Congedi parentali e legittimità del licenziamento alla luce della sentenza della Cassazione n. 509/2018

Congedi parentali e legittimità del licenziamento alla luce della sentenza della Cassazione n. 509/2018

In tema previdenziale ed assistenziale un ruolo molto importante è stato svolto dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale, la quale ha sempre avuto la lungimiranza di anticipare quanto successivamente veniva fatto oggetto di intervento da parte del legislatore.

Un esempio è la L. n. 53/2000 che, per dettare “Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città“, è stata emanata sulla scorta di una serie di pronunce della Corte Costituzionale (cfr. sentt. nn. 1/1987 e 179/1993), le quali avevano affermato che le tutele previdenziali ed assistenziali connesse alla protezione sociale della famiglia andassero riferite anche alla paternità, al fine di garantire la paritetica partecipazione dei coniugi alla cura dei figli. E l’art. 1, lett. a), della suddetta legge ha precisato che tra le sue finalità vi è proprio quella di promuovere “un equilibrio tra tempi di lavoro, di cura, di formazione e di relazione, mediante: a) l’istituzione dei congedi dei genitori e l’estensione del sostegno ai genitori di soggetti portatori di handicap“.

In accordo alla suddetta delega, è stato emesso il D. Lgs. n. 151/2001, il cui art. 32 prevede il diritto al congedo parentale, da intendersi quale periodo di astensione facoltativo dal lavoro, a cui il genitore-lavoratore può accedere allo scopo di prendersi cura del proprio bambino – fino al compimento del suo dodicesimo anno di vita – e soddisfare i suoi bisogni affettivi e relazionali.

Il congedo parentale non può complessivamente eccedere il limite di dieci mesi (elevato a undici qualora il padre lavoratore eserciti il diritto di astenersi dal lavoro per un periodo continuativo o frazionato non inferiore a tre mesi) e compete sia alla madre lavoratrice – trascorso il periodo di congedo di maternità, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi – sia al padre lavoratore – dalla nascita del figlio, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi, elevabile fino a sette nel caso di cui al comma 2 dello stesso art. 32 citato -. Qualora vi sia un solo genitore, può essere goduto per un periodo continuativo o frazionato non superiore a dieci mesi. Il congedo spetta al genitore richiedente anche nel caso in cui l’altro genitore non ne abbia diritto. Successivamente, con la L. n. 228/2012 è stata disposta la possibilità di frazionare a ore il congedo parentale.

Alla contrattazione collettiva di settore è stato affidato il compito di individuare non solo i criteri di calcolo della base oraria e dell’equiparazione di un certo numero di ore ad una giornata lavorativa ma anche le concrete modalità di fruizione in generale del congedo, prestando specifica attenzione alle peculiarità proprie del comparto sicurezza e difesa, del comparto dei vigili del fuoco e del soccorso pubblico, per i quali bisogna in ogni caso garantire l’espletamento dei servizi istituzionali.

Il genitore che usufruisce del congedo parentale ha diritto:

  • fino ai sei anni di età del bambino, ad una indennità pari al 30% della retribuzione media giornaliera (parametrata alla retribuzione del mese precedente l’inizio del congedo) e per un periodo massimo di sei mesi;

  • dai sei agli otto anni di vita del bambino, ad una indennità pari al 30% della retribuzione media giornaliera se il reddito individuale del genitore richiedente è inferiore a 2,5 volte l’importo annuo del trattamento minimo di pensione ed entrambi i genitori non ne abbiano fruito nei primi sei anni;

  • dagli otto ai dodici anni di età, a nessuna indennità.

Fatta questa premessa sulla disciplina in tema di congedo parentale, molto interessante la pronuncia della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, che con la sentenza n. 509/2018 ha affermato sul punto dei principi molto importanti connessi anche alla normativa sul licenziamento.

