, The Pyramid of Corporate Social Responsibility: Toward the Moral Management of Organizational Stakeholders, in Business Horizons, 1991, p. 42). Per una ricognizione bibliografica dei principali materiali dottrinali sull’etica degli affari negli Stati Uniti negli anni Ottanta, si veda G. J. DONALD, A bibliography of business ethics, 1981-1985, Mellen Press, New York, 1986.
[4] B. LAPENNA, Etica, Intangible Assets e Performance aziendali, Edizioni Fahrenheit, Roma, 2012, p. 14.
[5] Si veda lo studio analitico condotto da M. HEALD, The social responsibilities of business: Company and community, 1900–1960, Case Western Reserve University Press, Cleveland, 1970.
[6] Se si esclude il caso del primo codice etico in assoluto, risalente al 1922 e adottato dal manager di Rowntree & Company, con il titolo A Professional Creed for Management (citato da Y. SHCHERBININA, B. SENA, Strumenti concettuali per una riformulazione della Responsabilità Sociale d’Impresa, in H. Alford, F. Compagnoni (a cura di), Fondare la responsabilità sociale d’impresa: contributi dalle scienze umane e del pensiero sociale cristiano, Città Nuova, Roma, 2008, p. 99, nota 8).
[7] La legge ribadisce anche l’obblighi minimi di trasparenza a carico delle corporations, quali quello di tenuta delle scritture contabili, nonché la necessità di dotarsi di un organo di controllo interno. In una prospettiva comparatistica di carattere diacronico, il ricorso ai codici etici è stato reso obbligatorio, nel contesto italiano, proprio con la finalità di abbassare i livelli del c.d. rischio corruttivo nelle pubbliche amministrazioni, richiamando i dipendenti verso l’osservanza di regole di “integrità”, “responsabilità” e “onestà”, in linea con quanto stabilito a livello internazionale dalla Convenzione ONU contro la corruzione (UNCAC, anche detta Convenzione di Merida, traendo il nome dalla città in cui la stessa venne aperta alla firma degli Stati, in data 9 dicembre 2003. La Convenzione prende atto della dimensione globale del problema della corruzione, perseguendo l’obiettivo della “promozione e […] rafforzamento delle misure volte a prevenire e combattere la corruzione in modo più efficace; […] agevolazione e […] sostegno della cooperazione internazionale e dell’assistenza tecnica ai fini della prevenzione della corruzione e della lotta a quest’ultima, compreso il recupero dei beni”, oltre alla “promozione dell’integrità, della responsabilità e della buona fede nella gestione degli affari pubblici e dei beni pubblici” (testo della Convenzione disponibile all’indirizzo https://www.unodc.org/ Essa riprende alcuni concetti già espressi dalla Convenzione adottata in seno al Consiglio d’Europa il 27 gennaio 1999, sempre in materia di corruzione). Tali valori sono indicati all’art. 8, commi 1 e 2, della Convenzione quali elementi fondamentali e irrinunciabili della condotta del lavoratore, diretti ad assicurare “un esercizio corretto, onorevole e adeguato delle funzioni pubbliche”. Per un approfondimento circa la necessità di adottare provvedimenti nazionali contro il fenomeno corruttivo, a più livelli, in risposta agli obblighi assunti sul piano internazionale, cfr. (con un focus sul sistema statunitense) lo scritto di P. D. DE LA PENA, P. NEIDERMEYER, US Businesses’ Code of Ethics as an Instrument to Comply with the Foreign Corrupt Practices, in International Business & Economics Research Journal, vol. 8, n. 12, 2009.
