Condanna per lite temeraria: l’art. 96 c.p.c. alla luce dei recenti interventi giurisprudenziali
Con la locuzione “lite temeraria” si fa riferimento al comportamento processuale tenuto da una parte caratterizzato dalla “mala fede ovvero colpa grave, consistenti nella consapevolezza dell’infondatezza della domanda e della tesi difensiva (cioè, abusando del diritto d’azione o per spirito di emulazione o per fini dilatori) ovvero nell’assenza dell’ordinaria diligenza nell’acquisizione di tale consapevolezza”.[1]
Tale comportamento, regolato dall’art. 96 c.p.c., configura una responsabilità aggravata, ossia una responsabilità che, andando oltre l’ordinaria responsabilità per soccombenza, si aggrava in quanto, essendo basata su un illecito, comporta l’obbligo di risarcire tutti i danni che conseguono dall’aver dovuto partecipare ad un processo evidentemente immotivato.
Infatti, l’art. 96 c.p.c. statuisce che:
“Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza.
Il giudice che accerta l’inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziale, o iscritta ipoteca giudiziale, oppure iniziata o compiuta l’esecuzione forzata, su istanza della parte danneggiata condanna al risarcimento dei danni l’attore o il creditore procedente, che ha agito senza la normale prudenza. La liquidazione dei danni è fatta a norma del comma precedente.
In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata.”
Dalla lettura del dispositivo, si evince chiaramente che la norma in esame ha ad oggetto la responsabilità della parte soccombente per i danni provocati dall’abuso dell’agire o resistere in giudizio.
Competente a decidere sulla domanda di risarcimento del danno è il giudice di merito della causa cui i danni stessi si riferiscono – danni che, se accertati, vengono liquidati (anche d’ufficio) nella sentenza che chiude il giudizio.
Il primo comma contempla le ipotesi di responsabilità aggravata per mala fede o colpa grave, mentre il secondo comma prevede l’ipotesi di responsabilità aggravata per colpa lieve, riguardando quest’ultima tutti i casi in cui il soccombente agisce in giudizio senza la normale prudenza. In entrambi i casi, però, tale responsabilità può essere riconosciuta solo se espressamente richiesta dalla parte danneggiata, parte su cui, peraltro, ricade l’onere della prova.
La parte istante, infatti, per poter ottenere il risarcimento del danno, deve provare l’illiceità del comportamento tenuto dal soccombente, nonché il danno subito.
A riguardo, infatti, la giurisprudenza di merito, di recente, ha ribadito che “… non è sufficiente che parte attrice abbia portato avanti tesi giuridiche che il giudice abbia ritenuto errate, ma è necessario che la controparte deduca e provi la consapevolezza dell’infondatezza ovvero il mancato utilizzo del minimo di diligenza ordinaria.” (v. C.A. Napoli, sez. VIII, 13/02/2020, n. 679; cfr. anche Tribunale Milano sez. III, 28/06/2019, n. 6387)
Ai fini della configurabilità della responsabilità processuale aggravata ex art. 96 c.p.c., co. 2, la Suprema Corte, con sentenza n. 26515/2017, ha precisato che “è necessario che siano accertate sia l’infondatezza della pretesa fatta valere in giudizio, sia la violazione del canone di normale prudenza nell’agire in giudizio, in relazione alla fattispecie concreta.”, specificando altresì che “Ai fini dell’affermazione di tale violazione, il giudice deve verificare, con valutazione ex ante, la consapevolezza dell’interessato della presumibile infondatezza della propria pretesa, dando rilievo, oltre che agli orientamenti giurisprudenziali esistenti al momento della proposizione della domanda, anche ad eventuali esiti alterni delle fasi di merito, e all’esito di eventuali istanze cautelari o volte alla sospensione dell’esecutività della sentenza. In caso di trascrizione della domanda giudiziale, deve accertare se la trascrizione sia stata effettuata fuori dai casi consentiti o imposti dalla legge, o se fosse consentita o obbligatoria, non potendosi considerare violazione dell’obbligo di agire con la normale prudenza l’esclusivo dato della avvenuta trascrizione della domanda giudiziale nel caso in cui essa sia imposta dalla legge allo scopo di rendere opponibile ai terzi l’esito positivo del giudizio.”
