Comunicabilità delle circostanze oggettive e soggettive ai concorrenti nel reato

Comunicabilità delle circostanze oggettive e soggettive ai concorrenti nel reato

Nota a margine della sentenza a Sezioni Unite n.8545 del 2020 – sulla applicazione ai concorrenti nel reato dell’aggravante soggettiva dell’agevolazione mafiosa (art. 416 bis 1) – nel solco di una consolidata giurisprudenza.

Con sentenza n. 8545 del  2020, le Sezioni Unite hanno affermato il  seguente principio di diritto: «l’aggravante agevolatrice dell’attività mafiosa prevista dall’art. 416-bis 1 c.p. ha natura soggettiva ed è caratterizzata da dolo (specifico e) intenzionale; nel reato concorsuale si applica al concorrente non animato da tale scopo, che risulti consapevole dell’altrui finalità».

L’elaborato ripercorre l’evoluzione normativa del regime di comunicabilità ai correi nei reati plurisoggettivi eventuali. Dopo aver analizzato la ratio sottesa alla disciplina dell’inestensibilità ai correi delle circostanze soggettive di cui all’attuale art. 118 c.p., sul piano della tipicità; ci si sofferma sull’evoluzione giurisprudenziale che riconosce l’autonoma rimproverabilità delle circostanze aggravanti soggettive anche ai concorrenti nel reato. Infine, ci si interroga sulla ratio del minus psicologico richiesto per il concorrente nel reato: la “consapevolezza” e il necessario bilanciamento con il principio di offensività.

Sommario: 1. Premessa 2. Il regime delle circostanze ante riforma n.19/1990 3. L’intervento della novella del 1990 e la riscrittura degli artt. 59 e 118 c.p. 3.1. La non sempre agevole distinzione tra circostanze oggettive e soggettive. La natura dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa di cui all’art. 416 bis 1. – 3.2. La ratio della inestensibilità infraconcorsuale sul piano della tipicità 4. La comunicabilità “autonoma” delle aggravanti soggettive ai concorrenti nel reato.

 

1. Premessa

È il legislatore romano ad aver introdotto, sin dalle XII tavole, gli “accidentalia” che, rispetto al reato, aggravano o diminuiscono la sanzione in esso prevista. I “modus” dell’età imperiale, delineano la gravità dei “crimina” o ne mutano il titolo: la “causa” che ha indotto ad agire, lo “status” dell’agente e del soggetto passivo, il “locus” nel quale il delitto è commesso, il “tempus”, la “qualitas” (gravità) del fatto commesso, la “quantitas” dei beni colpiti, l’“eventus” realizzato.

Sin dalle prime origini, dunque, le circostanze appaiono come elementi che “circum stant” il reato  e che sono idonei ad incidere sulla gravità del fatto, che delineano la capacità criminale del reo, con la funzione di adeguare la sanzione penale alla gravità del caso concreto.

Ci si trova al cospetto di quelli che la giurisprudenza ha definito “satelliti del reato” (SU n.28243/2013) e che, colorando un fatto reato già perfetto, incidono sulla dosimetria sanzionatoria in termini quantitativi o qualitativi, aggravandolo o attenuandolo.

Nel rispetto del principio di legalità di cui all’art. 25 Cost., è stato il legislatore a tipizzare e classificare tali accidentalia delicti (comuni e speciali) che, incidendo sull’offesa delineata dall’astratta figura di reato, ne aumentano o diminuiscono il disvalore (aggravanti e attenuanti), sìd daessere necessariamente sottoposti ad una tassativa disciplina sanzionatoria (circostanze ad effetto comune e ad effetto speciale) che non sia affidata al puro potere discrezionale del giudice (un esempio in tal senso è costituito dall’art. 62Bis c.p. che, nell’affidare al giudice il potere apparentemente discrezionale, di applicare le circostanze attenuanti generiche, Gli impone una vera e propria regola di giudizio consistente nella individuazione di elementi a favore del reo e di motivare in ordine al diniego di accesso al beneficio della diminuzione della pena).

Il legislatore ha individuato, altresì, precisi meccanismi di imputazione delle aggravanti e della loro estensibilità ai concorrenti nel reato. Tuttavia, un meccanismo originariamente chiaro – seppur frutto di un ordinamento repressivo – viene completamente stravolto dalla nota riforma n.19/1990, sì da creare non pochi problemi all’interprete.

Ed allora, per ben comprendere il meccanismo di estensibilità (e comunicabilità) delle circostanze ai concorrenti nel reato – oggetto dell’argomentazione che ci si propone di trattare – è opportuno anzitutto soffermarsi su tale evoluzione.

2. Il regime delle circostanze ante riforma n.19/1990

Il primo riferimento normativo da analizzare nella sua formulazione originaria, antecedente all’entrata in vigore della legge 7 febbraio 1990 n.19, è l’art. 59 c.p., relativo alla imputabilità delle circostanze.