[8] Si trattava, per la maggior parte, di case farmaceutiche, come evidenziato nella monografia di J. BRAITHWAITE, Corporate Crime in the Pharmaceutical Industry, Routledge, Abingdon, 1984, oltre che imprese operanti nel settore della difesa. La necessità di promuovere una cultura della legalità e di contrasto alla corruzione risponde all’urgenza di abbattere i gravi costi sociali connessi alla diffusione dei corruptive crimes. Tale opera di sensibilizzazione deve coinvolgere tutti gli strati sociali e gli operatori economici: essa “deve partire dal basso, in ossequio all’idea per cui “quando il popolo si è convinto, a torto o a ragione, che la corruzione è ovunque, l’incorruttibilità […] sarà indebolita” (G. MYRDAL, Asian drama: an inquiry into the poverty of nations, New York 1968 (trad. it. Il dramma dell’Asia: saggio sulla povertà di undici Paesi asiatici, Il Saggiatore, Milano, 1973, p. 293).
[9] Un esempio di siffatta clausola è contenuto in C. F. CORR, J. LAWLER, Damned If You Do, Damned If You Don’t? The OECD Convention and the Globalization of Anti-Bribery Measures, in Vanderbilt Journal of Transnational Law, vol. 32, 1999, p. 1339, secondo cui la società (o altra controparte) “represents and agrees that (i) it will not pay or give anything of value, directly or indirectly or through third parties, to an official of a foreign government, officer of any political party, candidate for any political office, or official of an international organization for the purpose of influencing an act or decision in their official capacity, or inducing them to use their influence with the foreign government to assist in obtaining or retaining business for or with, or directing business to, or providing some other economic benefit to the Company or for any unlawful purpose; (ii) none of [its] directors, officers, major shareholders, or employees are officers or representatives of any government or political party, candidates for any political parties, or officials of any international organizations; (iii) full disclosure of the existence and terms of this agreement may be made at any time to whomever the Company’s counsel determines has a legitimate need to know such terms; (iv) all compensation and expense reimbursements to [it] are subject to audit; and (v) [it] will immediately notify the Company in the event any of [its] directors, officers, major shareholders, or employees should become governmental officials, candidates or appointees for any government office, officers of any political party, or officials in any international organization, or in the event such government officials, candidates, party officers, or officials of an international organization should become directors, major shareholders or employees of [it]”.
[10] Definita, per la sua rilevanza, un vero e proprio “precursore” della Convenzione OCSE sulla lotta alla Corruzione dei Pubblici Ufficiali stranieri nelle transazioni internazionali, datata 17 dicembre 1997 (ivi, p. 1252).
[11] Cfr. sul punto F. HERRMANN, Bricks Without Straw: The Plight of Government Ethics Agencies in the United States, in Public Integrity Annual-1997, Lexington, The Council of State Governments, 1997.
[12] Per approfondimenti, si veda il portale web SAI, di cui all’indirizzo https://sa-intl.org/, in cui è evidenziato come l’organizzazione abbia natura no profit, rientrando nelle charitable organizations di cui all’art. 501, lettera c), n. 3 dello US Code.
[13] G. CARAVALE, Diritto e clemenza: il pardoning power in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, Giappichelli, Torino, 2010, p. 91.
[14] Si cf. il volume di B. J. George, The Comprehensive Crime Control Act of 1984: Contemporary Federal Criminal Practice, Prentice Hall Law and Business, Clifton, 1988.
[15] Detti anche organizational crime, quali reati organizzativi o dell’organizzazione, possono consistere in reati ambientali (in materia di inquinamento, per esempio), reati finanziari (evasione fiscale, falso in bilancio); violazione di norme lavoristiche (condizioni di lavoro o assunzioni irregolari); reati produttivi (pericolosità dei prodotti, etichettatura mendace); reati commerciali (pubblicità ingannevole). E. H. SUTHERLAND, La criminalità dei colletti bianchi e altri scritti, Edizioni Unicopli, Milano, 1986, pone come esempi quelli di “falsità di rendiconti finanziari di società, aggiotaggio in borsa, corruzione diretta o indiretta di pubblici ufficiali al fine di assicurarsi contratti e decisioni vantaggiose”, nonché di “frode nell’esercizio del commercio, appropriazione indebita e distrazione di fondi, frode fiscale, scorrettezze nelle curatele fallimentari e nella bancarotta”. Cfr. anche, dello stesso Autore, la monografia White Collar Crime, Holt, Riehart & Winston, New York, 1949.
