Consenso informato e responsabilità medica
Sommario: I. L’evoluzione storica del rapporto medico-paziente – II. Il quadro normativo di riferimento nazionale e sovranazionale – III. I presupposti del consenso informato – IV. L’inadempimento dell’obbligo informativo e la responsabilità medica alla luce della giurisprudenza di legittimità.
I. L’evoluzione storica del rapporto medico-paziente.
La tematica dell’acquisizione del consenso informato del paziente nell’ambito della relazione terapeutica è stata al centro di un lungo percorso ermeneutico compiuto dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Si tratta di un argomento rilevante non solo nella dialettica giuridico-dottrinale, ma anche nella deontologia, nell’etica, nella filosofia, atteso che il rapporto tra medico e paziente è mutato di pari passo con il contesto storico-sociale di riferimento[1].
Dal modello “paternalistico di stampo ippocratico” ove il malato si affidava ciecamente alle cure del medico, unico depositario del sapere in un rapporto di “amicizia tra diseguali”[2], si è gradualmente giunti al concetto di “alleanza terapeutica”, secondo cui medico e paziente collaborano al perseguimento di un interesse comune: il benessere psicofisico del paziente inteso in tutte le sue sfaccettature.
Per comprendere le problematiche sottese alla tematica in esame e soprattutto le conseguenze, in punto di responsabilità, derivanti dall’inadempimento dell’obbligo informativo da parte del medico occorre, dunque, analizzare brevemente l’evoluzione storica del rapporto tra il medico ed il paziente.
Si tratta di un rapporto che, come detto, è stato caratterizzato fin dal giuramento di Ippocrate da un’etica medica paternalistica in cui, cioè, la figura del medico era paragonata a quella del pater[3]. Un rapporto asimmetrico, costituito da un completo affidamento del paziente alla competenza ed al sapere del medico derivante dalla sua condizione di vulnerabilità. Lo squilibrio tra le parti era notevole: da un lato, il medico, con il suo bagaglio di competenze e sapere scientifico a corredo della sua posizione di garanzia, dall’altro, il paziente, soggetto fragile e privo di competenze tecniche che al medico rimetteva la sua speranza di guarigione[4].
Tuttavia, già nei tempi antichi iniziava ad affiorare l’idea di una collaborazione tra il medico ed il paziente in vista del raggiungimento dell’obiettivo comune: il miglioramento della salute del paziente. Già lo stesso medico greco Ippocrate di Cos, nel Prognostico, riteneva che fosse necessario ricercare la cooperazione del paziente per combattere più efficacemente la malattia[5]. Così come Platone, nelle Leggi, riteneva che l’ars medica dovesse basarsi su due concetti fondamentali: la beneficialità, in forza del quale il suo agire deve essere finalizzato alla tutela del bene del malato, e quello della consensualità, volto al rispetto dell’autonomia del paziente[6]. Nonostante la presenza di queste aperture verso un’ottica più collaborativa, il modello ippocratico rimaneva caratterizzato da un ruolo di supremazia del medico al quale era conferita una sorta di impunità giuridica[7].
Lo squilibrio tra le parti si imponeva con maggior forza con la nascita del Cristianesimo e durante il periodo Medioevale. In quell’epoca i medici erano, per lo più, di estrazione clericale; di conseguenza, l’opera svolta era ritenuta una vera e propria missione caritatevole, quasi sacrale. In tale contesto, a nulla valeva il consenso del paziente al trattamento del medico essendo implicito nella sua stessa richiesta di aiuto.
Per avere una svolta nel rapporto tra il medico e paziente bisogna attendere l’affermarsi del pensiero illuminista e, con esso, l’affermarsi del primato della ragione, dell’attenzione alla persona e, soprattutto, della tutela della libertà ed autonomia dei singoli. Il mutamento del contesto storico sociale registratosi negli anni, l’incessante progresso tecnologico, la diffusione del sapere attraverso la scolarizzazione ma, soprattutto, la diffusione dei mezzi di informazione hanno assunto un ruolo decisivo per lenire lo squilibrio tra le parti del rapporto medico-paziente e giungere al riconoscimento del concetto di “alleanza terapeutica”.
