Configurabilità della legittima difesa nei reati permanenti e abituali: analisi di sistema, ricognizione giurisprudenziale e orientamenti de iure condendo
Sommario: Premessa – 1. Inquadramento sistematico della legittima difesa nella teoria del reato – 2. Definizione e distinzione tra reati permanenti e reati abituali – 3. Ricognizione giurisprudenziale e stato dell’arte – 4. Scomposizione dell’analisi: i profili temporali della condotta e il rapporto con la legittima difesa – 5. Prospettive de iure condendo
Premessa
Il tema della protezione dalle condotte maltrattanti del coniuge, della donna vittima di violenza domestica, è stato ripetutamente oggetto di una notevolissima mole di produzione giurisprudenziale: da ultimo, il tema è stato rievocato dai giudici costituzionali nella sentenza n. 197/2023, con cui è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 577 co. 3 c.p. nella parte in cui sancisce il divieto per il giudice di merito di riconoscere la prevalenza delle attenuanti della provocazione e generiche nel giudizio di bilanciamento formulato ai sensi dell’art. 69 c.p.[1].
La giurisprudenza in materia di configurabilità della legittima difesa è granitica e univoca: poiché i requisiti posti dall’art. 52 c.p. sono da verificarsi puntualmente e simultaneamente, nel caso specifico di commissione del delitto di omicidio (art. 575 c.p.) ai danni coniuge maltrattante, in cui l’eziopatogenesi del reato coincida con la sottomissione del soggetto agente a condotte maltrattanti di notevole intensità e gravità, al di fuori di un preciso lasso temporale di concretizzazione della condotta maltrattante, l’imputato/a non può beneficiare della legittima difesa, se non quella putativa. Il presente articolo si ripropone di illustrare lo stato dell’arte, a seguito di una digressione sulla teoria del reato, per poi procedere con alcune suggestioni in chiave comparatistica delle scelte legislative di altri Paesi aventi ordinamenti di stampo liberale.
1. Inquadramento sistematico della legittima difesa nella teoria del reato
L’art. 52, co. 1, c.p. stabilisce: “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”.
Dal punto di vista sistematico, il legislatore storico ha collocato la legittima difesa nel Libro I, Titolo III, Capo I, in materia di reato consumato e tentato. Tale scelta suggerisce lo strettissimo legame che l’accertamento della sussistenza della scriminante presenta in rapporto alla possibilità di definire il fatto commesso (scriminato) come fatto costituente reato, o meno. La stessa problematica teorica si pone nei confronti, infatti, del reato impossibile (49 c.p.) e del delitto tentato (56 c.p.).
La legittima difesa, la cui collocazione nella teoria generale del reato è ampiamente dibattuta, si colloca nella fase equivalente – secondo parte della dottrina – all’imputatio iuris. A seguito delle operazioni di sussunzione del fatto storico nel fatto descritto dalla norma incriminatrice, mediante la duplice verifica dell’imputabilità del fatto alla condotta umana sul piano delle concatenazioni causali, disciplinate dalle regole della causalità penale (artt. 40 e 41 c.p.) e della verifica dell’imputazione soggettiva del fatto (ossia dell’ascrivibilità del fatto alla sfera psichica del soggetto agente, secondo gli elementi soggettivi del reato approntati dall’art. 43 c.p.), la fase denominata dell’imputatio facti è conclusa: il suo esito è la validazione della derivazione – sul piano della naturalità degli eventi – del fatto di reato dalla condotta, psichicamente determinata, ascrivibile ad un determinato soggetto agente. Il fatto pertanto, in tal momento, è causalmente determinato da una determinata stringa degli eventi (generatasi dalla condotta) dotata di idonea efficienza causativa dell’evento, quindi del fatto ai sensi degli artt. 41 e 42 c.p., ed è sorretto da una determinazione psichica ai sensi dell’art. 43 c.p.
La fase che l’interprete deve ora affrontare – in cui si colloca il giudizio di verifica dell’esistenza di fattori idonei ad escludere non la derivazione dell’evento dalla condotta, sul piano oggettivo e soggettivo, ma la concreta opportunità punitiva – corrisponde alla fase dell’imputazione di diritto.