[16] Così M. A. ALMOND, S. D. SYFERT, Beyond Compliance: Corruption, Corporate Responsibility and Ethical Standards in the New Global Economy, in North Carolina Journal of International Law and Commercial Regulation, vol. 22, 1997, pp. 389 ss.
[17] cf. D. SALIERNO, IFAC issues code of conduct draft, in Internal Auditor, vol. 64, n. 1, 2007, pp. 15-16.
[18] IFAC, Guidance for the Development of a Code of Corporate Conduct, New York, 2006, p. 9.
[19] G. ACQUAVIVA, Il Foreign Corrupt Practices Act: la legislazione statunitense in materia di lotta alla corruzione di fronte agli ultimi sviluppi internazionali, cit., p. 13.
[20] S. WEBLEY, A. WERNER, Corporate codes of ethics: Necessary but not sufficient, in Business Ethics, vol. 17, n. 4, 2008, p. 410.
[21] Riecheggiano le parole di S. RODOTÀ, in uno scritto in lingua spagnola, circa la necessaria flessibilità del diritto a fronte del mutamento sociale, in senso tanto diacronico, quanto sincronico: “sí es cierto que se manifiesta una fuerte tendencia hacia un Derecho «homeostático», capaz de adaptarse al variar de las situaciones sin necesidad de ulteriores intervenciones legislativas, ya sea en la dimensión diacrónica (cambios producidos por el transcurrir del tiempo), ya sea en la sincrónica (aplicación de la norma en contextos distintos dentro del mismo Estado, motivados por la necesidad de tener en cuenta, por ejemplo, factores de diversidad y de exigencia de pluralismo)” (Códigos de conducta: entre hard law y soft law, in A. R. Pérez (a cura di), Códigos de conducta y actividad económica, una perspectiva jurídica. I y II Congresos Internacionales «Códigos de Conducta y Mercado», Facultad de Derecho, Universidad Complutense de Madrid, Marcial Pons, Madrid, 2010, p. 21).
[22] O. C. FERRELL, D. T. LECLAIR, L. FERRELL, The Federal Sentencing Guidelines for Organizations: A Framework for Ethical Compliance, in Journal of Business Ethics, n. 17, 1998, p. 358.
[23] G. M. GAREGNANI, Etica d’impresa e responsabilità da reato. Dall’esperienza statunitense ai “modelli organizzativi di gestione e controllo”, Giuffrè, Milano, 2008, p. 100.
[24] Ibidem.
[25] Per tale intendendosi “[i]l riconoscimento e l’adozione di principi di responsabilità che invitano imprese e istituzioni a rendere conto alla società dei propri comportamenti e delle proprie azioni” (E. COLUCCI, Per una cultura dell’accountability, in S. Zamagni (a cura di), Il non profit italiano al bivio, Egea, Milano, 2002, p. X). Il significato dell’accountability è ben espresso anche da K. E. Goodpaster e J. B. Matthews, citati da M. MOLTENI, Responsabilità sociale e performance d’impresa. Per una sintesi socio-competitiva, V&P Università, Milano, 2004, p. 11, il quale riporta che “le persone agiscono responsabilmente solo se entrano in possesso di informazioni sull’impatto delle loro azioni su altri e le usano nel prendere decisioni” o per modificare la propria condotta, adeguandola a un diverso standard.
[26] E. D’ORAZIO, Codici etici, cultura e responsabilità d’impresa, cit., p. 100.