La prima espressione moderna del concetto di “consenso informato” inteso come sintesi di due elementi, l’informazione, funzionale alla formazione della consapevolezza del paziente, ed il consenso, inteso come accettazione del trattamento sanitario, è stata teorizzata nel Codice di Norimberga del 1947[8]. Questo documento è la prima pietra miliare per l’evoluzione del rapporto medico-paziente in quanto statuisce, al punto primo, che «il consenso volontario del soggetto è assolutamente essenziale. Ciò significa che la persona in questione deve avere capacità legale di dare consenso, deve essere in grado di esercitare il libero arbitrio senza l’intervento di alcun elemento coercitivo, inganno, costrizione, falsità o altre forme di imposizione o violenza; deve avere sufficiente conoscenza e comprensione degli elementi della situazione in cui è coinvolto, tali da metterlo in posizione di prendere una decisione cosciente ed illuminata. Quest’ultima condizione richiede che prima di accettare una decisione affermativa da parte del soggetto dell’esperimento lo si debba portare a conoscenza della natura, della durata e dei mezzi con i quali sarà condotto; di tutte le complicazioni e rischi che gli possono derivare dal sottoporsi all’intervento. Il dovere e la responsabilità di contrastare la validità del consenso pesano su chiunque inizia, dirige o è implicato nell’esperimento». Sebbene il documento si riferisca alle sole sperimentazioni sugli esseri umani, ha avuto il pregio di aver acceso un dibattito a livello internazionale sulla necessità morale ed etica di un consenso e di una approvazione volontaria ai trattamenti sanitari[9].
Dibattito che, nella giurisprudenza degli Stati Uniti, ha portato alla teorizzazione della moderna nozione di “informed consent”: accettazione consapevole, informata, volontaria e libera del trattamento del sanitario da parte del paziente come elemento legittimante l’azione invasiva del medico. Il principio del consenso informato nell’alleanza terapeutica trova ormai riconoscimento sia nella normativa nazionale che sovranazionale.
II. Il quadro normativo nazionale e sovranazionale di riferimento.
La Carta Costituzionale riprende i principi del codice di Norimberga affermando la centralità dei diritti della persona umana.
Il principio personalistico permea l’intera Costituzione e va inteso in senso ampio: occorre rispettare la persona in tutte le sue accezioni ed in qualsiasi momento della sua vita, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive[10]. Pertanto, il malato, prima ancora di essere un paziente, è una persona e come tale esige il rispetto delle sue convinzioni etico-religiose-morali, anche ed eventualmente a discapito della sua salute.
Non esiste, nella nostra Costituzione, infatti, un obbligo generale di sottoporsi alle cure; esiste il diritto alla salute, sancito dall’art. 32 Cost., che deve essere letto in una duplice accezione: quella pubblicistica, come fondamentale interesse della collettività, e quella soggettivistica, che rimette all’individuo la scelta del sottoporsi o meno al trattamento sanitario. Sotto questo profilo, infatti, l’articolo in esame dispone che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.
In quest’ottica, il consenso della persona al trattamento sanitario assume un ruolo fondamentale, soprattutto alla luce della lettura congiunta degli artt. 32 e 13 della Costituzione. A questo proposito, la storica sentenza n. 471/1990 della Corte Costituzionale ha riconosciuto espressamente che la libertà di autodeterminazione (di cui all’art. 13 della Cost.) comprende anche la libertà di ciascuno di disporre del proprio corpo, creando così un legame indissolubile tra diritto alla salute e libertà di autodeterminazione.