Circostanze attenuanti e aggravanti sottostavano ad un meccanismo di imputazione obiettiva, tale per cui esse si applicavano direttamente al soggetto agente indipendentemente dalla loro conoscenza o conoscibilità.

La ratio legis era individuata nella evenienza che l’elemento soggettivo del reato dovesse investire soltanto gli elementi costitutivi del reato, di cui le circostanze non facevano parte.

Ed infatti, non era ancora maturata in quegli anni l’idea che le circostanze, nonostante fossero fattori eventuali nella realizzazione del reato, al momento della loro verificazione, divenivano elementi costitutivi dello stesso.

Tra le norme classificatorie delle circostanze, un ruolo fondamentale era svolto dall’art. 70 c.p., che distingueva tra circostanze oggettive e circostanze soggettive.

Tale norma, ancora oggi vigente, individua come attinenti alla condotta (circostanze oggettive) tutte quelle circostanze che concernono la natura, la specie, i mezzi, l’oggetto, il luogo ed ogni altra modalità dell’azione, nonché la gravità del danno o del pericolo, ovvero le condizioni o le qualità personali dell’offeso (ad es. l’aver commesso il reato nei confronti di un minore, in presenza di un minore, l’aver profittato di circostanze di tempo e di luogo, aver adoperato sevizie, ecc).

Qualifica, invece, come soggettive, tutte quelle che concernono l’intensità del dolo (ad es. la premeditazione) o il grado della colpa (ad es. l’aver agito nonostante la previsione dell’evento), le condizioni, le qualità personali del colpevole (naturalistiche, come i motivi a delinquere ovvero normative, ad esempio l’essere pubblico ufficiale), e i rapporti tra il colpevole e l’offeso (ad es. rapporti di parentela, coniugio, amicizia, nell’ambito di un rapporto di istruzione o vigilanza o custodia), ovvero tutte quelle che riguardano la persona del colpevole.

La norma specifica che sicuramente rientrano tra le circostanze soggettive quelle personalissime come l’imputabilità e la recidiva.

È evidente che ciò che differenzia le circostanze oggettive da quelle soggettive è che mentre le prime appartengono alla realtà tangibile e sono generalizzabili; le seconde attengono alla sfera individuale del soggetto agente e alle sue reazioni nella realtà.

Ebbene, questa norma, per le sue caratteristiche, svolgeva un ruolo fondamentale proprio in tema di comunicabilità delle aggravanti nei reati plurisoggettivi eventuali.

Precisazione importante è che le circostanze di cui ci si occupa non sono quelle pensate dal legislatore in forma plurisoggettiva e relative alla diversità di ruoli e apporti nelle ipotesi concorsuali (artt. 110,112,114 c.p.), bensì a quelle circostanze strutturate in forma monosoggettiva che apparterrebbero ad uno soltanto dei concorrenti.

In particolare, l’art. 118 c.p. prima della riforma n.19/1990, distingueva tra tre diversi regimi di estensibilità ai correi delle circostanze: a) le circostanze oggettive (aggravanti e attenuanti), sempre comunicabili ai correi, ossia valutate a carico o a favore dei concorrenti anche se non conosciute da tutti; b) le circostanze di natura soggettiva, non comunicabili, salvo che non avessero agevolato la commissione del reato (cd. Aggravanti soggettive oggettivizzate); c) le circostanze soggettive di natura strettamente personale (recidiva ed imputabilità), non comunicabili sempre.

Il meccanismo delineato dall’art. 118 c.p., era perfettamente compatibile con il modello di imputazione obiettiva di cui all’art.59 c.p., dove le circostanze, una volta accertate nella loro esistenza, potevano essere automaticamente ascritte all’agente e, dunque, agli altri concorrenti, senza verificare se fossero da questi conosciute o conoscibili.

Questo significa che se Tizio, Caio e Sempronio concorrevano nella commissione del reato di furto, ed in questo erano agevolati dal rapporto di amicizia tra Tizio e la persona offesa, riuscendo ad entrare facilmente in casa; Caio e Sempronio anche se non erano a conoscenza di questo rapporto né potevano conoscerlo per colpa perché avevano incontrato Tizio in un bar la sera prima o magari in carcere, avrebbero comunque visto applicate nei loro confronti le rispettive aggravanti di cui all’art. 61 c.p.

3. L’intervento della novella del 1990 e la riscrittura degli artt. 59 e 118 c.p.

Il sistema sopra delineato, viene completamente stravolto dalla novella n. 19/1990 che interviene modificando il sistema di imputazione di cui all’articolo 59 c.p. nonché il meccanismo di comunicabilità ai correi di cui all’articolo 118 c.p. lasciando, tuttavia, invariata la classificazione tra circostanze oggettive e soggettive di cui all’art. 70 c.p.

Ed è proprio sui meccanismi di coordinamento tra l’invariato art. 70 c.p. e il novellato art. 118 c.p. che, dottrina e giurisprudenza, sono state chiamate a far luce.