[27] M. MOLTENI, La convenienza della RSI, in E. Bertolini (a cura di), Etica sociale, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, 2006, p. 278. Anche sul piano processuale, le FSG hanno dimostrato di introdurre alcune innovazioni. Si veda, in particolare, quanto affermato da O. C. FERRELL, D. T. LECLAIR, L. FERRELL, The Federal Sentencing Guidelines for Organizations: A Framework for Ethical Compliance, cit., p. 355: “The sentencing of organizations is accomplished with four considerations in mind. First, the court will order the organization to remedy any harm caused by the offense. Second, if the organization operated primarily for criminal purpose, fines will be set sufficiently high to divest the firm of all assets. Third, fines levied against the organization are based on the seriousness of the offense and the culpability of the organization. Fourth, probation is an appropriate sentence for an organizational defendant when it will ensure that the firm will take actions to reduce future criminal conduct”.
[28] Per whistleblower si intende il dipendente dell’impresa (individuale o esercitata in forma collettiva, rectius societaria), che segnala un illecito; in particolare, egli è colui che “provides information regarding any conduct that the employee reasonably believes constitutes a violation of: any rule or regulation of the Securities and Exchange Commission; federal criminal provisions relating to securities, bank, mail, or wire fraud; or any federal law relating to fraud against shareholders. An employee who provides such information to a federal regulatory or law enforcement agency, to a member or committee of Congress, or to a person with supervisory authority over the employee is protected” (D. B. H. MARTIN, B. HOFFMAN, E. F. CASEY, Whistleblower Protection Under the Sarbanes-Oxley Act, in Wall Street Lawyer, vol. 8, n. 5, 2004, p. 3). In Italia, il fenomeno del whistleblowing è stato attenzionato, da ultimo, con le modifiche apportate all’art. 54-bis del D. Lgs. n. 165/2001 a opera della L. n. 179/2017, recante Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato. Si vedano, i contributi monografici di N. PARISI, A. NADDÊO, Il whistleblowing: nuovo strumento di lotta alla corruzione, Bonanno, 2011; V. BELSITO, Il whistleblowing. Tutele e rischi per il soffiatore, Cacucci, Roma, 2013; A. PARROTTA, R. RAZZANTE, Il sistema di segnalazione interna. Il whistleblowing nell’assetto anticorruzione, antiriciclaggio e nella prevenzione da responsabilità degli Enti, Pacini Giuridica, Pisa, 2019; F. D’AMORA, Il whistleblowing dopo la l. n. 179/2017, Giuffrè, Milano, 2019.
[29] ADB/OECD, Anti-Corruption Policies in Asia and the Pacific. The Legal and Institutional Framework for Fighting Corruption in Twenty-one Asian and Pacific Countries, Manila, 2004, in www.oecd.org..
[30] Ivi, p. 30.
[31] Invece, si osserva un trend crescente in altri; per esempio, a Hong Kong, l’adozione di codici etici è cresciuta con l’aumento dei casi di corruzione, come rilevato nello scritto di R. STANLEY SNELL, N. C. HERNDON, An evaluation of Hong Kong’s corporate code of ethics initiative, in Asia Pacific Journal of Management, vol. 17, n. 3, 2000, pp. 493-518.
[32] Si vedano, in particolare, i casi di Mattel, Disney e Nike, esaminati da G. PELLICELLI, Strategie d’impresa, Egea, Milano, 2019, p. 71.
[33] Per contro, è stata osservata la tendenza opposta, almeno fino alla fine del secolo scorso, per cui “a US company operating in China had a code of ethics which required the company to abide by the laws of the countries in which it does [operate]” (W. CRAGG, Ethics Codes, Corporations, and the Challenge of Globalization, Edward Elgar, Chentelman, 2005).
[34] “Chinese business ethics is influenced by several factors. They believe that everything should be in harmony, taking the long-term view on things. If changes will be disruptive and significant, the Chinese would prefer not to take action rather than to take action. […] Harmony is emphasized to preserve peace and societal order and have clearly impacted the way Chinese think and behave. […] Interpersonal connections or human relationships are called guanxi in the Chinese language. Such relationships and human feelings are very important, as the Chinese mentality is to work together in groups to accomplish a goal. […] Business guanxi is a process whereby personal connections are used in the process of finding a solution to a business problem instead of a personal problem. The types of guanxi are quite different in nature, purpose, function and what is exchanged. Business guanxi is utility-driven having to deal with money and power, which is the result of current political and socio-economic systems. Business guanxi is tactical, opportunistic and relatively unstable with less commitment and trust. What matters most to the parties is their own business interest” (P. S. CHAN, S. CHUO, D. POLLARD, Corporate Ethics: China vs. USA, in International Business & Economics Research Journal, vol. 6, n. 2, 2007, pp. 3-4). Cfr. anche K. O. HANSON, S. ROTHLIN, Taking your code to China, in Journal of International Business Ethics, vol. 3, n. 1, 2010, pp. 69-80.