Il fatto di reato, in tale momento, è già sufficientemente determinato sul piano della materialità delle modificazioni naturali: compito dell’interprete è quello di verificare l’assenza di elementi ulteriori – poiché derivanti da scelte squisitamente normative che nessun ancoraggio presentano con le leggi della causalità naturale – che consentano di ritenere il fatto, già ascrivibile all’imputato, punibile secondo i canoni probatori disciplinati dalla regola BARD (art. 533, co. 1, c.p.p.).
La legittima difesa deriva difatti da tale considerazione: il fatto in sé materialmente è esistito, in quanto è stato causato da una determinata condotta (giudizio causale ex artt. 40-41 c.p.) ed è imputabile soggettivamente ad un determinato soggetto agente, responsabile della condotta.
La valutazione che il legislatore appronta in tale fase è, come già accennato, squisitamente normativa. Si ponga un esempio pratico.
A uccide B. Alla stregua delle regole dell’imputazione del fatto, non permangono zone d’ombra, in quanto:
– la condotta di A è idonea ai sensi dell’art. 575 c.p. nel cagionare la morte di B, in base al ricorso alla corretta legge di copertura che spieghi il link causale tra la condotta (a forma libera nel reato di cui all’art. 575 cp) e l’evento (il decesso della vittima).
– la condotta di A è ascrivibile psichicamente ad una determinazione volitiva dello stesso A, secondo i modelli di azione del dolo (art. 43, co. 1, cp), della colpa (art. 43, co.3, cp) ovvero della preterintenzione[2].
Il fatto pertanto esiste ed è conforme al fatto descritto dalla norma incriminatrice: sul piano della materialità degli accadimenti, ferme restando le necessarie risultanze probatorie a conforto del quadro di accusa sul piano eminentemente processuale (nella misura in cui l’insufficienza e/o la contraddittorietà di prove sono di per sé idonee nel determinare il giudice verso un esito assolutorio[3]), il fatto è d’interesse dell’ordinamento penale costituendo un fatto di reato.
Il legislatore, mediante l’introduzione della disciplina delle scriminanti e, più in generale, delle cause di esclusione della pena, intende invece permettere al giudice di formulare determinate valutazioni sull’opportunità della persecuzione del fatto mediante l’adozione di un provvedimento di condanna e conseguente applicazione del relativo trattamento sanzionatorio, anche in relazione alle ricadute in fase esecutiva attinenti alla esigenza di personalizzazione della pena.
La valutazione sulla configurabilità della legittima difesa appartiene a tale campo: il legislatore, per il tramite dell’art. 52 c.p., ci dice che il fatto (si consideri, di omicidio) materialmente è esistito ed è addebitabile psichicamente all’imputato, ma a determinate condizioni quello stesso fatto non è meritevole di applicazione della sanzione penale per le particolari dinamiche di sviluppo della stringa degli avvenimenti. Sul piano tecnico degli operatori del diritto, il fatto non costituisce reato in quanto non è da considerarsi come fatto antigiuridico: ossia, come fatto che – seppur astrattamente idoneo ad essere sussunto nel fatto generale previsto dalla norma incriminatrice – non è meritevole di punizione nel caso di specie.
Nel caso di specie, la legittima difesa è riassumibile nel brocardo, derivante dagli insegnamenti del Digesto giustianianeo, vim vi repellere licet: è lecito respingere la violenza con la violenza. È lecito respingere la violenza con la violenza: in tale passaggio può cogliersi la transizione dalle regole della causalità dei fatti naturali (imputatio facti) alle regole squisitamente normative che presiedono alle valutazioni circa l’opportunità della punizione (imputatio iuris).
Il giudizio approntato dall’art. 52 c.p. è incentrato massimamente sulla verifica dell’elemento di proporzionalità della condotta difensiva[4]: ciò in quanto l’ordinamento autorizza la commissione dell’azione (astrattamente criminosa) in legittima difesa, ma soltanto a patto che i mezzi impiegati risultino necessari nel ricorso (necessità difensiva), il pericolo sia inevitabile (“attuale”), l’offesa sia ingiusta e l’impiego della condotta difensiva sia del tutto minimizzato negli effetti rispetto al fine da perseguire. Altrimenti, si apre il sentiero per il riconoscimento dell’eccesso colposo in legittima difesa (art. 55 c.p.), al quale il legislatore dedica apposita norma di disciplina, al contrario dell’eccesso “doloso” che a tutti gli effetti perde ogni collegamento funzionale con la scriminante invocata, transitando a sua volta nell’ambito della norma incriminatrice applicabile.
