Concorso di giurisdizioni e potere di disapplicazione da parte del G.O.
Con il termine giurisdizione ci si riferisce all’attività con cui il potere giudiziario da esecuzione alle norme generali ed astratte formulate dal potere legislativo.
La rilevanza di tale potere è notevole, poiché esso, insieme a quello legislativo ed amministrativo, è alla base del moderno Stato di diritto; la cui caratteristica precipua è data dalla separazione di tali poteri.
La divisione dei tre poteri fondamentali dello Stato rappresenta una garanzia di libertà nei confronti dei cittadini perché, impedendo a ciascun ordine di cumulare anche i poteri degli altri, fa si che di questi non si abusi.
L’importanza che riveste il potere giudiziario ha interessato anche la Costituzione, la quale gli dedica espressamente diversi articoli.
All’art. 24 Cost. si prevede la possibilità ai cittadini di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi.
L’art. 103 Cost. riserva al Consiglio di Stato e agli altri organi di giustizia amministrativa la giurisdizione per la tutela nei confronti della p.a. degli interessi legittimi e, in particolari materia indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi.
L’art. 113 Cost., infine, stabilisce che contro gli atti dell’amministrazione è sempre ammessa tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria e amministrativa.
Tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti.
La legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa.
Dall’analisi di tali disposizioni si nota che la Costituzione accolga un sistema basato su una doppia giurisdizione: ordinaria e amministrativa.
Ne consegue che nelle controversie tra amministrazione e cittadini, in cui la posizione di questi ultimi si qualifichi come diritto soggettivo, la giurisdizione spetterà al giudice ordinario, viceversa, se la posizione vantata dal cittadino sia inquadrabile nell’alveo dell’interesse legittimo, sarà competente il giudice amministrativo.
Tale distinzione ha origini antiche e rappresenta il punto di arrivo di un lungo percorso, al quale è necessario fare un accenno.
La nascita della giurisdizione amministrativa si deve alla legge 20 marzo 1865, n. 2248, allegato E ( cosiddetta legge abolitrice del contenzioso amministrativo).
Tale legge, affidava al g.o. la tutela del cittadino nei confronti della p.a., qualora si vertesse in materia di “diritti civili e politici” (art. 2 LAC); gli affari non devoluti alla giurisdizione ordinaria dovevano essere risolti dalla stessa amministrazione (art. 3 LAC).
La riforma del 1865, tuttavia, delineava un sistema di tutela del privato che era monco di una parte fondamentale.
Infatti, «gli affari non compresi nell’art. 2» rimanevano privi di una tutela giurisdizionale e le relative controversie erano affidate, dal successivo art. 3, alle autorità amministrative.
In considerazione del vuoto di tutela che veniva così a determinarsi, si optò per l’istituzione di un giudice ad hoc, preposto alla tutela di situazioni soggettive – diverse dai diritti soggettivi – che il cittadino vantasse nei confronti della p.a.
Per questo motivo, veniva istituita la IV Sezione del Consiglio di Stato (1889), dando così vita ad un sistema dualistico di giurisdizione.
In particolare, si attribuiva alla IV Sezione il potere di decidere su ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di legge, contro atti e provvedimenti di un’autorità amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante, che abbiano per oggetto un interesse di individui o di enti morali giuridici quando i ricorsi medesimi non siano di competenza dell’autorità giudiziaria, né si tratti di materia spettante alla giurisdizione od alle attribuzioni contenziose di corpi o collegi speciali.
Pochi anni dopo, venne definitivamente acclarata la natura giurisdizionale della IV sezione del Consiglio di Stato e con la legge 30 dicembre 1923, n. 2840 (poi confluita nel T.U. 26 giugno 1924, n. 1054) fu approntata una nuova importante riforma della giurisdizione amministrativa.
Invero, si abolì la distinzione di competenza tra la IV e la V del Consiglio di Stato; ed accanto alla giurisdizione di legittimità e alla giurisdizione di merito venne istituita la giurisdizione esclusiva per specifiche materie ove era difficile separare, con certezza, gli interessi legittimi dai diritti soggettivi.
Per la prima volta, quindi, veniva introdotto un criterio di riparto della giurisdizione basato su speciali materie (es: pubblico impiego art. 4, comma 1, R.D. 26 giugno 1924, n. 1058), attribuite in blocco ad un’unica autorità giurisdizionale, e non più sulle situazioni giuridiche soggettive fatte valere dall’interessato.
La ragione della nascita della giurisdizione esclusiva è da rinvenire nella necessità di ridurre il fenomeno del concorso di giurisdizioni, ovvero quella situazione in cui, per una medesima fattispecie, vi sono due giurisdizioni apparentemente o effettivamente chiamate ad occuparsene.