[35] L. SACCONI, Responsabilità sociale come governance allargata d’impresa: una interpretazione basata sulla teoria del contratto sociale e della reputazione, Giuffrè, Milano, 2004, p. 109. L’Autore si sofferma anche sul concetto di reputazione, connesso all’adozione di una condotta socialmente responsabile, esaminando lo stesso alla luce della Teoria dei giochi di John Nasch e sostenendo come esso “attiv[i] una sorta di circolo virtuoso che si autoalimenta e che consente l’adesione spontanea alle norme sociali, cioè le rende auto-vincolanti: infatti seguire le norme crea reputazione, la reputazione induce una risposta cooperativa da parte degli stakeholder e quindi offre un beneficio a chi segue le norme stesse, il quale trae da ciò stesso un incentivo alla loro osservanza”. Nel rapporto con la mancata obbligatorietà delle norme etiche, emerge con nitidezza la limitazione rappresentata dal codice che le enuncia: invero, “la reputazione non sostiene l’idea di autoregolazione debole, basata sulla discrezionalità dell’impresa la quale, senza imporsi alcun vincolo o regola esplicita, sceglie da sé sola, volta a volta, le azioni che rispettano gli interessi degli stakeholder” (ibidem).
[36] COMMISSIONE DELLE COMUNITÀ EUROPEE, Libro Verde Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese, cit., p. 3.
[37] Ibidem.
[38] D. VOGEL, La globalizzazione dell’etica degli affari: il primato resta americano, in Etica degli affari e delle professioni, n. 2, 1993, p. 14.
[39] Comunicazione al Consiglio europeo di Primavera, Lavorare insieme per la crescita e l’occupazione. Il rilancio della Strategia di Lisbona, 2 febbraio 2005, COM, 2005. p.24.
[40] Nel senso che le norme etiche possono anche non coincidere con le regole di derivazione legislativa. Da qui, la funzione integrativa e sussidiaria del codice etico rispetto alla legge. In una dimensione piramidale, la commissione di reati si colloca al vertice, mentre le condotte eticamente scorrette corrispondono a un livello inferiore, in quando discendono dalla mancata osservanza di un parametro che non trova il proprio fondamento in una fonte normativa, ma è mezzo attraverso cui si concretizza quella cultura della legalità che dovrebbe informare ogni attività d’impresa.
[41] G. GANDINI, Governo d’impresa e orientamento competitivo al mercato bancario, Franco Angeli, Milano, 2008, p. 32.
[42] É stato precisato che “l’adesione al codice è volontaria, ma, per le imprese che decidono di seguire le indicazioni del documento, esiste la possibilità di rendere pubblica questa scelta, in modo tale da fornire agli investitori e agli stakeholder in generale un primo segnale circa l’adozione di pratiche di comportamento responsabili” (F. PERRINI, A. TENCATI, La Corporate Sociale Responsability in alcuni paesi europei: sostenibilità dei modelli di sviluppo, in C. Arezzo, R. D’Amico, S. Randone (a cura di), La responsabilità sociale oltre l’impresa, Franco Angeli, Milano, 2008, p. 43). Per la natura non vincolante, il codice etico di carattere auto-regolamentare privatistico si differenzia dal codice di condotta adottato dalla singola associazione professionale (Código Deontológico Profesional), ma previsti dalla legge (Ley del 3 febbraio 1974). La dottrina prevalente sostiene che si tratta pur sempre di “norma etiche”, ma che non danno luogo a un “catalogo di norme e doveri morali”, perseguendo il diverso scopo di regolamentare l’esercizio dell’attività professionale, ponendo un a “serie di doveri […] obbligatori” in capo ai professionisti” (E. LLAMAS POMBO, Etica e regole deontologiche delle professioni e principio di sussidiarietà. Il valore giuridico dei codici deontologici professionali nell’ordinamento spagnolo, in M. Nuzzo (a cura di), Il principio di sussidiarietà nel diritto privato, Giappichelli, Torino, vol. I, 2014, p. 281).