Nel rispetto del principio di colpevolezza, ormai costituzionalizzato a partire dalla nota sentenza costituzionale n.364/1988, il legislatore ha esteso anche al regime di imputazione delle circostanze il principio “nulla poena sine culpa”.

All’art. 59 c.p. resta fermo il regime di imputazione obiettivo delle circostanze attenuanti, perfettamente confacente ai principi di offensività, di colpevolezza e di “favor rei”; mentre per le circostanze aggravanti è stabilito che <<sono valutate a carico dell’agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa>>.

Ne deriva che, affinché le circostanze aggravanti possano essere imputate all’autore del reato, è necessario che siano aggrappate ad un coefficiente psicologico. Pertanto, se la circostanza aggravante non è conosciuta e neppure era conoscibile dall’agente, essa non può essere in concreto applicata.

Ed invero, nessun tipo di rimprovero potrebbe essere rivolto al soggetto che, pur agendo in un contesto illecito, non conosceva né poteva conoscere l’esistenza di ulteriori elementi di disvalore del fatto, rispetto ai quali, dunque, non poteva assolutamente determinarsi.

La riforma del 1990 modifica anche l’articolo 118 c.p., in tema di estensibilità ai correi delle circostanze aggravanti.

Viene meno la tripartizione tra circostanze oggettive estensibili sempre, circostanze soggettive cd. oggettivizzate se hanno agevolato, circostanze soggettive mai estensibili.

Il legislatore adotta un sistema che sancisce la nuova regola della inestensibilità agli altri compartecipi delle circostanze soggettive, sia aggravanti che attenuanti, tassativamente individuate e che fanno riferimento ai motivi a delinquere, all’intensità del dolo, al grado della colpa e alla persona del colpevole.

Ed infatti, è disposto che queste <<sono valutate soltanto riguardo alla persona cui si riferiscono>>.

Nel silenzio dell’art. 118 c.p., occorre chiedersi a quale tipo di disciplina soggiacciono le circostanze diverse da quelle tassativamente indicate. 

E dunque, a quale regime accedono le circostanze oggettive di cui all’art. 70 c.p.: natura, specie, mezzi, oggetto, tempo, luogo e ogni altra modalità dell’azione, la gravità del danno o del pericolo, ovvero le condizioni personali dell’offeso.

E quale regime deve applicarsi alle circostanze soggettive di cui all’art. 70 c.p. che non rientrano più tra quelle indicate dall’art. 118 c.p.: quelle che concernono <<le condizioni o le qualità personali del colpevole>> o <<i rapporti tra il colpevole e l’offeso>>.

A titolo esemplificativo, si pensi all’aggravante speciale di cui all’art. 628 comma 3 n.3 c.p., quando nel delitto di rapina, la violenza o minaccia sia posta in essere da persona che fa parte dell’associazione di cui all’art. 416 bis c.p.

La dottrina immediatamente successiva alla riforma aveva iniziato ad affermare che se le circostanze oggettive e soggettive tassativamente indicate dall’art. 118 c.p. non si estendono, allora tutte le altre circostanze oggettive e soggettive di cui all’art. 70 c.p. si estendono automaticamente ai correi.

A questa estensione automatica, doveva però applicarsi la nuova regola di imputazione di cui all’art. 59 c.p., per cui le circostanze attenuanti oggettive e soggettive non tassativamente indicate si applicavano direttamente ai correi; mentre le circostanze aggravanti oggettive e soggettive non tassativamente indicate si applicavano soltanto se conosciute dal partecipe o da questi ignorate per colpa o ritenute inesistente per errore inescusabile.

Tale lettura appare immediatamente insoddisfacente, atteso che arrivano ad estendersi ai correi, in via quasi automatica, condizioni o qualità personali del colpevole (ad esempio, il rapporto di parentela di uno con la vittima, la qualifica di appartenente ad associazione mafiosa, ecc) ampliando, in tal modo, l’area del penalmente rilevante.

Ed infatti, mentre nella formulazione originaria dell’art. 118 c.p. le condizioni o qualità personali del colpevole erano estese soltanto laddove avessero agevolato il reato; dal nuovo sistema emergente dagli artt. 118, 70 e 59 c.p., le condizioni o qualità personali del colpevole, si estendono agli altri automaticamente sulla base della mera conoscenza o conoscibilità.

Tuttavia, è evidente, come del resto confermato dalla giurisprudenza che una lettura costituzionalmente orientata della norma impone che debbano sussistere entrambi i requisiti richiesti.

Ai fini dell’estensibilità ai concorrenti è, pertanto, necessario che l’aggravante abbia “agevolato” (materialmente o moralmente) la commissione del reato; e ai fini dell’imputabilità personale, la conoscenza o conoscibilità della stessa (più recente Cassazione penale sez. III, 05/04/2018, n.38870).

Si pensi l’aggravante sopracitata prevista dal comma 3 n.3 dell’art. 628 c.p. in tema di rapina.