In particolare, la previsione di tale tipo di giurisdizione è da rinvenire nella oggettiva difficoltà di distinguere, nell’ambito appunto di particolari materie, le posizioni giuridiche di volta in volta coinvolte in una determinata controversia, atteso che in taluni casi interessi legittimi e diritti soggettivi sono talmente imbrigliati tra loro da risultare difficoltosa l’applicazione del tradizionale criterio di riparto ai fini dell’individuazione del giudice dotato di giurisdizione.
Inoltre, una trattazione disgiunta di situazioni così inestricabili renderebbe inevitabilmente monca la pronuncia del giudice, non potendo la stessa esaurire tutte le questioni coinvolte dal rapporto.
Si osserva come la giurisdizione esclusiva del g.a. si sostanzi in un criterio di riparto sussidiario rispetto a quello tradizionale fondato sulla causa petendi, ossia sulla consistenza della posizione giuridica dedotta in giudizio, secondo cui i diritti soggettivi sono tutelati dal g.o. e gli interessi legittimi dal g.a.
In definitiva essa tende a soddisfare l’esigenza di concentrazione delle controversie e di specializzazione del giudice, onde facilitare l’accesso alla tutela giurisdizionale e la certezza dei rapporti giuridici.
Dall’esame della disciplina sin qui esposta, si osserva come la Costituzione abbia sostanzialmente recepito il sistema del riparto di giurisdizione venutosi a creare dal combinato disposto dell’art. 2 all. E legge 20 marzo 1865 n. 2248 con l’art. 26 R.D. 26 giugno 1924.
Nel dettaglio, la prima norma dispone che sono devolute alla giurisdizione ordinaria tutte le cause nelle quali si faccia questione di un diritto civile o politico, comunque vi possa essere interessata la p.a. e ancorché siano emanati provvedimenti del potere esecutivo o dell’autorità amministrativa.
Questo articolo, dunque, assegna alla giurisdizione del g.o. le controversie di diritto soggettivo, quale che sia il ruolo svolto nelle stessa dalla p.a.
La seconda norma, invece, assegna al Consiglio di Stato, quale giudice amministrativo, la cognizione dei ricorsi contro atti amministrativi che si assumono illegittimi da parte del titolare di un interesse la cui tutela non sia di competenza del giudice ordinario.
Da ultimo, si inseriscono nel solco sopra tracciato, gli artt. 7 e 133 c.p.a.
L’art. 7 stabilisce che sono devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie, nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni.
L’art. 133, invece, raccoglie oggi tutte le ipotesi di giurisdizione amministrativa esclusiva, essenzialmente limitandosi a dare una collocazione ordinata a tutte le disposizioni sparse nell’ordinamento a seguito del proliferare dell’istituto.
Senonché, le norme indicate, nel positivizzare il criterio di riparto fondato sulla natura giudica della posizione soggettiva dedotta in giudizio, non forniscono alcun criterio per distinguere tra diritto soggettivo ed interesse legittimo.
L’assenza di regole in ordine alla definizione dell’interesse legittimo ha avuto come conseguenza l’insorgere di una pluralità di criteri elaborati della dottrina e dalla giurisprudenza per distinguerlo dal diritto soggettivo.
Secondo una prima teoria – cosiddetta della prospettazione – l’identificazione della posizione giuridica soggettiva dedotta in giudizio deve farsi sulla base delle allegazioni contenute nell’atto introduttivo del processo, secondo la qualificazione che ne fornisce la parte.
Ad avviso di tale teoria, dunque, decisiva sarebbe la definizione della situazione azionata dalla parte interessata.
Ed infatti, se questa si afferma titolare di un interesse legittimo, la giurisdizione è del g.a.; viceversa, se ritiene che sia titolare di un diritto soggettivo, la giurisdizione è del g.o.
Questa tesi è stata da subito contraddetta poiché la stessa lascia alla parte (e non al giudice) la qualificazione della pretesa e, conseguentemente, la scelta circa il giudice competente; con ciò comportando incertezza nel riparto di giurisdizione.
Una seconda tesi – della forma giuridica dell’atto – distingue tra atti di imperio ed atti di gestione.
Essa pone al centro dell’analisi, quale discrimine tra attività sindacabile ed attività non sindacabile da parte del g.o., la forma dell’atto.
Secondo la teoria in esame, dunque, il riparto tra le giurisdizioni corrispondeva al confine tra attività di diritto privato ed attività di diritto amministrativo.
La prima avente carattere gestionale e svolta nell’esercizio della capacità di diritto comune, la seconda, invece, avente carattere imperativo e posta in essere nell’esercizio della posizione di supremazia che caratterizza i soggetti pubblici.