[43] COMISIÓN ALDAMA, Informe de la Comisión Especial para el fomento de la transparencia y seguridad en los mercados y las sociedades cotizadas, cit., p. 11.
[44] Cfr., su tutti, l’opera di S. MERCIER, L’éthique dans les entreprises, éditions La Découverte, Paris, 2004.
[45] “Le règlement intérieur étant un document privé -il est rédigé par l’employeur lui-même, qui est une personne privée et qui n’exerce pas en la matière, une prérogative de puissance publique ce contrôle aurait pu n’être exercé que par l’autorité judiciaire. Aussi bien avant 1982, le juge judiciaire exerçait il déjà un contrôle sur la légalité, tant externe qu’interne, du règlement intérieur. Et ce contrôle du juge judiciaire, quitte à l’aménager et à le renforcer, aurait pu, en stricte logique, être le seul à s’exercer” (P. WAQUET, Le contrôle du règlement intérieur, in AJDA, 1991, p. 590).
[46] A. SUPIOT, La réglementation patronale de l’entreprise, in Droit social, 1992, p. 28. L’Autore spiega la natura giuridica del regolamento alla luce della funzione del datore di lavoro, sostenendo che “On ne devrait pouvoir véritablement parler de droit patronal de l’entreprise que dans la mesure où ce droit limite l’exercice du pouvoir patronal dans l’entreprise. Si elles ne sont pas soumises à l’adage Tu patere legem quam fecisti, les normes patronales ne participent pas de l’ordre juridique. Autrement dit, ces normes ne constituent des règles de droit que si elles lient l’employeur lui- même. Cela n’implique pas qu’elles mettent nécessairement à sa charge des obligations positives, mais qu’elles présentent un caractère suffisant de généralité et de permanence pour pouvoir lui être opposées dans un litige éventuel. La généralité et la permanence d’une règle entraînent en effet toujours une limitation du pouvoir de l’auteur de cette règle: la généralité en permettant à tout intéressé d’en déclencher l’effet impératif, et la permanence en émancipant son application du maintien de la volonté de cet auteur. Faute de pouvoir être ainsi opposée à l’employeur, notamment devant le juge, une norme patronale ne répond pas à ce critère élémentaire de la juridicité”.
[47] P-H. ANTONMATTEI, P. VIVIEN, Chartes d’éthique, alerte professionnelle et droit du travail français: état des lieux et perspectives, La Documentation Française, Paris, 2007, p. 6.
[48] Conclusione sostenuta da F. ARJAT, Réflexions sur les Codes de conduite privée, in Le droit des relations économiques internationales. Etudes offertes à Berthold Goldman, Litec, Paris, 1982, pp. 57-66. Si veda anche, dello stesso autore, il capitolo intitolato Nouvelles réflexions sur les codes de conduite privée, in J. Clam e G. Martin (a cura di), Les transformations de la régulation juridique, LGDJ, Paris, 1998, p. 151 ss., nonché gli scritti di E. D. ECAUZ, La forme et la force obligatoire des codes de bonne conduite, in Annuaire français de droit international, vol. XXIX, 1983, p. 81 ss., e O. SMAN, Avis, directives, codes de bonne conduite, recommandations,déontologie, éthique, etc.: réflexion sur la dégradation des sources privées du droit, in Reveu trimestrielle de droit civil, 1995, p. 509 ss..
