Compensatio lucri cum damno: tra dogmatica e consacrazione
‘’L’azione risarcitoria non può rendere la vittima né più ricca, né più povera, di quanto non fosse prima della commissione dell’illecito’’.
E’ questo l’ esordio del percorso che ha condotto la giurisprudenza di legittimità all’ordinanza del 22 giugno 2017, n. 15543. Con la decisione de quo i giudici della Suprema Corte di Cassazione offrono lo spunto per la risoluzione di un nodo assai delicato in materia di responsabilità civile: la compensatio lucri cum damno.
Letteralmente, la locuzione si riferisce ai vantaggi ottenuti dal danneggiato in conseguenza di un fatto illecito. Più precisamente, si tratta di tutte quelle conseguenze positive cui tener conto in sede di determinazione dell’importo risarcitorio. Esempi, in tal senso, si rinvengono negli eventuali emolumenti corrisposti dalle assicurazioni private a seguito di un sinistro subìto; oppure, all’esclusione della detraibilità della pensione di reversibilità ricevuta dalla vedova. Ed ancora, si pensi, alla rendita I.n.a.i.l corrisposta ai congiunti della vittima per infortuni sul lavoro.
Atteggiandosi come parametro liquitativo, la compensatio lucri cum damno pone delicate questioni in ordine al rapporto tra risarcimento del danno aquiliano ed indennizzo nonché interrogativi aventi ad oggetto l’eventuale cumulatività dei due meccanismi riparatori. Più precisamente, ci si chiede se il responsabile ex art. 2043 sia tenuto a risarcire il danneggiato qualora questi abbia già ottenuto una riparazione indennizzaria o viceversa e se possano costituire fonti di danno non solo i fatti illeciti ma altresì la legge o i contratti.
E’ invero che sulla questione la giurisprudenza non ha sempre mostrato un orientamento unanime. Sul punto si registrano diversificate teorie.
La prima delle tesi esclude che, nel nostro ordinamento ,possa consacrarsi un meccanismo di compensatio lucri cum damno. Soluzione questa, che trova manforte dall’assenza di una disciplina ad hoc che, qualora fosse avallata, condurrebbe ad una realtà iniqua tale da sollevare l’autore del danno dalle conseguenze del suo operato.
La seconda tesi, pur non atteggiando la compensatio lucri cum damno a regola generale, non ne nega l’applicazione caso per caso. Più precisamente, si ritiene che non possa escludersi tout a court, che concause preesistenti o sopravvenute al fatto illecito consentano alla vittima di ottenere un vantaggio.
L’ultima delle svariate tesi, invece, riduce la compensatio lucri cum danno a strumento di garanzia di principi valevoli in materia di responsabilità civile. Specificamente, la fattispecie de qua avrebbe applicazione nella solo circostanza in cui il danno sia «diretta ed immediata» conseguenza del fatto illecito. Chi aderisce a siffatto orientamento, ritiene che l’istituto de quo costituisca implicito presupposto dall’art. 1223 c.c., nella parte in cui dispone che «Il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta».
Soluzione questa che trova la sua consacrazione nell’ordinanza 22 giugno 2017, n. 15543.
Conformemente al principio cardine in materia di risarcibilità civile secondo cui il risarcimento deve assurgere la sua funziona ripristinatoria e non costituire fonte di ricchezza per il danneggiato, per gli ermellini «lucro» e «danno» non vanno concepiti come un credito ed un debito. Ciò che se ne ricava è l’esclusione di una cumulatività tra risarcimento ed indennizzo. Per i giudici della Suprema Corte, alla vittima di un fatto illecito spetta il risarcimento del danno esistente nel suo patrimonio al momento della liquidazione, trovando, pertanto, applicazione, il principio della c.d. regolarità causale, in base al quale nell’accertamento del danno occorre tener conto dei vantaggi che, prima di detta stima, siano pervenuti o perverranno alla vittima. Conditio sine qua non di siffatta affermazione è la considerazione del vantaggio come diretta conseguenza della fattispecie danno. Trova, peraltro, applicazione, la medesima regola di causalità utilizzata per considerare il danno conseguenza dell’illecito.
Alla luce di quanto esposto, se ne ricava che nella quantificazione del danno non possa procedersi a differenti operazioni ermeneutiche, essendo necessario, al contrario, condurre un’attività unitaria di liquidazione consistente, tra l’altro, nel sottrarre dal patrimonio della vittima ante sinistro il patrimonio della vittima residuato al sinistro. In questo modo, la misura del risarcimento non potrà superare mai l’entità dell’interesse leso.
Il risultato che si ottiene è quello di consacrare la compensatio lucri cum damno come valido parametro per un’equa riparazione.
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Federica Posta
Dott.ssa magistrale in Giurisprudenza.
Specializzata in professioni legali presso la Scuola di specializzazione La Sapienza Roma
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