Tale aggravante è integrata dalla mera appartenenza, anche non accertata con sentenza passata in giudicato, alla associazione di tipo mafioso – rilevante come fatto storico anche se precedente alla introduzione dell’espressa previsione di cui all’art. 416 bis c.p. – non essendo richiesto l’accertamento in concreto dell’uso della forza intimidatrice derivante dalla predetta appartenenza. Tale aggravante, esula dalle modalità della condotta ed ha natura soggettiva atteso che, ai sensi dell’art. 70 c.p. riguarda una condizione o qualità personale del reo.

Ebbene tale circostanza soggettiva aggravante, non essendo più contemplata dall’art. 118 c.p. (che non ricomprende più le condizioni o qualità personali dell’agente) deve ritenersi estensibile ai concorrenti nel reato soltanto se ricorrono le due condizioni sul piano oggettivo e soggettivo.

Ciò vuol dire che l’appartenenza al clan di uno dei soggetti concorrenti nel reato di rapina deve aver agevolato la commissione del reato (sul piano materiale o morale); e che, ex art. 59 c.p., doveva essere conosciuta o conoscibile, ovvero ignorata per colpa, dai correi.

3.1. La non sempre agevole distinzione tra aggravanti soggettive e oggettive. La natura dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa di cui all’art.416 bis 1

In questo complesso sistema, si pongono due ulteriori questioni.

La prima concerne la non sempre agevole distinzione tra circostanze oggettive e soggettive.

La seconda attiene ai meccanismi di comunicabilità ai correi delle aggravanti che si caratterizzano per un “quid pluris” e cioè che richiedano in capo all’agente, nella fattispecie strutturale di base, uno dolo specifico oppure un dolo intenzionale e cioè una partecipazione maggiore al fatto, tale da delineare quella condotta come maggiormente pericolosa. Una aderenza al fatto che non necessariamente è condivisa da colui che concorre con questi nel reato.

Il primo problema, e cioè la non sempre agevole distinzione tra circostanze oggettive e soggettive, si pone a fronte dell’esistenza di circostanze cd. Miste, ossia che presentano caratteri oggettivi e soggettivi o polivalenti che, a seconda del fatto concreto, vengono ad assumere carattere soggettivo o oggettivo.

Tra queste, si colloca la peculiare natura dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa, così come delineata dall’art. 416 bis 1, inserita nel codice penale dal d.lgs. n.21/2018 e già prevista all’art. 7 del d.l. 13 maggio 1991, n.152.

Tale circostanza aggravante, si applica alla condotta di chi ponga in essere condotte astrattamente idonee, e con il fine specifico (o ulteriore), di agevolare un’esistente associazione mafiosa.

Prima che il contrasto fosse risolto dalle Sezioni Unite, si erano formati sul punto tre diversi orientamenti.

Un primo orientamento ermeneutico, ha sostenuto la natura oggettiva di tale aggravante, in quanto il fine di agevolare l’associazione mafiosa rappresenta una modalità dell’azione.

Sul piano obiettivo, la condotta deve essere idonea a dare un ausilio all’operatività dell’intera associazione mafiosa. E sul piano psicologico, essendo una circostanza oggettiva ex art. 70 c.p. e non essendo richiamata dall’art. 118 c.p., essa si estende a tutti i compartecipi nel reato secondo il meccanismo di cui all’art. 59 c.p.

Accogliendo tale orientamento, ai concorrenti nel reato è applicata la circostanza aggravante oggettiva dell’agevolazione mafiosa se da questi conosciuta, ovvero per colpa abbiano ignorato o ritenuto inesistente la connotazione della loro azione. È pertanto richiesta la mera consapevolezza del dolo specifico altrui.

Il secondo orientamento, maggioritario, qualificava come soggettiva la circostanza aggravante dell’agevolazione mafiosa.

Tale approccio ermeneutico fa leva sul dato che, l’aggravante in esame, si connota per una volontà finalisticamente orientata dell’agente. In particolar modo, è richiesto all’agente un dolo specifico rispetto al delitto base, tale per cui esso deve ritenersi necessariamente rientrante tra i motivi a delinquere e all’intensità del dolo.

Le conseguenze sul piano della comunicabilità ai correi, dunque, è da rinvenirsi nell’art. 118 c.p. che esclude sul piano della tipicità la possibilità di “estendere” automaticamente ai correi tale aggravante.

Accanto a questi due orientamenti, ne sorgeva anche uno intermedio che, a fronte della impossibilità di rinvenire una soluzione univoca, definiva la circostanza in esame come polivalente, ossia di natura diversa a seconda del caso concreto.

Accogliendo tale orientamento, l’aggravante dell’agevolazione mafiosa ha natura soggettiva quando essa non può che ritenersi interna alla sola sfera del soggetto agente. Non essendo necessariamente conoscibile dagli altri, questa non si estende automaticamente ex art. 118 c.p.