[49] Proseguono i paragrafi 2 e 3 della sezione: “Where or to the extent that the purposes of the company consist of or include purposes other than the benefit of its members, subsection (1) has effect as if the reference to promoting the success of the company for the benefit of its members were to achieving those purposes. The duty imposed by this section has effect subject to any enactment or rule of law requiring directors, in certain circumstances, to consider or act in the interests of creditors of the company”. Una interessante lettura comparatistica è quella che potrebbe derivare dal raffronto con la normativa canadese, di influenza inglese, come interpretata dalla Corte Suprema: “[T]he duty of the directors to act in the best interests of the corporation comprehends a duty to treat individual stakeholders affected by corporate actions equitably and fairly. There are no absolute rules. In each case, the question is whether, in all the circumstances, the directors acted in the best interests of the corporation, having regard to all relevant considerations, including, but not confined to, the need to treat affected stakeholders in a fair manner, commensurate with the corporation’s duties as a responsible corporate citizen. Directors may find themselves in a situation where it is impossible to please all stakeholders […] There is no principle that one set of interests – for example the interests of shareholders – should prevail over another set of interests (BCE, Inc. v. 1976 Debentureholders, 2008, pp. 82-84).
[50] FINANCIAL REPORTING COUNCIL, UK Corporate Governance Code, London, 2018, p. 1. Per Stewardship si intende letteramente la “correponsabilità”. Come declinate dal FRC, essa consiste nella “responsible allocation, management and oversight of capital to create long-term value for clients and beneficiaries leading to sustainable benefits for the economy, the environment and society” (ibidem).In dottrina, è stata sottolineata la genericità della nozione, utilizzata in più ambiti per “indicare la responsabilità dell’umanità nei confronti del creato in àmbito ecologico, oppure per richiamare la “fidelizzazione” dei donanti nelle campagne di “fund raising”, o un peculiare stile di “governance” o di “leadership” delle diverse strutture (imprenditoriali non profit, pubbliche, ecc.) caratterizzato dalla consapevolezza della condi- zione di servitore della comunità di chi si trova al suo vertice” (J. MIÑAMBRES, La ‘Stewardship‘ (Corresponsabilità) nella gestione dei beni temporali della Chiesa, in Ius Ecclesiae. Rivista internazionale di diritto canonico, vol. 24, n. 2, 2012, pp. 278-279).
[51] Ivi, p.51.
[52] L. CIMMINO, Sistema mercato: regole senza confini e confini senza regole, Guida, Napoli, 2005, p. 42.
[53] Il testo della proposta è contenuto in S. CASSESE, Codice di condotta dei dipendenti pubblici. Proposte e materiali di studio, Quaderni per la Funzione Pubblica, Roma, 1993.
[54] Cass. Pen., sez. II, 20 dicembre 2005, n. 3651: “Il D.lgs 231/01, sanzionando la persona giuridica in via autonoma e diretta con le forme del processo penale si differenzia dalle preesistenti sanzioni irrogabili agli enti […] E ciò perché, ad onta del nomen iuris, la nuova responsabilità, nominalmente amministrativa, dissimula la sua natura squisitamente penale; forse sottaciuta per non aprire delicati conflitti con i dogmi personalistici dell’imputazione criminale, di rango costituzionale (art. 27 Cost.)”.