Anche questa tesi suscitò numerose critiche perché sono ben riscontrabili posizioni di diritto soggettivo del privato a fronte di atti di imperio della p.a. (si pensi al caso dell’espropriazione per pubblica utilità, laddove il privato vanta un diritto soggettivo ad essere indennizzato).
Un’ulteriore tesi – della norma violata – pone ai fini dell’individuazione della natura della posizione giuridica soggettiva non l’atto, bensì la norma.
L’idea di fondo da cui muove tale tesi è quella secondo cui nel nostro ordinamento sono presenti due tipologie di norme: di azione e di relazione.
Nel primo caso si avrebbe un interesse legittimo, mentre nel secondo un diritto soggettivo.
La tesi fu criticata poiché la stessa non contempla i casi in cui l’interesse legittimo del cittadino, prima di entrare in contatto con l’amministrazione, è tutelato come diritto soggettivo (si fa l’esempio dell’espropriazione per pubblica utilità, in cui la stessa è tutelata da norme di azione e norme di relazione).
Una tesi a lungo invalsa nella giurisprudenza e nella dottrina è quella che fa leva sulla natura del potere esercitato dalla p.a. (cosiddetta teoria della natura del potere).
Essa, in particolare, ritiene che di fronte all’esercizio di attività discrezionale la posizione del destinatario sia sia interesse legittimo, mentre rispetto all’esercizio di un’attività vincolata vi sarebbe un diritto soggettivo.
A fondamento di questa teoria si richiama la circostanza secondo cui il potere dinanzi al quale esistono interessi legittimi è solo quello discrezionale poiché l’ordinamento attribuisce al soggetto pubblico la potestà di produrre unilateralmente gli effetti giuridici sulla base di una scelta in ordine alla cura degli interessi sottesi al compito assegnatogli.
Pertanto, solo gli atti discrezionali sarebbero autoritativi, mentre quelli vincolati non esprimono alcun potere di scelta (questi ultimi appaiono piuttosto come la ricognizione di una volontà già cristallizzata dalla legge).
Di conseguenza, di fronte ad un’attività vincolata il privato vanta diritti soggettivi e non interessi legittimi.
Questa teoria non andò esente da critiche.
Ed invero, la Plenaria ha osservato, con riferimento ai provvedimenti vincolati, che bisogna guardare se il vincolo è stabilito nell’interesse pubblico o privato.
Ne deriva che se la finalità della norma è a tutela del singolo, questi vanterà nei una posizione di diritto soggettivo, mentre se è posto a tutela dell’interesse pubblico, si configurerà un interesse legittimo.
Si segnala, infine, la teoria che, nel distinguere il diritto soggettivo dall’interesse legittimo, guarda al potere dell’amministrazione ed ai modi in cui esso è esercitato (teoria dell’affievolimento).
Alla stregua di tale tesi, per affermare che il cittadino è titolare di un interesse legittimo, occorre indagare, da un lato, il profilo relativo al vizio dell’atto amministrativo e, dall’altro l’idoneità dello stesso ad incidere il diritto soggettivo, che degrada così ad interesse legittimo.
Al riguardo si è osservato che diversi sono i casi di cattivo uso del potere dai casi di carenza del potere.
Nel primo caso l’atto amministrativo rimane efficace fino all’annullamento, configurando in tal modo una posizione giuridica del cittadino di interesse legittimo.
Nel secondo caso, invece, la p.a. non esercita alcun potere e la posizione giuridica del cittadino rimane quella originaria di diritto soggettivo.
In definitiva, quando la norma prevede e disciplina un potere autoritativo della p.a., i provvedimenti adottati in violazione di tale norma, poiché efficaci, comportano la degradazione dei diritti, i quali si affievoliscono in interessi legittimi.
Nel caso di atti adottati in carenza di potere, invece, la mancanza del carattere dell’autoritarieità toglie al provvedimento la forza di affievolire la posizione giuridica di diritto soggettivo del privato.
Da quanto sopra chiarito, si nota come la teoria dell’affievolimento si basa sull’analisi dei vizi prospettati; essa, nonostante i pregi, necessita di essere aggiornata alla luce delle riforme legislative recentemente intervenute.
Sul punto si segnalano le modifiche apportata alla legge n. 241/1990 dalla legge n. 15/2005 che, distinguendo tra le ipotesi di annullabilità del provvedimento da quelle di nullità dello stesso, ha ricondotto a quest’ultima ipotesi solo il caso in cui il provvedimento sia viziato da difetto assoluto di attribuzione.
Altra novità riguarda, invece, la possibilità per il g.a. di condannare la p.a. al risarcimento del danno indipendentemente dal previo annullamento del provvedimento lesivo.
Inquadrati i principali criteri proposti dalla dottrina e dalla giurisprudenza per distinguere l’interesse legittimo dal diritto soggettivo, si osserva come nel nostro ordinamento sussistono, dunque, due ordini giurisdizionali (ordinaria ed amministrativa) competenti a conoscere le controversie che riguardano la pubblica amministrazione.