Per quanto occorre nella presente disamina, gli elementi da prendere in considerazione risultano quelli dell’attualità del pericolo e della proporzionalità della reazione difensiva, in quanto di maggior rilievo nella verifica sulla configurabilità della legittima difesa nelle ipotesi di reati permanenti e di reati abituali.
2. Definizione e distinzione tra reati permanenti e reati abituali
I reati permanenti ed i reati abituali appartengono alla categoria dei reati non a consumazione istantanea: è individuabile, in entrambi i casi, un apprezzabile intervallo temporale in cui emergono le condotte antigiuridiche. È la perduranza dell’offesa che determina l’inquadramento della/e sequenza/e condotta/e-evento/i nella categoria dei reati di durata.
Si pensi al reato di sequestro di persona (art. 605 c.p.) come reato permanente: lungo il filo temporale degli eventi, la condotta causativa dell’evento di sequestro ha inizio in un determinato momento x1 e si protrae senza soluzione di continuità sino al momento x2, dove x1 è diverso da x2 (altrimenti si ricadrebbe nei reati ad esecuzione istantanea, che parte della dottrina fa coincidere con i reati cd. di sola condotta). È in tale lasso temporale – e nella sua perduranza – che può cogliersi l’apprezzabile intervento legislativo di esercizio del potere punitivo.
Si può rappresentare graficamente la struttura del reato permanente nel seguente modo, tenendo a mente che tra il momento x1 e il momento x2 non vi è desistenza dalla condotta criminosa. Che, difatti, “permane”:
—-|—-|—|— x1 __________________________ x2 —|—|—|—
Diverso è il caso dei reati abituali. Tale categoria, a differenza della precedente, non trova un esplicito riconoscimento di diritto positivo: tant’è che gli unici passaggi in cui il legislatore tratta dell’elemento della “abitualità” è con riferimento alla personalità del reo, mai del fatto (art. 103 c.p.). Nell’ambito di tale categoria la dottrina individua due sottogruppi, corrispondenti ai reati abituali propri (in cui i singoli atti unificati dal vincolo della reiterazione risultano generalmente inoffensivi se singolarmente considerati) e i reati abituali impropri (per i quali, al contrario, i singoli atti risultano già possedere autonoma rilevanza penale).
L’abitualità della condotta è ripetizione periodica della medesima: pertanto in tal caso esiste un lasso temporale apprezzabile, in cui però la condotta non è unica e non permane, ma si frammenta in tante sub-condotte reiterate ad intervalli più o meno determinati, le quali non integrano autonomamente ipotesi di fattispecie delittuose ma ricadono nell’unico fatto previsto dalla norma incriminatrice. Esempio classico è il reato di maltrattamenti in famiglia (572 c.p.).
Si può rappresentare graficamente la struttura del reato abituale nel seguente modo, tenendo a mente che vi è soluzione di continuità tra le singole condotte poste in essere nei momenti xn:
—|—|—|—| x1 —-/—- x2 —-/—- x3 —-/—- x4 —-/—- xn |—|—|—|—
Le condotte xn risultano tutte condotte maltrattanti: ma tra l’una e l’altra la condotta non dispiega ulteriori effetti, se non valutabili dal punto di vista psicologico della determinazione della vittima nell’agire in (supposta) legittima difesa cd. “putativa”.
Fissata la distinzione tra reati permanenti e abituali, può procedersi oltre.
3. Ricognizione giurisprudenziale e stato dell’arte
La configurabilità della scriminante di cui all’art. 52 c.p. in caso di omicidio del coniuge indotto da condotte maltrattanti nel medesimo rapporto coniugale ha dato luogo ad un corpus di produzione giurisprudenziale di notevolissima mole e caratterizzato dall’univocità di vedute.
Il presupposto è il seguente: nel caso di reati caratterizzati dall’abitualità della condotta (quindi, della sua reiterazione con soluzione di continuità a livello di causalità materiale), i presupposti applicativi della legittima difesa di cui all’art. 52 co. 1 c.p. risultano del tutto stringenti, posta la necessità di verificare rigorosamente gli elementi dell’attualità del pericolo e della proporzionalità dell’azione difensiva.