Il caso di specie riguarda un lavoratore che ha impugnato la sentenza della Corte di Appello di L’Aquila, la quale aveva confermato la pronuncia del Tribunale che, a sua volta, aveva respinto l’opposizione ex lege n. 92/2012 avverso l’ordinanza che aveva rigettato l’impugnativa del licenziamento disciplinare. La Corte territoriale, in sostanza, ha ritenuto che la concessione del congedo parentale al lavoratore si fonda sulla necessità di sostenere i bisogni affettivi e relazionali del figlio, per cui – essendo stato accertato attraverso indagini investigative che il lavoratore per oltre metà del tempo concesso a titolo di permesso parentale non aveva “svolto alcuna attività a favore del figlio” – si era prodotto uno sviamento dalla funzione tipica del congedo e allo stesso tempo era stata tenuta una condotta intenzionale che faceva ravvisare la giusta causa del recesso.

Il lavoratore impugna la sentenza sulla base di quattro motivi.

In particolare, con il secondo motivo, che più ci interessa per il presente tema, il lavoratore denuncia la violazione degli artt. 1 e ss L. n. 53/2000 e degli artt. 1 e ss. e 32 ss D. Lgs. n. 151/2001 in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., nonché l’omesso esame di fatti decisivi oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360, n. 5, c.p.c.. Da una parte, il ricorrente sostiene che la sentenza della Corte aquilana sia viziata nella parte in cui i giudici di merito hanno basato il giudizio sulla corretta fruizione o meno del congedo al tempo pari (o inferiore) al 50% dell’orario di lavoro giornaliero (8 ore) che il padre aveva trascorso con il figlio minore, nonostante la normativa richiamata non facesse alcun riferimento alla necessità di garantire al minore una determinata presenza. Dall’altra parte, effettua un confronto con la L. n. 104/1992 evidenziando che questa, rispetto alla normativa sui congedi parentali, ha la finalità di stabilire specifiche condizioni per assistere i soggetti portatori di handicap, prevedendo anche che i relativi permessi siano retribuiti; circostanza questa che non accade nel caso di fruizione dei congedi parentali, per i quali è prevista solo un’indennità.

La Suprema Corte, tuttavia, non accoglie il motivo di ricorso in quanto, ragionando sulla disciplina di riferimento, giunge a definire il congedo parentale quale diritto potestativo “caratterizzato da un comportamento con cui il titolare realizza da solo l’interesse tutelato e a cui fa riscontro, nell’altra parte, una mera soggezione alle conseguenze della dichiarazione di volontà” (cfr. Cass. nn. 17984/2010 e 6586/2012). Gli ermellini precisano, inoltre, che la natura di diritto potestativo del congedo parentale non esclude la verifica delle modalità del suo esercizio ai fini della qualificazione del comportamento del lavoratore perché in caso contrario il diritto potestativo si trasformerebbe in mera discrezionalità e arbitrio. Pertanto, la fruizione dei congedi parentali secondo criteri difformi a quelli richiesti dalla ratio della norma si traduce in una condotta contraria a buona fede che, nel caso di specie, determina sul datore – che ha riposto un legittimo affidamento sul lavoratore – la privazione della prestazione lavorativa del dipendente, che, percependo un’indennità, svia anche l’intervento assistenziale su cui si fonda l’erogazione da parte dell’ente previdenziale.

Peculiare il seguente passaggio della sentenza: “In base al descritto criterio della funzione può verificarsi un abuso del diritto potestativo di congedo parentale, allorché il diritto venga esercitato non per la cura diretta del bambino, bensì per attendere ad altra attività di lavoro, ancorché incidente positivamente sulla organizzazione economica e sociale della famiglia; ma analogo ragionamento può essere sviluppato anche nel caso sottoposto all’attenzione del Collegio in cui il genitore trascuri la cura del figlio per dedicarsi a qualunque altra attività che non sia in diretta relazione con detta cura, perché ciò che conta non è tanto quel che il genitore fa nel tempo da dedicare al figlio quanto piuttosto quello che invece non fa nel tempo che avrebbe dovuto dedicare al minore.“.