A contrario, quando il fine specifico di agevolare l’associazione appartenente ad uno solo, si concretizza attraverso una condotta che si manifesta agli altri concorrenti, essa si oggettivizza. In questo secondo caso, essa sarà automaticamente estesa agli alti concorrenti. Il dolo specifico di uno, in sostanza, diventa il dolo della struttura.

Ed invero, la Suprema, ha attribuito natura oggettiva all’aggravante in esame, in alcuni casi di contiguità tra associazione semplice ed associazione mafiosa. Il caso è quello, ad esempio, di un’associazione semplice – autonoma e che non si pone in linea di continuità con l’associazione mafiosa (nel senso che i sodali dell’associazione semplice non appartengono anche all’associazione mafiosa) – che spaccia nelle zone e per il tramite delle conoscenze indicate dal clan, con la finalità di evitare che altre associazioni mafiose possano appropriarsi degli spazi, così agevolando il clan nel dominio del territorio (Cassazione penale sez. VI, 04/10/2017, n.53646). In questi casi, la condotta agevolativa riguarda non uno, ma tutta la struttura associativa.

Le Sezioni Unite, hanno accolto il secondo dei tre orientamenti sopra esposti e hanno affermato la natura soggettiva dell’aggravante mafiosa, in quanto attinente “ai motivi a delinquere”.

3.2. La ratio della inestensibilità infraconcorsuale sul piano della tipicità

Una volta individuato il carattere soggettivo dell’aggravante, come anticipato, si pone un problema ulteriore, e cioè quello della comunicabilità ai concorrenti nel reato delle aggravanti che siano caratterizzate da un “quid pluris” di partecipazione al fatto.

Il problema è di rilevante interesse perché quando ci si trova al cospetto di un aggravante soggettiva ricompresa tra quelle di cui all’art. 118 c.p., e cioè quelle attinenti ai motivi a delinquere, l’intensità del dolo, il grado della colpa e le circostanze inerenti alla persona del colpevole, esse sono valutate soltanto con riguarda alla persona cui si riferiscono.

In questo senso, essere non potrebbero affatto essere “valutate” a carico dei compartecipi. Il che significa che esse non possono estendersi né comunicarsi ai concorrenti nel reato.

La ratio di tale scelta legislativa, la si è individuata nella evenienza che tali aggravanti si caratterizzano o per un grado di adesione psichica più elevato al fatto, o perché appartengono alla sfera più intima del soggetto, non necessariamente e facilmente conoscibile dai concorrenti.

Pertanto, l’unica soluzione sarebbe quella di applicare in via autonoma la circostanza aggravante al compartecipe.

Ad esempio, se il compartecipe non ha direttamente premeditato l’omicidio, non sarà possibile estendere a quest’ultimo l’aggravante di chi, invece, si è determinato – in un apprezzabile intervallo temporale tra l’insorgenza del proposito criminoso e l’attuazione di esso – senza desistere e manifestando una ferma risoluzione criminosa.

È evidente che l’elemento psicologico, consistente nel perdurare nell’animo del soggetto della volontà  criminosa, non si  possa estendere automaticamente in  capo ad un soggetto che non ha maturato tale predisposizione al delitto, tale da rappresentare un pericolo maggiore per l’ordinamento.

Si pensi anche all’aggravante dei motivi a delinquere, anche questa espressamente ricondotta tra le aggravanti soggettive inestensibili ex art. 118 c.p. Tale circostanza viene definita dalla giurisprudenza come l’antecedente psichico della condotta, ossia l’impulso, l’istinto o il sentimento che hanno indotto l’individuo a delinquere (Cass., sez. I 12 gennaio 1979 – 6 aprile 1979 n.3495).

Anche in questo caso, appare difficile immaginare che i motivi che hanno indotto taluno ad agire possano essere estesi ad altri senza che questi li abbiano condivisi.

Accanto a queste, come anticipato, la giurisprudenza a Sezioni Unite, ha ricondotto anche l’aggravante dell’agevolazione mafiosa ex art. 416 bis c.p., in quanto rientrante tra i motivi a delinquere.

Per “incidens”, si dovrebbe anche comprendere in che modo il fine di agevolare l’associazione mafiosa rientri tra i motivi a delinquere, atteso che il motivo è diverso dal fine. Quest’ultimo è il cd. Movente, ossia ciò che spinge l’agente ad agire, mentre il fine è l’obiettivo che il soggetto intende raggiungere.

Ebbene, è proprio dalla sovrapposizione di questi due concetti, che le aggravanti che si caratterizzano per un dolo specifico, e dunque per una partecipazione e intensità maggiore al fatto, vengono ricondotte nelle categorie delineate dall’art. 118 c.p., con conseguente inestensibilità ai concorrenti nel reato.

Si tratta di circostanze che si caratterizzano per un dolo specifico o per un dolo intenzionale e che differiscono dal cd. Dolo diretto. Insomma, di circostanze che si caratterizzano per un “quid” psichico ulteriore e più stringente.