L’elemento dell’attualità del pericolo risulta maggiormente posto in evidenza nella produzione giurisprudenziale: i giudici (con particolare riferimento, per ragioni nomofilattiche, ai giudici di legittimità) perentoriamente escludono la configurabilità della legittima difesa qualora l’azione difensiva non si ponga in rapporto temporale di quasi-contestualità con l’azione di aggressione. Caso tipico è quello della moglie che, quotidianamente vessata da gravi condotte maltrattanti da parte del coniuge, si risolva a commettere ai suoi danni un omicidio mentre la vittima dorme, per interrompere definitivamente la catena degli eventi maltrattanti.
Di minor rilievo nel tema in esame dal punto di vista squisitamente qualitativo, ma oggetto anch’esso di copiosissime pronunce, è il giudizio di proporzionalità dell’azione difensiva. L’art. 52 c.p. risolve positivamente il riconoscimento dell’aver agito in legittima difesa – tra gli altri elementi – a patto che l’azione difensiva sia proporzionata all’aggressione subita. La giurisprudenza adotta per il giudizio di proporzionalità una visione sufficientemente flessibile, consapevole dell’insegnamento di derivazione romanistica adgreditus non habet staderam in manu, ritenendo che non debba necessariamente verificarsi l’esatta proporzionalità tra azione di aggressione e (contro)azione difensiva, in quanto talvolta è di difficile valutazione tale preciso equilibrio nel rapporto di bilanciamento tra i beni in gioco. Una imprescindibile chiarificazione rinviene dalla disciplina dell’eccesso colposo in legittima difesa, di cui all’art. 55 c.p.: “Quando, nel commettere taluno dei fatti preveduti dagli articoli 51, 52, 53 e 54, si eccedono colposamente i limiti stabiliti dalla legge […] si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”. La valutazione di proporzionalità di azione e reazione va incontro ad un ragionevole irrigidimento nel caso in cui la vittima dell’aggressione agisca in maniera non proporzionata, ma colposamente, a causa di “[…] un’erronea valutazione del pericolo e dell’adeguatezza dei mezzi utilizzati” (Cass. Pen., n. 538/1995). “Mentre, si fuoriesce dall’eccesso colposo tutte le volte in cui i limiti imposti dalla necessità della difesa vengano superati in conseguenza della scelta deliberata di una condotta reattiva, la quale comporta il superamento, cosciente e volontario, dei suddetti limiti, trasfigurandosi in uno strumento di aggressione” (Cass. Pen., sentenza n. 45407/2004).
L’architettura generale appare del tutto adattabile alla struttura del reato abituale:
– per verificarsi con esito positivo l’elemento di attualità del pericolo, è necessario che la condotta difensiva si inscriva nei frammenti temporali in cui gli atti caratterizzati da reiterazione si materializzano (ossia, è tangibile la loro esteriorizzazione nel mondo dei fatti). In caso contrario pertanto, salvo diverse posteriori risultanze processuali, è da escludersi che il soggetto agente abbia agito in legittima difesa (se non putativa) ponendo in essere l’azione difensiva.
– restano ferme le valutazioni relative al commodus discessus (non inevitabilità dell’azione difensiva, collegato all’elemento della necessità di agire), all’ingiustizia dell’offesa (che è generalmente definibile già verificata quando l’aggressione integra gli estremi di una fattispecie criminosa) e della proporzionalità secondo le direttrici analizzate.