Posto che la salute, intesa come benessere psicofisico della persona[11] assurge a diritto fondamentale, proprio come l’inviolabilità della libertà personale, ne consegue che ogni trattamento sanitario effettuato senza il consenso del paziente costituisce un atto illecito. In quest’ottica, il consenso del paziente ha un duplice ruolo, etico e giuridico: da un lato, dà espressione alle convinzioni morali e religiose della persona nel pieno rispetto della libertà di autodeterminazione; dall’altro, costituisce legittimazione e fondamento delle prestazioni mediche[12].
Con riferimento alla legislazione ordinaria, fondamentale importanza assume la legge n. 219/2017 sulle Disposizioni Anticipate di Trattamento (D.A.T.) che sancisce la necessità del consenso informato per la valorizzazione della relazione di cura e fiducia tra paziente e medico.
L’art. 1 della citata legge è interamente dedicato alla disciplina del consenso informato e, in ossequio ai principi costituzionali dettati agli artt. 2, 13 e 32 Cost., ed ai principi sanciti negli articoli 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dispone che: “nessun trattamento sanitario puo’ essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge”. Chiarisce, inoltre, che all’obbligo del medico di informare la persona da curare corrisponde il diritto di quest’ultima di: “conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonche’ riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi”. Questo per dare la possibilità, ad ogni persona capace di agire, di rifiutare in tutto o in parte “qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso” o di revocare in qualsiasi momento il consenso prestato. Il rispetto della volontà espressa dal paziente rende esente da responsabilità il medico che ha eseguito il trattamento senza incorrere in una condotta colposa.
Gli stessi principi sono contenuti nell’art. 33 del codice di deontologia medica[13], nonché in molteplici pareri formulati dal Comitato Nazionale per la Bioetica.
Con riferimento al quadro sovranazionale, il principio del consenso informato nel trattamento sanitario è riconosciuto dall’art. 5 al 9 della Convenzione di Oviedo del 1997, ratificata in Italia con la Legge 145/2001, nonché dagli artt. 1,2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
III. I presupposti del consenso informato.
Alla luce del quadro normativo di riferimento si possono tratteggiare i presupposti del consenso informato. In particolare, il consenso deve essere personale: ossia, manifestato direttamente dal paziente dotato della capacità di intendere e volere; deve essere esplicito, dovendosi manifestare inequivocabilmente la volontà di sottoporsi alle cure mediche; deve essere specifico, pertanto, deve avere ad oggetto il singolo intervento ovvero ciascuna fase dello stesso se si tratta di un trattamento più complesso. La ratio è quella di evitare che il paziente conferisca una sorta di delega in bianco al medico, svuotando così di contenuto la manifestazione del consenso.
Ancora, deve essere libero, così scongiurando qualsiasi forma di costrizione, anche puramente psicologica, idonea a trasformare il ruolo attivo del paziente in un ruolo di mera accettazione passiva dell’intervento; deve essere attuale, persistere al momento dell’inizio dell’intervento e può essere sempre revocato. Come già anticipato, il principio personalistico impone di tutelare la libertà di autodeterminazione anche tenendo conto di un possibile mutamento di opinione, riflesso di un’evoluzione interiore del soggetto.
Ma soprattutto, il consenso, per essere manifestazione della libertà di autodeterminazione, deve essere informato e consapevole. Non vi è esercizio del diritto di autodeterminazione senza una corretta informazione di quali sono i rischi prevedibili connessi all’intervento terapeutico, le chances di miglioramento del benessere psicofisico, le possibili cure alternative, le conseguenze dell’evolversi della malattia in caso di rifiuto alle cure, gli eventuali deficit della struttura sanitaria. Il dovere del medico di rendere edotto il paziente sulle possibili conseguenze (positive e negative) del trattamento è volto a ridimensionare lo squilibrio informativo tra le parti del rapporto. Solo riportando simmetria tra le parti sarà possibile realizzare una vera e propria “alleanza terapeutica”.