La distinzione è messa ben in evidenza da Sezioni Unite n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, che individua anche l’elemento comune al dolo specifico e al dolo intenzionale e che condurrà le SU del 2020 a parlare di dolo intenzionale o specifico.

Nel dolo diretto il soggetto si rappresenta e vuole l’evento, essendo irrilevante la specifica finalità (ad es: per il dolo di omicidio basta la coscienza e volontà di uccidere, non richiedendo l’art. 575 c.p. alcuna specifica finalità; ad es: per l’aggravante del metodo mafioso, è sufficiente la coscienza e volontà di porre in essere condotte tipiche di un appartenente all’associazione a delinquere, essendo irrilevante la finalità).

Nel dolo specifico, la legge esige che, oltre alla coscienza e volontà dell’evento, il soggetto agisca per un fine particolare, che sta oltre oltre il fatto materiale tipico, onde il conseguimento di tale fine non è necessario per la consumazione del reato (ad es. nel reato di furto, oltre alla sottrazione e all’impossessamento è necessario il fine ulteriore del profitto, tuttavia l’aver conseguito il profitto non rileva sul piano della tipicità; altro es. è quello dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa ove ciò che rileva è la volontà e rappresentazione dell’evento agevolativo e di agire proprio al fine di agevolare l’associazione mafiosa, indipendentemente dalla realizzazione dell’evento).

Il dolo intenzionale esprime l’intensità della volontà del fatto avuto di mira dal soggetto agente. In questo senso esso è compatibile con il dolo specifico, nel senso che il soggetto si rappresenta e vuole l’evento ed il fine specifico e, la volontà dell’evento, può essere più o meno intensa.

Se il dolo specifico rientra tra i cd. Motivi a delinquere, è evidente che esso risponde ai meccanismi di cui all’art. 118 c.p., tale per cui, sul piano della tipicità, esso non potrà essere esteso agli altri concorrenti nel reato, in quanto afferente ad una volontà ulteriore, uno scopo finalisticamente orientato che è interno alla psiche del soggetto e che non necessariamente è conosciuto dagli altri concorrenti nel reato.

“A contrario”, quando vi è dolo diretto, il soggetto agisce solo per realizzare l’evento tipico che, inevitabilmente è conosciuto dagli altri, altrimenti non agirebbe.

In questo contesto, vi sono dei casi nei quali l’aggravante, in quanto espressione di una maggiore pericolosità, richiede che – ai fini della sua applicazione – la volizione che la caratterizza debba assumere un minimo di concretezza (o meglio una maggiore intensità di volontà dell’evento), anche attraverso una mera valutazione autonoma dell’agente.

Le Sezioni Unite parlano di “dolo intenzionale”, per esprimere l’idea che ai fini del riconoscimento dell’aggravante, è necessario provare che il soggetto agente oltre al dolo specifico di agevolare il clan, abbia posto in essere delle condotte espressive ex ante, di una intensa volontà di volere proprio l’agevolazione del clan (indipendentemente dalla sua verificazione in concreto che, altrimenti, sfocerebbe in un concorso esterno in associazione mafiosa).

La quantità di intensità dell’evento agevolativo non impone un raccordo o un coordinamento con i rappresentanti del gruppo e, soprattutto, non prevede che il fine rappresentato sia poi nel concreto raggiunto, pur essendo presenti tutti gli elementi di fatto, astrattamente idonei a tale scopo. È bene ribadire che tale finalità non deve essere esclusiva, ben potendo accompagnarsi ad esigenze egoistiche quali, ad esempio, la volontà di proporsi come elemento affidabile al fine dell’ammissione al gruppo o qualsiasi altra finalità di vantaggio, assolutamente personale, che si coniughi con l’esigenza di agevolazione.

E la Suprema Corte, parla di intensità del dolo (e quindi di dolo intenzionale) proprio per escludere dall’applicazione dell’aggravante quei casi nei quali il soggetto agente si rappresenta e vuole l’evento agevolativo, ma con un grado di intensità inferiore rispetto al dolo di altra finalità.

L’esempio può essere quello del pubblico ufficiale che, per ottenere facili guadagni, fornisca alcune informazioni riservate all’associazione mafiosa sullo stato degli atti ovvero sulle attività di indagine in corso.

In questo contesto, prima dell’intervento delle Sezioni Unite, era possibile sostenere che l’aggravante dell’agevolazione mafiosa non si applica al pubblico ufficiale che agisce al solo scopo di ottenere dei guadagni e non già al fine di agevolare l’associazione mafiosa, verso la quale non nutre alcun interesse. Quindi le condotte sono idonee a realizzare l’evento, ma il soggetto le pone in essere per realizzare una finalità diversa che è quella dei guadagni facili.

Tuttavia, si argomentava in senso opposto che la condotta del pubblico ufficiale è una condotta obiettivamente idonea a realizzare l’evento. Ed era una condotta, certo, intenzionalmente volta a trarre un profitto ma inevitabilmente diretta anche ad agevolare l’associazione mafiosa: non si può volere uno e non volere l’altro. A meno che, non si provi in giudizio che il soggetto agente dava false informazioni al clan (ad esempio).