Nell’elaborazione del giudizio di configurabilità, controversa è la modalità di valutazione della scelta del soggetto che pone in essere l’azione difensiva: in particolare, se questa debba valutarsi ex ante (con riferimento alle circostanze presenti per il soggetto agente sino alla commissione dell’azione difensiva) o ex post (quindi seguendo il modello della valutazione globale delle circostanze). La Cassazione fornisce alcuni chiarimenti: “L’accertamento relativo alla scriminante della legittima difesa reale o putativa e dell’eccesso colposo deve essere effettuato con un giudizio ex ante calato all’interno delle specifiche e peculiari circostanze concrete che connotano la fattispecie da esaminare, secondo una valutazione di carattere relativo e non assoluto ed astratto, rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito, cui spetta esaminare, oltre che le modalità del singolo episodio in sé considerato, anche tutti gli elementi fattuali antecedenti all’azione che possano aver avuto concreta incidenza sull’insorgenza dell’erroneo convincimento di dover difendere sé o altri da un’ingiusta aggressione.” (Cass. Pen., Sez. IV, sentenza n. 24084/2018). La predilezione per un’analisi ex ante degli elementi fondativi dell’azione difensiva ai sensi dell’art. 52 c.p. potrebbe sembrare, prima facie, fallace in tutti i casi in cui l’imputato/a ritenga altamente probabile e temporalmente prossima un’azione aggressiva da parte della vittima (originario aggressore). Il rischio che si corre e che potrebbe condurre in tal senso a decostruire il sistema valutativo in ambito processuale, è quello di depotenziare i presupposti della legittima difesa da effettivi ad elastici o, peggio, figurativi. Ed effettivamente, il rischio esiste: ma ciò che argina tale deriva è l’esistenza della disciplina della legittima difesa putativa ai sensi dell’art. 59, co. 4, c.p., nonché dell’eccesso colposo (e, non codificato per comprensibili ragioni) e doloso in legittima difesa.
Ricorre la legittima difesa putativa ai sensi dell’art. 59, co. 4, c.p. ogniqualvolta il soggetto agente pone in essere la condotta difensiva nell’erronea convinzione di agire in presenza di una scriminante, salvo che valutazione derivi da colpa e il fatto sia previsto come delitto colposo: “Se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui. Tuttavia, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”. La conseguenza dell’erronea, ma non colposa, valutazione circa la sussistenza di una scriminante (ricompresa nella più ampia categoria delle circostanze escludenti la pena), è la mitigazione del trattamento sanzionatorio.
4. Scomposizione dell’analisi: i profili temporali della condotta e il rapporto con la legittima difesa
Elementi di interesse analizzati in precedenza e utili, nella disamina del problema della configurabilità della legittima difesa nelle condotte maltrattanti commesse in ambito familiare, sono la proporzionalità offesa-difesa e l’attualità del pericolo.
Con riferimento alla proporzionalità tra offesa e difesa, la condotta difensiva della moglie nel confronti del coniuge deve essere necessariamente giudicata come proporzionale in rapporto alla gravità dell’offesa subita. È pacifico in giurisprudenza, difatti, che l’offesa a beni di notevole rilievo ordinamentale (come l’integrità fisica e l’autodeterminazione sessuale) inducano provvisoriamente a ritenere, salve verifiche processuali contrarie, verificato il bilanciamento tra i beni in conflitto.
Particolare è invece l’atteggiarsi dell’elemento dell’attualità del pericolo. Le condotte vessatorie poste in essere da un coniuge nei confronti dell’altro possono assumere varie forme: a tali forme possono corrispondere diverse fattispecie criminose. Dalla verificabilità del fatto può discenderne che le condotte generalmente definibili come maltrattanti non sempre sono inscrivibili nel meccanismo di funzionamento del reato abituale, che come già detto si caratterizza per il ricorrere a periodicità variabile di condotte vessatorie. Se, infatti, le condotte del coniuge maltrattante integrano fattispecie permanenti di reato, la strada per il riconoscimento della legittima difesa presenta maglie indubbiamente più larghe, verificati contestualmente gli altri presupposti previsti dalla norma.
Ed infatti: “L’attualità del pericolo richiesta per la configurabilità della scriminante della legittima difesa implica un effettivo, preciso contegno del soggetto antagonista, prodromico di una determinata offesa ingiusta, la quale si prospetti come concreta e imminente, così da rendere necessaria l’immediata reazione difensiva, sicché resta estranea all’area di applicazione della scriminante ogni ipotesi di difesa preventiva o anticipata. (Cass. Pen., Sez. I, n. 48291/2018)”.
A rigore, secondo un ragionamento confermato dal diritto positivo, porre in essere l’azione difensiva – seppur eventualmente proporzionata – in un lasso temporale costituente la soluzione di continuità tra una condotta e la successiva, nel quadro dell’abitualità delle più condotte integranti un’unica fattispecie, conduce ad escludere il riconoscimento della legittima difesa e pertanto, sul piano delle ricadute processuali, l’assoluzione dell’imputato.