Ebbene, l’inadempimento dell’obbligo informativo gravante sul medico, ovvero, l’acquisizione di un consenso che difetta dei presupposti sopra delineati, è fonte autonoma di responsabilità in quanto lede il diritto all’autodeterminazione del soggetto. Ciò posto, il trattamento sanitario effettuato senza il consenso informato costituisce un illecito dal carattere plurioffensivo: da un lato, è idoneo a causare un danno alla salute; dall’altro, è idoneo a causare una lesione al diritto all’autodeterminazione.
IV. L’inadempimento dell’obbligo informativo e la responsabilità medica alla luce della giurisprudenza di legittimità.
La responsabilità medica deriva dalla mancata traslazione del rischio dell’intervento sanitario, dal medico al paziente. Più precisamente, nel momento in cui il paziente esprime il consenso informato, decide di accollarsi il rischio dell’alea fisiologica dell’intervento. Ogni intervento, pur correttamente eseguito, può avere delle complicanze, degli effetti collaterali, che rientrano nell’alea stessa dell’esecuzione. La mancata acquisizione del consenso comporta la traslazione dell’alea in capo al medico che si sostituisce al paziente nella decisione.
L’esito peggiorativo della salute del paziente, da intendersi non necessariamente con un esito infausto dell’operazione, ma anche con la sofferenza patita dallo stesso durante l’intervento, concretizza il rischio che il medico ha fatto incorrere al paziente senza un suo consapevole consenso.
Il nesso causale necessario per il risarcimento del danno ex art. 1223 c.c. viene meno laddove il medico dimostri che il paziente avrebbe comunque acconsentito al trattamento sanitario una volta informato. Ipotesi che potrebbe ricorrere quando il medico dimostri che non vi erano allo stato altre alternative rispetto alla prestazione sanitaria somministrata al paziente e che, quest’ultimo, non sarebbe stato restio alle cure. Prima di risarcire il danno occorre effettuare una valutazione in concreto per verificare se sussiste, oltre al danno-evento della lesione in via diretta del diritto all’autodeterminazione del paziente, anche il danno-conseguenza.
La questione problematica attiene proprio alla valutazione del danno conseguenza: posto che l’illecito commesso dal medico che opera senza il consenso del paziente è plurioffensivo ed in grado di ledere sia il bene salute che il bene della libertà di autodeterminazione, ci si è chiesti se per il risarcimento del danno potesse bastare l’inadempimento dell’obbligo informativo anche in assenza di un danno alla salute.
Secondo la tesi minoritaria, il danno da lesione del diritto di autodeterminazione deriva dallo stesso comportamento inadempiente del medico: si tratta di un danno in re ipsa che non necessita di una puntuale prova. Ebbene, posto che l’acquisizione del consenso informato del paziente da parte del sanitario costituisce “prestazione altra e diversa rispetto a quella oggetto dell’intervento terapeutico”, l’inadempimento produce, direttamente, come danno-conseguenza la contrazione della libertà di disporre di se stessi fisicamente e psichicamente[14].
Tale argomentazione presta tuttavia il fianco alle seguenti critiche: rischia di svuotare di contenuto la struttura dell’illecito civile, che non si esaurisce con l’«eventus-damni», essendo richiesta, per l’insorgenza della responsabilità, la prova di una «determinata conseguenza pregiudizievole» di natura patrimoniale o non patrimoniale, riconducibile causalmente, ex art. 1223 c.c. a tale evento[15].
L’orientamento maggioritario, ritiene, infatti, che oltre al deficit informativo occorre l’allegazione e la prova delle conseguenze pregiudizievoli derivanti dall’inadempimento di tale obbligo[16]. Conseguenze che possono concretizzarsi nella perdita della chance di sottoporsi a diverse cure disponibili e meno invasive, ovvero, nel danno da sofferenza e contrazione della libertà di disporre di sé stesso patite dal paziente in ragione dell’intervento nel corso dell’esecuzione dello stesso e nella relativa convalescenza.