Per quanto attiene, invece, alla quantificazione del risarcimento, gli elementi che vengono in rilievo sono vari ed eterogenei, dovendo tener conto: – dell’intensità dell’elemento soggettivo; – della gravità dell’abuso; – dell’incidenza che questo ha avuto sulla durata del processo.
Con riguardo all’incidenza dell’abuso sulla durata del processo, è ormai granitico l’orientamento giurisprudenziale che equipara l’ipotesi de qua con la lesione derivante dall’irragionevole durata del processo. Infatti: “le condotte realizzate da una parte che integrino la responsabilità di cui all’art. 96 c.p.c., costringono l’altra parte a subire un processo ingiustificato e perciò qualificabile come eccessivo nella sua intera durata, con la conseguenza che il tipo di lesione verificata si presenta analoga a quella relativa alla irragionevole durata del processo. Il danno allora, pur mancando la piena prova circa la sua esistenza ed il suo ammontare, potrà essere considerato come conseguenza normale della violazione del diritto e quantificato in via equitativa sulla base dei medesimi criteri elaborati dalla Corte di Strasburgo per un processo irragionevolmente lungo” (tra le tante C.A. Firenze, sez. II, 21/07/14, n. 1286 e Sez. I, 03/03/06; Trib. Bari, sent. nn. 121/2018 e 1274/2008; Trib. Milano, sez. VIII, 22/03/06, n. 3662).
E ancora: “Qualora venga pronunciata condanna al risarcimento alla controparte i danni da lite temeraria ai sensi dell’art.96 c.p.c., tali danni, anche in difetto di specifiche allegazioni, ben possano individuarsi, sulla base della comune esperienza, nel pregiudizio subito dall’essersi dovuti occupare del giudizio, sottraendo tempo ed energie utili alle proprie occupazioni, e potranno essere liquidati in via equitativa o ai sensi della legge n. 89/2001, come da ultimo modificata dalla legge n. 208/2015, quindi liquidabili in € 400,00/€ 800,00 per ciascun anno o frazione di anno superiore a sei mesi eccedenti il termine di durata ragionevole del processo”. (v. Trib. Roma, sez. XI, 09/01/20, n. 471)
Proseguendo la lettura dell’art. 96 c.p.c., ai sensi del co. 3 il giudice, può anche condannare la parte soccombente al pagamento in favore della controparte di una somma equitativamente determinata.
Tale comma è stato aggiunto dall’art. 45, co.12, L. 69/2009, e costituisce uno strumento di deflazione del contenzioso volto ad evitare che la parte proponga domande giudiziali o resista in giudizio, con superficialità (ad es. per fini meramente dilatori).
La responsabilità aggravata ex art. 96, co. 3, svolge una funzione sanzionatoria, la quale ha comportato un’evoluzione della fattispecie dei cd. danni punitivi, che ha progressivamente fatto ingresso nel nostro ordinamento. Il carattere sanzionatorio di tale strumento deflativo è stato, altresì, evidenziato dalla giurisprudenza, la quale, ha rilevato che “L’art. 96, co. 3, c.p.c. ha una funzione (quanto meno) sanzionatoria di quelle condotte processuali temerarie che comportano un complessivo pregiudizio alla tempestiva definizione dei procedimenti seriamente instaurati e, in definitiva, un ingiustificato spreco di una risorsa sempre più limitata quale il giudizio civile.” (Trib. Milano, sez. III, 08/01/2020, n. 73 e Trib. Milano sez. III, 28/06/2019, n. 6387)
In tal caso, non è richiesta né una specifica istanza di parte, né tanto meno la prova del danno patito.