È proprio in questo che sta l’innovazione introdotta dalle Sezioni Unite, ai fini dell’applicazione dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa, si deve provare l’esistenza di un dolo intenzionale e diretto, ossia l’esistenza di una volontà adesiva forte all’evento di agevolazione ed agire per il perseguimento di quel fine specifico, cui certamente non è escluso, se ne possano aggiungere altri.

4. L comunicabilità “autonoma” delle aggravanti soggettive ai concorrenti nel reato

Non si approfondisce in ordine alla circostanza che tutte le aggravanti con scopo finalisticamente orientato (l’agevolazione mafiosa, il fine di lucro, il fine di profitto  nell’aggravante dell’immigrazione clandestina) rientrino, per comune interpretazione giurisprudenziale, tra i motivi a delinquere e che, dunque, non si estendono sul piano della tipicità, agli altri concorrenti, ai sensi dell’art 118 c.p.

Tuttavia, dottrina e giurisprudenza, si sono chieste se fosse comunque possibile muovere un rimprovero a chi concorra nel reato con chi abbia uno specifico motivo a delinquere, con chi lo voglia con una certa intensità o gravità.

Ebbene giammai sarebbe possibile estendere tali aggravanti agli altri concorrenti perché la ratio sottoposta all’art. 118 c.p. è da rinvenirsi in un generale principio di affidamento, secondo cui, anche nel “versari in re illicita”, ciascuno confida nelle intenzioni dagli altri manifestate e si determina rispetto ad esse.

A tale principio di affidamento, che ispira la ratio del concorso di persone nel reato, fanno eccezione alcuni istituti previsti dal legislatore, quali ad es. l’art. 116 (reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti); art. 117 (Mutamento del titolo del reato per taluno dei concorrenti) e, guarda caso, immediatamente dopo viene inserito l’art. 118 c.p., da leggersi in combinato disposto con gli artt. 70 e 59 c.p. (Valutazione delle circostanze aggravanti o attenuanti).

Ebbene, l’elemento comune a tutte queste fattispecie che ammettono un aggravio di pena è da rinvenirsi nella necessità di muovere un rimprovero al concorrente che, pur potendo prevedere la commissione di un reato più grave da quello voluto, ovvero, pur conoscendo o potendo conoscere le particolari condizioni e qualità personali del colpevole, ovvero i suoi rapporti con l’offeso, “abbia agito comunque”.

Ebbene, proprio prendendo spunto dalla ratio sottesa a tali istituti, la Suprema Corte, con un orientamento che ormai si può ritenere costante, afferma che le aggravanti soggettive, sebbene non siano estensibili ai concorrenti nel reato ex art. 118 c.p., tuttavia esse sono autonomamente applicate quando risulti provata la “conoscenza effettiva e la volontà adesiva al progetto”, cosicché il concorrente “faccia propria la particolare intensità del dolo”.

È quanto affermato dalla Suprema Corte, in tema di applicazione (e non estensione) al concorrente, dell’aggravante della premeditazione (Cass. I, n. 40237/2007; Cass. VI, n. 56956/2017 che la estende al concorrente che non abbia partecipato all’originaria deliberazione volitiva, qualora questi ne abbia acquisito piena consapevolezza precedentemente al suo contributo all’evento ed a tale distanza di tempo da consentire che la maturazione del proposito criminoso prevalga sui motivi inibitori).

Ad analoghe conclusioni si è giunti anche in tema di applicabilità (anche se la Suprema Corte parla di estensione) al concorrente dell’aggravante dei motivi abietti e futili, anch’essa pacificamente ascrivibile al motivo a delinquere, applicabilità condizionata solo alla conoscenza di tali fini a cura del partecipe, prima di assicurare il suo intervento di collaborazione. (Sez. 1, n. 50405 del 10/07/2018, Gjergji Kastriot Rv. 274538; Sez. 1, n. 13596 del 28/09/2011, dep. 2012, Corodda, Rv. 252348; Sez. 1, n. 6775 del 28/01/2005, Erra, Rv. 230147).

Tale mera conoscenza del motivo, forse induce a parlare di estensione. Mera conoscenza che non sarebbe possibile per l’aggravante dell’agevolazione mafiosa che si caratterizza per un “quid pluris” rafforzativo e che, infatti, indurrà la Suprema Corte a parlare di consapevolezza da parte del concorrente (consapevolezza vuol dire anche dolo eventuale).

E proprio di dolo eventuale, la Cassazione, ancor prima che per l’aggravante soggettiva mafiosa, ha fatto riferimento all’applicabilità ai concorrenti dell’aggravante del nesso teleologico. L’aggravante del nesso teleologico, connessa allo scopo dell’agente, ma ritenuta applicabile al concorrente che non abbia elaborato tale nesso, ove la stessa fosse a questi conoscibile ed a lui attribuibile, anche a titolo di dolo eventuale (Sez. 1, n. 20756 del 02/02/2018, Giangreco, Rv. 273125) in forza della intervenuta rappresentazione.