La Corte di legittimità, è stata di recente chiamata a chiarire quali conseguenze derivino, sotto il profilo risarcitorio, dalla condotta inadempiente del medico che non abbia illustrato al paziente i rischi connessi al trattamento terapeutico. In questa circostanza, la Corte ha colto l’occasione per fare il punto in tema di consenso informato. La sentenza[17] in esame ha, infatti, il dichiarato intento di «confermare e dare seguito, implementandola e perfezionandola», all’elaborazione giurisprudenziale svolta nell’ultimo decennio.
Secondo la Suprema Corte, dalla violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente possono prospettarsi le seguenti situazioni:
prima ipotesi: intervento che a causa della condotta colposa del medico ha arrecato un danno alla salute a cui il paziente avrebbe in ogni caso scelto di sottoporsi all’intervento, nelle medesime condizioni, “hic et nunc“. In questo caso il risarcimento sarà limitato al solo danno alla salute subito.
Seconda ipotesi: intervento che a causa della condotta colposa del medico ha arrecato un danno alla salute a cui il paziente non avrebbe scelto di sottoporsi. In tal caso il risarcimento sarà esteso anche al danno da lesione del diritto all’autodeterminazione.
Terza ipotesi: intervento che ha cagionato un danno alla salute nonostante la condotta non colposa del medico, a cui il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi: in tal caso, l’illecito è plurioffensivo e, quindi, risarcimento, sarà liquidato sia con riferimento alla violazione del diritto alla autodeterminazione sia con riferimento alla lesione della salute (da valutarsi in relazione alla eventuale situazione “differenziale” tra il maggiore danno biologico conseguente all’intervento ed il preesistente stato patologico invalidante del soggetto).
Quarta ipotesi: intervento che non ha provocato alcun danno alla salute ed a cui il paziente avrebbe scelto di sottoporsi. In tal caso non vi è lesione né del diritto alla salute né del diritto all’autodeterminazione; di conseguenza, non sarà dovuto alcun risarcimento del danno.
Quinta ipotesi: inadeguatezza diagnostica che ha impedito al paziente di accedere a più accurati ed attendibili accertamenti: in tal caso, il danno da lesione del diritto alla autodeterminazione sarà risarcibile se si prova che, dalla omessa, inadeguata o insufficiente informazione, siano derivate conseguenze dannose al paziente in termini di sofferenza soggettiva e contrazione della libertà di disporre di sé stesso, psichicamente e fisicamente.
Con riferimento all’onere della prova, la Corte di legittimità ha ribadito che spetta al paziente allegare l’altrui inadempimento ed il nesso causale che intercorre tra l’inadempimento ed il danno subito, posto che: il fatto positivo da provare è il rifiuto che sarebbe stato opposto dal paziente al medico e il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla scelta soggettiva del paziente, con la conseguenza che la distribuzione del relativo onere va individuato in base al criterio della cd. “vicinanza della prova”.
Vista la difficoltà di provare una scelta soggettiva, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che tale prova potrà essere fornita con ogni mezzo, ivi compresi il notorio, le massime di esperienza e presunzioni purché siano fondate sulla gravità delle condizioni di salute del paziente e sul grado di necessarietà dell’operazione.
[1] “in estrema sintesi si può affermare che è sulla base dei concetti della filosofia morale che il consenso informato diventa mezzo attraverso il quale il malato acquisisce un ruolo attivo nella relazione con il medico; mentre è a partire dalla scienza giuridica che esso assume una connotazione difensivistica, cioè di garanzia dell’operato del medico nei confronti del paziente. La duplicità di funzioni del consenso informato (…) è dunque correlata a due distinte tradizioni disciplinari”. B. VIMERCATI, consenso informato ed incapacità. Gli strumenti di attuazione del diritto Costituzionale all’autodeterminazione terapeutica, Milano, 2014, p. 28; Cfr. anche C. TROISI, il consenso informato nella professione medica, p. 1, in www.comparazionedirittocivile.it.
