Concorso esterno in associazione mafiosa: un abuso della giurisprudenza
Introduzione. Con varie sentenze, emesse in un decennio, la giurisprudenza ha creato una nuova fattispecie di reato, non disciplinata da nessuna legge di diritto sostanziale, definendo in maniera chiara e concisa i parametri essenziali di tale reato in maniera del tutto autonoma senza l’ausilio di una specifica fonte legislativa.
La critica che si muoverà, nell’articolo in oggetto, ha come obiettivo quello di sottolineare l’anomalia che tale evento ha rappresentato nel nostro ordinamento. Difatti, tale evento ha suscitato l’attenzione dei più importanti giuristi i quali hanno immediatamente espresso la propria preoccupazione sulle conseguenze di tale fenomeno che inevitabilmente comporta una totale crisi del nostro ordinamento, nel quale non è più rispettata la tripartizione dei poteri su cui si basa ogni Stato di diritto, ma vi è una sovrapposizione che si realizza con l’abuso da parte del potere giudiziario a discapito del potere legislativo.
Il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Con la sentenza Mannino del 2003, la giurisprudenza si è espressa definendo in maniera chiara quali sono i requisiti per la sussistenza di tale reato. Il soggetto ritenuto colpevole, è colui il quale pur non facendo parte dell’associazione è a disposizione della stessa, e fornisce un contributo consapevole per la realizzazione degli scopi criminosi dell’associazione mafiosa. Pertanto, si deduce che l’ “extraneus”, è un soggetto che è partecipe del sodalizio criminale, anche se non è parte, e volontariamente dà un ausilio che ha come fine quello di aiutare l’associazione nella realizzazione dei propri obiettivi criminogeni; pertanto, è ritenuto necessario per la sussistenza di tale reato, la volontarietà da parte del reo di contribuire al consolidarsi del sodalizio criminale, fornendo un contributo essenziale a quest’ultimo per la concretizzazione dei propri profitti economici e di potere.
Dunque, per la giurisprudenza non vi è nessuna rilevanza se l’individuo è un soggetto interno o esterno all’organizzazione criminale, ma ciò che è rilevante è la sua condotta, il fine e le modalità della condotta stessa.
Ovviamente, tale fattispecie criminale trova il suo appiglio nelle ipotesi di concorso previste dal nostro ordinamento, quali l’art. 110 c.p. e l’art. 416 bis c.p..
In particolare, la giurisprudenza ritiene che sebbene non vi sia un’appartenenza del soggetto al sodalizio criminale, egli è un coautore del reato compiuto dai soggetti facenti parte del clan criminale. Pertanto, egli verrà punito secondo il regime punitivo previsto dall’art. 110 c.p., quale concorrente, seppure esterno all’ associazione mafiosa.
Una fattispecie di natura giurisprudenziale. In considerazione, di quanto sopraesposto, possiamo affermare con certezza che, tale reato è un esempio emblematico di una patologia legislativa, che attraversa il nostro paese ormai da decenni. Difatti, spesso avviene che la fonte giurisprudenziale crei delle vere e proprie “norme”, sostituendosi di fatto al potere legislativo.
Ovviamente, tutto ciò costituisce una violazione dei nostri principi costituzionali, i quali hanno ben differenziato il potere legislativo da quello giudiziario, affidando il primo al Parlamento, che ha il compito di rappresentare la volontà popolare e di assumere quindi una funzione garantista nei confronti della cittadinanza, assicurando che le norme siano sempre espressione della volontà della comunità; il secondo è, invece, affidato ai magistrati che hanno il compito di far rispettare le leggi e di interpretarle. Pertanto, il potere giudiziario ha il compito di garantire la certezza del diritto e non di essere “creatore di norme”.
In conclusione, si deduce come il principio di legalità sia sottoposto a continue pressioni da parte degli altri poteri dello Stato; tale fenomeno sta provocando una grave crisi della democrazia e rischia di sovvertire l’ordine costituzionale dello Stato con grave indebolimento dell’organo parlamentare che costituisce, invece, il primo e il più importante organo a tutela della democrazia.
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Dott. Marco De Chiara
Laureato in Giurisprudenza presso l'Università Federico II di Napoli, nel 2019.
Praticante Avvocato Abilitato, presso lo studio civile-penale di Napoli, iscritto all'albo dei praticanti avvocati del Tribunale di Napoli dal 2020.
Diploma di Scuola di specializzazione per le professsioni legali.
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