Ed infatti, il nesso teleologico, condivide con l’agevolazione mafiosa la volontà di un soggetto di “perseguire un fine ad ogni costo”, senza arretrarsi di fronte alla necessaria o eventuale commissione di altri reati mezzo. Questo vuol dire che, ai fini dell’applicabilità al concorrente dell’aggravante, non è sufficiente provare che egli conoscesse la volontà del soggetto di perseguire un fatto di reato, ma è necessario provare che sapesse che quel soggetto lo avrebbe perseguito “ad ogni costo”, sì da accettare in termini di consapevolezza (rectius dolo eventuale), il rischio di realizzazione di altri e più gravi reati.

Pertanto, ai fini dell’applicazione dell’aggravante soggettiva, in capo al concorrente è sufficiente il dolo diretto, perché laddove l’elemento interno proprio di uno degli autori sia stato conosciuto anche dal concorrente, è irrilevante che questi non condivida il fine, perché nel momento in cui garantisce la sua collaborazione, è consapevole della verificazione dell’evento ulteriore e più grave, autonomamente rimproverabile.

Tuttavia, ci si chiede se sia sempre sufficiente accontentarsi del dolo diretto in capo al concorrente nel reato, quando egli abbia concorso nel reato, senza condividere, neppure in termini di dolo eventuale (e cioè nei casi nei quali il soggetto agente non ha di mira la realizzazione dell’evento che, tuttavia, si realizza).

Si pensi al reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. La circostanza aggravante del fine di profitto prevista dall’art. 12 comma 3 ter d.lgs. n. 386/1998 ha una pacifica natura soggettiva, essendo incentrata su una particolare motivazione a delinquere.

Ci  si chiede,  allora, a che  titolo è punibile  il concorrente nel reato  di favoreggiamento all’immigrazione  clandestina, il quale  provi in giudizio che,  pur avendo nel fuoco del  dolo la realizzazione del reato di immigrazione clandestina e conoscendo la volontà del concorrente di trarne un profitto, comunque non si sia determinato a realizzarlo.

Aderendo all’impostazione della Suprema Corte, anche in caso di dolo eventuale, l’aggravante del fine di profitto di estende al concorrente che, invece, commette il reato per un fine diverso (ad es. aiutare i connazionali ad entrare nel territorio dello Stato per proprie convinzioni politiche), e riesca anche a provarlo in giudizio.

Ebbene, in questo caso, forse, si dovrebbe ritenere la non applicabilità al concorrente dell’aggravante del profitto, compatibilmente con quanto dispone l’art. 118 c.p. Del resto, la Suprema Corte, sia pure a sezioni semplici, aveva già mostrato di aderire ad un orientamento in tal senso (Cass. pen. sez.I n.35510/2019.)

Circostanza soggettiva che attiene ai fini a delinquere ex art. 118 c.p. non si comunica ai concorrenti,    quindi    vuol    dire    che    i    presupposti    dell’aggravante,    compreso    il    dolo intenzionale/specifico, vanno valutate autonomamente in relazione a ciascun singolo concorrente. Non sarebbe sufficiente il dolo specifico di un concorrente con la consapevolezza degli altri. Parlare di consapevolezza, significherebbe accontentarsi di un dolo eventuale per circostanze che, invece, richiedono un grado di adesione psichica molto più elevato.

In realtà, onde evitare che il meccanismo di comunicabilità (intesa non come estensione, ma applicazione per dolo diretto) dell’aggravante soggettiva al concorrente nel reato, possa irragionevolmente trasformarsi in una colpa d’autore, è quello di valorizzare il principio di offensività e, dunque, di individuare l’offesa al bene giuridico, messo almeno in pericolo dalla condotta del concorrente nel reato.

L’adesione alla concezione realistica del reato, pur nella versione tesa a garantire il principio di legalità impone che, ai fini della consumazione, si verifichi l’offesa al bene protetto.

Per cui, una volta che l’interprete abbia ritenuto comunicabile l’aggravante soggettiva, quale condivisione di un dolo diretto del concorrente nel reato, dovrà provare in concreto che la condotta posta in essere dall’agente era idonea, sia pure ex ante, a ledere il bene giuridico tutelato proprio dalla circostanza aggravante che intende applicare.


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Maria Cerreto

Nata in provincia di Caserta nel 1994, ha conseguito con lode la laurea magistrale in Giurisprudenza nell'anno accademico 2017/2108 presso “l’Università degli studi di Napoli Federico II”, con una tesi in diritto processuale penale. Ha svolto il tirocinio formativo ex art.73 d.l. 69/2013 presso la Procura di Santa Maria Capua Vetere- ufficio del procuratore Aggiunto. Attualmente svolge la pratica forense ed é iscritta al registro dei praticanti avvocati di Santa Maria Capua Vetere.

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