In sintesi, può quindi procedersi ritenendo che non agisca in legittima difesa ai sensi dell’art. 52 c.p. la moglie che, non verificato l’elemento di attualità del pericolo nel caso di reato abituale commesso ai suoi danni dal coniuge, produca nei confronti di questi un’offesa, senza che sia necessario in tal caso verificare la proporzionalità dei beni in conflitto. Ciò in quanto non ricorre l’attualità dell’offesa e, per altra via, risultano ipoteticamente verificabili altre modalità, meno offensive, di separazione dalla condotta offensiva posta in essere dal coniuge (il cd. commodus discessus). Ricordano infatti i giudici di merito (Corte di Assise di Torino, ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale del 4 e del 10 maggio 2023 nell’ambito del giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 577, terzo comma, c.p.): “[…] la rappresentazione, meramente congetturale e astratta, della generica possibilità (nel futuro) della perpetrazione di atti di violenza da parte della vittima […], non integra la ipotesi, contemplata dall’art. 52 c.p., del pericolo effettivo, concreto, attuale e specifico di veruna offesa, né dà adito alcuno alla supposizione erronea del ridetto pericolo, sì da comportare la necessità della difesa”.
5. Prospettive de iure condendo
Il sistema di diritto positivo in campo penale, costruito sul principio di legalità formale negli ordinamenti liberali, non lascia particoli margini di manovra: nei reati abituali non vi è spazio per il riconoscimento dell’aver agito in legittima difesa nel momento in cui l’azione difensiva si pone al di fuori dei lassi temporali caratterizzati dall’aggressione abitualmente ripetuta dal soggetto agente – ferma la riconoscibilità a seconda dei casi dell’attenuante della provocazione e della sussistenza della legittima difesa putativa.
I casi di cronaca delle donne condannate per omicidio doloso ai danni del coniuge hanno avuto, però, vasto eco negli ordinamenti liberali, tanto da ingenerare in alcuni legislatori statali l’intento di elaborare soluzioni innovative per contrastare il fenomeno, consapevoli della divaricazione prettamente temporale che intercorre tra condotte di aggressione e stato di violenza, in cui spesso incorre la donna nell’ambito di disfunzionali rapporti coniugali, improntati ad una apprezzabile asimmetricità dei poteri per motivazioni ora culturali, morali od economiche.
Il rischio a cui ci si espone derogando visibilmente ai rigidi presupposti della legittima difesa è di facile intuizione: oltre all’errore applicativo in punto di diritto, gli imputati potrebbero difatti travisare i fatti volontariamente e denunciare la sussistenza di un quadro di violenze in realtà privo di concreti riscontri probatori o dai riscontri probatori insufficienti.
Il primo legislatore ad occuparsi della problematica, contemperando l’interesse dell’ordinamento giuridico a non scardinare i presupposti della scriminante applicabile e l’interesse della donna ad una ulteriore, necessaria protezione da parte dello stesso ordinamento, è stato il legislatore francese con la Proposition de loi n. 2234, durante la XV Legislatura repubblicana, visant à instaurer une présomption de légitime défense pour violences conjugales. La proposta di legge, depositata in prima firma dalla parlamentare de Les Republicains Marine Brenier, mirava all’introduzione di un terzo comma all’art. 122-6 del codice penale francese, che prevedesse: “Pour se défendre contre son conjoint ou ex conjoint d’un acte d’agression, dans un contexte de violences répétées ayant engendré un syndrome de stress post traumatique établi par voie d’expertise”. L’obiettivo era quindi quello di introdurre una presunzione di legittima difesa a favore della donna vittima di un “contesto di ripetute violenze” produttivo di una sindrome da stress post traumatico, accertata per via peritale, che determinasse – accanto ad altre due preesistenti ipotesi di presunzione della scriminante – una inversione dell’onere probatorio a carico dell’accusato. La proposta di legge ad oggi non ha condotto ad una novella della norma interessata: pertanto il dibattito risulta ancora aperto.