A tal proposito la giurisprudenza della Suprema Corte, con due pronunce molto recenti, ha ribadito che “La condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., applicabile d’ufficio in tutti i casi di soccombenza, configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96, commi 1 e 2, c.p.c., e con queste cumulabile, volta alla repressione dell’abuso dello strumento processuale; la sua applicazione, pertanto, richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro non dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di “abuso del processo”, quale l’avere agito o resistito pretestuosamente”. (Cass. civ., sez. lav., 15/02/21, n. 3830 e Cass. civ., sez. II, 30/10/20, n. 24125)
E ancora recentemente: “la condanna ai sensi dell’art. 96, comma 3, codice di rito è volta a salvaguardare finalità pubblicistiche, correlate all’esigenza di una sollecita ed efficace definizione dei giudizi, e a sanzionare la violazione dei doveri di lealtà e probità sanciti dall’art. 88 c.p.c. realizzata attraverso un abuso della potestas agendi. Al fine della condanna ai sensi dell’art. 96, comma 3, codice di rito non è necessario dimostrare il danno ma solo la consapevolezza della mala fede o della colpa grave.” (Cass. civ. sez. II, 03/09/19, n. 22042).
Per quanto attiene al profilo della liquidazione equitativa del danno subito, si ritiene che il Giudice deve fare riferimento a nozioni di comune esperienza, in quanto il pregiudizio subito di cui al co. 3 “non comporta una lesione della propria posizione materiale, bensì costituito dagli oneri di ogni genere che questa abbia dovuto affrontare per essere stata costretta a contrastare l’ingiustificata iniziativa dell’avversario e dai disagi affrontati per effetto di tale iniziativa, danni la cui esistenza può essere desunta dalla comune esperienza” (v. Cass. civ. n. 17485/2011; cfr. Cass. civ. nn. 20995/2011 e 3057/2009).[2]
Ad abundantiam, secondo quanto statuito anche dalla Corte di Appello di Roma, Sez. Lav., 22 febbraio 2019, n. 624:
“in tema di responsabilità aggravata per lite temeraria, l’art. 96 cod. proc. civ. prevede, nel caso di accoglimento della domanda, il risarcimento dei danni, da intendersi, quindi, come ampia formulazione letterale comprensiva sia del danno patrimoniale, che del danno non patrimoniale, quest’ultimo trovando giustificazione anche in ragione della qualificazione del diritto di azione e difesa in giudizio in termini di diritto fondamentale. Ne consegue che, sotto il profilo del danno patrimoniale, in assenza di dimostrazione di specifici e concreti pregiudizi derivati dallo svolgimento della lite, è legittima una liquidazione equitativa che abbia riguardo allo scarto tra le spese determinate dal giudice secondo le tariffe e quanto dovuto dal cliente in base al rapporto di mandato professionale; mentre, sotto il profilo del danno non patrimoniale, la liquidazione equitativa deve avere riguardo alla lesione dell’equilibrio psico -fisico che, secondo nozioni di comune esperienza.”
Dello stesso avviso è la giurisprudenza di merito maggioritaria, la quale, più specificamente, afferma che “la responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c. esige sul piano soggettivo, la mala fede o la colpa grave della parte soccombente, sussistente nell’ipotesi di violazione del grado minimo di diligenza che consente di avvertire facilmente l’infondatezza o l’inammissibilità della propria domanda, non essendo sufficiente la mera infondatezza, anche manifesta, delle tesi prospettate; peraltro, sia la mala fede che la colpa grave devono coinvolgere l’esercizio dell’azione processuale nel suo complesso, cosicché possa considerarsi meritevole di sanzione l’abuso dello strumento processuale in sé, anche a prescindere dal danno procurato alla controparte e da una sua richiesta, come nel caso di pretestuosità dell’azione per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, ovvero per la manifesta inconsistenza giuridica o la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione”. (v. Trib. Napoli, sez. II, 02/12/20, n. 8227; Trib. Roma, sent. 5/10/20, n. 13553)
[1] v. ex ultimis C.A. Napoli, sez. VIII, 13/02/2020, n. 679.
[2] La determinazione equitativa della somma dovuta dal soccombente alla controparte non può essere parametrata all’indennizzo di cui alla Legge n. 89 del 2001 (di natura risarcitoria e commisurato solo al ritardo della giustizia senza permettere di valutare il comportamento processuale del soccombente alla luce dei principi di lealtà e probità), ma, altresì, può essere calibrata su una frazione o un multiplo delle spese di lite con l’unico limite della ragionevolezza (v. Cass. Civ., Sez. III, 04 luglio 2019, n. 17902).
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Mariana Di Martino
Avvocato - Diritto civile
Laureata in Giurisprudenza - Università degli Studi di Napoli Federico II
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