I rapporti tra il giudice ordinario e la pubblica amministrazione sono quelli stabiliti dalla legge 20 marzo 1865 n. 2248, allegato E.
In particolare, gli artt. 2, 4 e 5 di questa legge, definiscono sia l’ambito di giurisdizione spettante al giudice ordinario nelle controversie insorte nei confronti di una pubblica amministrazione, sia i poteri del giudice medesimo.
Ed invero, l’art. 2 individua i diritti soggettivi come criterio attributivo di giurisdizione al g.o. (cosiddetti limiti esterni), mentre i successivi artt. 4 e 5 della indicano i poteri del g.o. nei confronti della p.a. alla giurisdizione (cosiddetti limiti interni).
Nel dettaglio, l’art. 4 dispone che, quando la contestazione cade sopra un diritto che si pretende leso da un atto dell’autorità amministrativa, i tribunali si limiteranno a conoscere degli effetti dell’atto stesso in relazione all’oggetto dedotto in giudizio. L’atto amministrativo non potrà essere revocato o modificato se non sovra ricorso alle competenti autorità amministrative, le quali si conformeranno al giudicato dei Tribunali in quanto riguarda il caso deciso.
In altri termini, la norma in questione riconosce al giudice il potere di disconoscere l’efficacia dell’atto amministrativo, ma al contempo, gli nega poteri di tipo costitutivo.
A ben vedere, la disposizione si ispira al principio di separazione dei poteri e di non ingerenza del potere giurisdizionale nelle attività e valutazioni riservate alla pubblica amministrazione.
Ne consegue che sarà rimessa all’amministrazione la scelta di adeguarsi al giudicato, eliminando o modificando l’atto illegittimo.
Con specifico riguardo al potere di disapplicazione del g.o. dell’atto adottato dall’amministrazione, l’art. 5 dispone che in questo, come in ogni altro caso, le autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi.
Innanzitutto si osserva che, l’espressione “in questo caso” si riferisce al caso di cui all’art. 4, ed inoltre, la decisione circa la legittimità dell’atto amministrativo si pone non come questione principale, ma incidentale, nel senso che la controversia non verte sull’atto, ma lo stesso rappresenta un presupposto per la decisione.
Si pensi ad una lite tra privati per mancato rispetto delle distanze tra proprietà finitime, in cui sullo sfondo sorga in via incidentale la questione di legittimità del permesso di costruire in virtù del quale è avvenuta l’edificazione in violazione delle regole civilistiche sulle distanze.
Grazie all’attribuzione di tale potere, infatti, il g.o. pur non potendo procedere alla invalidazione e caducazione dell’atto amministrativo ove ne riscontri l’illegittimità in forza dei limiti sanciti dall’art. 4, è abilitato a disapplicarlo e cioè, a decidere la controversia sottoposta alla sua cognizione tamquam non esset; cioè come se l’atto stesso non esistesse.
Ciò significa che il giudice, una volta accertata l’illegittimità del provvedimento, dovrà ricostruire il rapporto a prescindere dagli effetti da esso prodotti e giudicare come se questi non sussistessero.
Pare opportuno sottolineare che il giudice, disapplicando, priva l’atto di efficacia soltanto limitatamente al caso deciso, lasciando che lo stesso produca i suoi effetti al di fuori del giudizio.
Si rileva che anche l’istituto della disapplicazione è stato introdotto nel nostro ordinamento in ossequio al principio di separazione dei poteri dello Stato, al fine di evitare indebite interferenze del sindacato giurisdizionale nell’esercizio della funzione amministrativa.
Tuttavia, lo stesso si pone come una sorta di strumento compensativo volto a riequilibrare gli scarni poteri del g.o. verso la p.a.
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Fabio Toto
Ha conseguito la laurea magistrale in Giurisprudenza nel 2010, con la votazione di 105/110, presso l’Università Lumsa di Palermo, discutendo una tesi in materia di Diritto Commerciale.
Ottiene, nel 2012, il diploma di specializzazione per le professioni legali presso la Scuola di Specializzazione Lumsa di Palermo e parallelamente svolge il tirocinio presso gli Uffici Giudiziari del Palazzo di Giustizia di Palermo.
Per la preparazione teorica, ha frequentato corsi di formazione giuridica avanzata, tenuti da Consiglieri di Stato, approfondendo, in particolare, il diritto civile, penale ed amministrativo.
È iscritto all’albo del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Palermo dal 2016 (Tess. n. 224/16).
In qualità di autore ha scritto per riviste scientifiche ed è cultore di istituzioni di diritto pubblico presso l’università degli studi di Palermo.
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