I giudici di legittimità continuano richiamando finanche la Corte Costituzionale (cfr. sent. nn. 104/2003, 371/2003 e 385/2005) e i principi da essa sanciti, secondo i quali la tutela della paternità prevede delle misure che garantiscano il rapporto del padre con la prole allo scopo di soddisfare i bisogni affettivi e relazionali dei bambino e il corretto sviluppo della sua personalità e del suo inserimento nella famiglia. E per raggiungere tali obiettivi, la Suprema Corte ritiene che la presenza del padre accanto al bambino diventa elemento imprescindibile che, nonostante non possa determinare una mera “sovrapponibilità” tra tempi di fruizione del congedo e tempi di cura del bambino, non può neanche essere effettuata in via indiretta, poiché tale funzione può essere già svolta da altri istituti legali o contrattuali senza la necessità di convertire le ore lavorative in congedi. La sentenza continua riportando anche un principio, sempre sancito dalla Suprema Corte in un caso precedente ed analogo, il quale stabilisce che “Il d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151, att. 32, comma 1, lett. b), nel prevedere – in attuazione della legge-delega 8 marzo 2000, n. 53 – che il lavoratore possa astenersi dal lavoro nei primi otto anni di vita del figlio, percependo dall’ente previdenziale un’indennità commisurata ad una parte della retribuzione, configura un diritto potestativo che il padre-lavoratore può esercitare nei confronti del datore di lavoro, nonché dell’ente tenuto all’erogazione dell’indennità, onde garantire con la propria presenza il soddisfacimento dei bisogni affettivi del bambino e della sua esigenza di un pieno inserimento nella famiglia; pertanto, ove si accerti che il periodo di congedo viene invece utilizzato dal padre per svolgere una diversa attività lavorativa, si configura un abuso per sviamento dalla funzione propria del diritto, idoneo ad essere valutato dal giudice ai fini della sussistenza di una giusta causa di licenziamento, non assumendo rilievo che lo svolgimento di tale attività (nella specie, presso una pizzeria di proprietà della moglie) contribuisca ad una migliore organizzazione della famiglia” (cfr. Cass. n. 16207/2008).

Il ragionamento dei giudici di legittimità, pertanto, è chiaro: se il lavoratore, che fruisce dei permessi ex lege n. 104/1992 e svolge attività diverse dall’assistenza al familiare disabile, viola la finalità per la quale il beneficio è concesso con conseguente integrazione della giusta causa di licenziamento (cfr. Cass. nn. 4984/2014, 8784/2015 e 9749 del 2016), allora allo stesso modo il lavoratore che fruisce dei congedi parentali deve soddisfare i bisogni affettivi e di cura del bambino, in quanto solo in questo modo il sacrificio del datore di lavoro (che sopporta modifiche organizzative per esigenze di ordine generale) può essere giustificato in virtù del superiore interesse meritevole di tutela. In caso contrario, si determinerebbe un abuso del diritto nonché una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede del lavoratore sia nei confronti del datore di lavoro che dell’Ente assicurativo.

Posto, infine, che nel caso concreto la Corte di Appello di L’Aquila si è correttamente uniformata ai principi già espressi dalla Cassazione nelle sentenze richiamate ed ha effettuato la verifica in fatto della condotta tenuta dal lavoratore in costanza di beneficio (formulando in sostanza il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione all’illecito commesso), i giudici di legittimità ribadiscono che un ulteriore sindacato sulla ricostruzione dei fatti e sul grado di sviamento della condotta concreta rispetto al legittimo esercizio del congedo è precluso in sede di legittimità.

Alla luce di quanto sopra esposto il ricorso è stato respinto con conseguente conferma della legittimità del licenziamento disciplinare irrogato al lavoratore.


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