A diverso approdo è giunto invece il legislatore canadese, il quale all’art. 34 del codice penale ha stabilito che non è responsabile del reato chi: crede, per motivazioni ragionevoli, che la forza sia impiegata contro di lui o un’altra persona, o che si minacci di impiegarla contro di lui o un’altra persona; commette l’atto che costituisce infrazione con l’obiettivo di difendersi o proteggersi – o di difendere o proteggere un’altra persona – contro l’impiego o la minaccia di una violenza; si comporta in modo ragionevole nelle circostanze.[5]
Il successivo art. 34.2 conferisce rilievo a determinati elementi indici di una ragionevolezza delle circostanze, ai sensi della lett. c) dell’art. 34, co. 1, includendovi al punto e) il genere (del soggetto che pone in essere l’azione difensiva) e al punto f.1) “qualsiasi storia di interazione o comunicazione tra le parti […]”. La scelta del legislatore canadese pertanto non è giunta sino a prevede una presunzione di legittima difesa: ma attraverso la definizione di parametri normativi che possano guidare il giudice nella formulazione del giudizio di ragionevolezza delle circostanze ai sensi dell’art. 34, co. 1, lett. c), ha inteso flessibilizzare il riconoscimento delle cause di esclusione della pena (tra cui ricorre la legittima difesa come causa di giustificazione dell’azione) nei rapporti coniugali.
Il giudizio di ragionevolezza della circostanze sembra presentare dei punti di contatto con il giudizio di proporzionalità previsto dall’art. 52 del codice penale italiano: ma il suo campo applicativo è decisamente più ampio, posto che il giudizio di proporzionalità è su base meramente oggettiva e finalizzato a verificare (non tanto) l’esatta proporzionalità tra offesa e difesa, quanto la non eccessiva disproporzionalità tre le due, al ricorrere contestuale degli altri elementi (con particolare attenzione al giudizio di attualità del pericolo produttivo della risposta difensiva).
Nell’ordinamento giuridico italiano, come è sufficientemente emerso nel corso del presente lavoro, non vi è spazio per il riconoscimento della legittima difesa alla moglie che commetta il delitto di omicidio doloso (575 c.p.) contro il marito accusato di un reato abituale ai suoi danni, al di fuori dei momenti di estrinsecazione della condotta da parte dell’aggressore: e, più in generale, tale riflessione – dal punto di vista squisitamente politico, dato che sul piano giuridico la questione non sembra essere controversa in punto di applicazione della norma – non è stata adeguatamente sollevata nei confronti dei reati caratterizzati dall’elemento dell’abitualità.
Le difficoltà che si incontrano sono notevoli (anche se, a giudizio di chi scrive, non inadeguate ad essere collocate sul tavolo del dibattito parlamentare – oltre che pubblico, a causa dell’urgenza nel dilagare, a livello sociale, dei rapporti affettivi altamente disfunzionali): il rischio di produrre un eccesso incontrollabile di tutela (nella misura in cui l’autotutela privata è del tutto eccezionale nel diritto penale) che venga strumentalizzato in un surplus di protezione giuridica potenzialmente produttiva di distorsioni sulla coerenza del sistema giuridico; il rischio stesso di indebolimento dell’unità degli istituti (dove però è da osservarsi che una prima mano di scalpello è stata già inferta dall’introduzione della legittima difesa domiciliare, nella forma della presunzione di proporzionalità dell’azione difensiva). Ancora: adeguate garanzie normative, nella categoria generale dei reati abituali, di corretta applicazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione, con una particolare riflessione sui reati di violenza sessuale.
Tanto anche al fine di porre nell’ombra l’idea falsamente illuminante – ad oggi largamente rievocata – per cui l’unico strumento di prevenzione sarebbe l’aggravamento delle sanzioni penali, nella forma dell’inasprimento della cornice edittale.
Sono i rapporti coniugali (più in generale, affettivi) altamente disfunzionali ad insegnare all’ordinamento giuridico che l’esercizio del potere repressivo è (sempre) necessario, ma residuale nella protezione della vittima: poiché interviene lì dove la violazione bruta dell’integrità fisica-mentale e dell’autodeterminazione sessuale si sono già ampiamente consumate – nel caso in cui si condivida l’attribuzione al diritto penale di funzioni di prevenzione del reato. Anticipare la possibilità di porre un freno a tali condotte da chiunque provenienti, con un adeguato controllo giudiziario ex post che metta al ripari dagli abusi derivanti dalle falle di sistema, potrebbe costituire a giudizio di chi scrive un utile spunto di riflessione, unitamente alla riflessione di rilievo antropologico su tali fenomeni, sui rapporti intersoggettivi in una società che per la concatenazione di svariati fattori di rischio procede, talvolta, verso una pericolosa brutalizzazione: nel caso in esame, avente ad oggetto i rapporti intersoggettivi. Brutalizzazione che, si ponga l’attenzione, non può mai sfociare in forme di cannibalizzazione del diritto penale, nelle sue massime espressioni della coerenza di sistema e del garantismo.