[2] ARISTOTELE, Etica a Nicomaco, libro VIII.
[3] M. GRAZIADEI, il consenso informato e i suoi limiti, in Trattato di Biodiritto, a cura di Rodotà e Zatti, I diritti in Medicina, a cura di L. Lenti, E. Plermo, P. Zatti, Milano, 2011.
[4] B. VIMERCATI, op. cit., p. 28 e ss.
[5] V. MALLARDI, le Origini del Consenso Informato, in Acta Otorhinolaryngol ital 25, 2005, 316.
[6] E.V. MALTESE, Platone, Tutte le Opere, Grandi Tascabili Economici, Newton, 1997, 215.
[7] I. PIZZIMENTI, Consenso informato e responsabilità medica, Tesi di Dottorato, 2016-2017, p. 17, in air.uniud.it
[8] Nella sentenza dell’ottobre del 1947, emanata nel contesto del processo di Norimberga sui crimini commessi dai medici nei campi di concentramento nazisti, i giudici incorporarono un documento, noto come Codice di Norimberga, contenente non solo i principi essenziali su cui devono basarsi le sperimentazioni cliniche moralmente accettabili sull’uomo ma anche i suoi fondamentali diritti (Cfr: I. DEL GIGLIO, La sperimentazione clinica sull’uomo. Normativa e istituti di controllo, Cagliari, 2015)
[9] C. TROISI, op. cit., p. 4.
[10] M. FRATINI, il sistema del diritto civile, vol I, le obbligazioni, nella collana I Sistemi del Diritto, a cura di F. CARINGELLA, M. FRATINI, A. SALERNO
[11] Occorre soffermarsi sul mutamento che ha subito nel tempo la nozione di salute: non è più considerata solo come assenza di malattia, ma si riferisce al benessere psico-fisico del soggetto, quindi rientra in una dimensione soggettiva. In questa ottica, dunque, la salute è un diritto che appartiene al singolo e, come tale, rientra nella sua sfera di autodeterminazione.
[12] B. VIMERCATI, op. cit., p. 28 e ss.
[13] Codice di deontologia medica, Art. 33: “Il medico deve fornire al paziente la più idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive e le eventuali alternative diagnostico-terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate. Il medico dovrà comunicare con il soggetto tenendo conto delle sue capacità di comprensione, al fine di promuoverne la massima partecipazione alle scelte decisionali e l’adesione alle proposte diagnostico-terapeutiche. Ogni ulteriore richiesta di informazione da parte del paziente deve essere soddisfatta. Il medico deve, altresì, soddisfare le richieste di informazione del cittadino in tema di prevenzione. Le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste o tali da poter procurare preoccupazione e sofferenza alla persona, devono essere fornite con prudenza, usando terminologie non traumatizzanti e senza escludere elementi di speranza. La documentata volontà della persona assistita di non essere informata o di delegare ad altro soggetto l’informazione deve essere rispettata”.
[14] Cass. civ., 5 luglio 2017, n. 16503
[15] Cass. civ., sez. III, 11 novembre 2019, n. 28985.
[16] Cfr. Cass. civ., sez. III, 17 gennaio 2018, n. 907; Cass. civ., sez. III, 28 febbraio 2019,n. 5807; Cass. civ., sez. III 4 dicembre 2018, n. 31233; Cass. civ., sez. III, 24 aprile 2019, n. 11203; Cass. civ., sez. VI, 28 marzo 2018, n. 7594; Cass. civ., sez. III, 3 luglio 2014, n. 15240.
[17] Cass. civ., sez. III, 11 novembre 2019, n. 28985.
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Valentina Nardi
Laureata in Giurisprudenza con votazione di 108/110.
Abilitata all'esercizio della professione forense.
Assistente Giudiziario presso la Corte di Cassazione.