[55] Si tratta della Delibera n. IX-3540, emanata dalla Giunta Regionale il 30 maggio 2012. Il riferimento è tratto da M. CAPUTO, La mano visibile. Codici etici e cultura d’impresa nell’imputazione della responsabilità agli enti, cit., che riporta la seguente disposizione, contenuta nella Delibera, utile per comprendere la portata del documento preso in esame. “Il codice etico costituisce uno strumento importante per l’attuazione di politiche di Responsabilità Sociale e fissa le regole di comportamento cui debbono attenersi i destinatari nel rispetto dei valori e dei Principi Etici enunciati dalle Leggi e dai Regolamenti della Repubblica Italiana; descrive la mission dell’ente e le regole che lo stesso si pone al fine del raggiungimento dei suoi obbiettivi. Entra a pieno titolo nell’ordinamento dell’ente e rappresenta il complesso dei diritti e dei doveri morali e la conseguente responsabilità etico-sociale di ogni partecipante alla organizzazione. Ha l’ulteriore obiettivo di attestare la prevenzione rispetto a comportamenti irresponsabili e/o illeciti da parte di chi opera in nome e per conto dell’ente perché definisce l’ambito delle responsabilità etiche e sociali di tutti gli operatori. Non sostituisce e non si sovrappone alle norme legislative e regolamentari esterne ed interne, ma nell’azione di integrazione e di rafforzamento dei principi contenuti in tali fonti, introduce modelli organizzativi e comportamentali volti ad impedire ed ostacolare condotte “criminose” o che portino indebiti vantaggi. È strumento per migliorare la qualità di servizi in quanto incentiva condotte coerenti con i principi e le regole in esso contenute, nonché strumento di comunicazione verso tutti i componenti l’organizzazione, permettendo nel contempo agli stakeholder esterni di conoscere i principi informatori dell’ente, e la possibilità quindi di richiederne una più puntuale attuazione”.
[56] Sulla corretta applicazione del codice etico, vigila l’authority anticorruzione. Con l’art. 5-ter del D. L. del 24 gennaio 2012, poi convertito nella legge n. 27 del 24 marzo 2012, è stato introdotto un sistema di rating della legalità delle imprese. La norma stabilisce che “[a]l fine di promuovere l’introduzione di principi etici nei comportamenti aziendali, all’Autorità garante della concorrenza e del mercato è attribuito il compito di segnalare al Parlamento le modifiche normative necessarie al perseguimento del sopraindicato scopo anche in rapporto alla tutela dei consumatori, nonché di procedere, in raccordo con i ministeri della Giustizia e dell’Interno, alla elaborazione e all’attribuzione, su istanza di parte, di un rating di legalità per le imprese operanti nel territorio nazionale che raggiungano un fatturato minimo di due milioni di euro, riferito alla singola impresa o al gruppo di appartenenza, secondo i criteri e le modalità stabilite da un regolamento dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato da emanare entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione. Al fine dell’attribuzione del rating, possono essere chieste informazioni a tutte le pubbliche amministrazioni. Del rating attribuito si tiene conto in sede di concessione di finanziamenti da parte delle pubbliche amministrazioni, nonché in sede di accesso al credito bancario, secondo le modalità stabilite con decreto del ministro dell’Economia e delle Finanze e del ministro dello Sviluppo economico, da emanare entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione. Gli istituti di credito che omettono di tener conto del rating attribuito in sede di concessione dei finanziamenti alle imprese sono tenuti a trasmettere alla Banca d’Italia una dettagliata relazione sulle ragioni della decisione assunta”.
[57] P. M. ZERMAN, La progressiva giuridicizzazione delle regole etiche, in Diritto e pratica amministrativa, 2013, p. 3.
[58] CORTE DI CASSAZIONE, Sentenza n. 15218 del 21/7/2015, che richiama la sentenza n. 1926, emanata in data 27 gennaio 2011. La Corte prosegue affermando: “quando la condotta contestata al lavoratore appaia violatrice non di generali obblighi di legge ma di puntuali regole comportamentali negozialmente previste e funzionali al miglior svolgimento del rapporto di lavoro (come nel caso di illeciti consistenti nella violazione di prescrizioni strettamente attinenti alla organizzazione aziendale) [la pubblicità] si presenta necessaria”.
[59] Cfr. sul punto W. C. FREDERICK, The moral authority of transnational corporate codes, in Journal of Business Ethics, vol. 10, 1991, pp. 165-177.
[60] E. D’ALTERIO, I codici di comportamento e la responsabilità disciplinare, in B. G. Mattarella, M. Pelissero, La legge anticorruzione: Prevenzione e repressione della corruzione, Giappichelli, Torino, 2013, p. 214.
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