I parametri di ricerca, che la presente disamina può solo pretendere di lambire, pertanto sarebbero: prospettive di anticipazione della tutela (necessariamente anche in sede extra penale, previa adeguato approfondimento delle dinamiche connesse all’esercizio del potere sui corpi altrui, anche dal punto di vista psicologico, con particolare riferimenti agli effetti della dis-educazione, di stampo generalmente patriarcale, retrostante i fenomeni di maltrattamento), bilanciamento con verifica in sede giudiziaria ex post dei fatti, estensione delle garanzie ad ogni rapporto definibile come “a rischio” di violenza, attenzione permanente per la conservazione della coerenza del sistema giuridico.
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[1] La recentissima pronuncia della Consulta (sentenza n. 197 del 30 ottobre 2023) trae origine da tre ordinanze di rimessione (Corte d’assise di Cagliari e Corte d’assise di appello di Torino) che censurano il profilo del divieto di prevalenza della sola attenuante della provocazione sull’aggravante della qualità di coniuge della vittima (art. 577, co. 1, n. 1 c.p.), ovvero del divieto di prevalenza della provocazione e delle attenuanti generiche.
[2] Ferma restando la configurabilità di ulteriori imputazioni, rispetto alla tripartizione posta dall’art. 43 c.p.: è il caso, a titolo esemplificativo dell’art. 586 (morte o lesioni come conseguenza di altro delitto), del reato aberrante (artt. 82 e 83 c.p.).
[3] Tale circostanza pone il tema interessantissimo della divaricazione tra realtà e giudizio penale e chiama in causa tutte le regole che chiamano a supplire a tale distanza.
[4] “La proporzione tra difesa e offesa si ha quando il male inflitto all’aggressore è inferiore, eguale o tollerabilmente superiore, al male da lui minacciato. […] Come si evince dallo stesso art. 52, il raffronto va fatto, innanzitutto, tra le offese: tra l’offesa minacciata e l’offesa arrecata. Quando si tratta di beni omogenei (vita contro vita, integrità fisica contro integrità fisica, patrimonio contro patrimonio) basta constatare la identità e raffrontare il diverso grado delle due offese. Allorché si tratti di beni eterogenei (vita contro integrità fisica, libertà sessuale, patrimonio, ecc.) bisogna ricorre innanzitutto al bilanciamento degli interessi, non sempre agevole, e poi considerare il rispetto grado di offesa. Mentre in un ordinamento fondato sulla legalità sostanziale la proporzione va stabilita sulla base di valutazioni extra legislative, in un ordinamento, qual è il nostro, fondato sulla legalità formale, va determinata sulla base della gerarchia di valori espressa dallo stesso ordinamento. […] Sicché, ad es., il bene della vita o della integrità fisica può soccombere di fronte alla libertà sessuale, per cui è scriminata la ragazza che uccide il bruto. Non è viceversa legittimo uccidere né inferire una grave lesione personale per difendere un mero bene patrimoniale […]” Così MANTOVANI F., Diritto penale, pagg. 255 – 256. Tale ultima affermazione pone il problema, estraneo alla materia trattata con il presente lavoro ma oggetto di ricchissimo dibattito in dottrina e giurisprudenza, della compatibilità con l’art. 52 co. 1 c.p. della legittima difesa cd. “domiciliare”, introdotta dalle novelle apportate all’art. 52 c.p. dalla Legge n. 36/2019.
[5] 34 (1) A person is not guilty of an offence if: (a) they believe on reasonable grounds that force is being used against them or another person or that a threat of force is being made against them or another person; (b) the act that constitutes the offence is committed for the purpose of defending or protecting themselves or the other person from that use or threat of force; and (c) the act committed is reasonable in the circumstances.
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