Consenso informato: non è sufficiente la sottoscrizione di un modulo prestampato

Consenso informato: non è sufficiente la sottoscrizione di un modulo prestampato

a cura di Francesca Di Mezza

Consenso informato: non è sufficiente la sottoscrizione di un modulo prestampato. Occorre fornire al paziente informazioni dettagliate sui rischi dell’operazione

Ciò è quanto affermato dalla Terza sezione civile della Corte di Cassazione con la sentenza n. 23328/2019.

Il consenso informato è disciplinato e definito, per la prima volta in Italia, dalla legge n. 219/2017 “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, detta anche legge sul Biotestamento.

Nel rispetto dei principi di cui agli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione e degli articoli 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la legge tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona e stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito in assenza del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge. A tal fine, il paziente ha “il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informato in modo completo, aggiornato e a lui comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi”.

La legge riveste di dignità legislativa una realtà già esistente, affermatasi per volontà giurisprudenziale, in virtù dei principi costituzionali e internazionali. In particolare la Sez. III civile della Corte di Cassazione si è sovente pronunciata, in questi anni, sulla portata che il consenso informato debba avere perché possa esser qualificato come tale.

Nel caso esaminato di recente, una paziente citava in giudizio un medico, affinchè venisse riconosciuto responsabile dei danni patrimoniali e non patrimoniali, subiti in conseguenza degli interventi chirurgici eseguiti dallo stesso. La donna esponeva che, sebbene la diagnosi non fosse preoccupante (emorroidi di secondo grado), il sanitario l’aveva indotta a sottoporsi all’operazione chirurgica, prospettandole, oltretutto, un intervento non impegnativo.

Durante l’intervento la paziente ebbe una forte emorragia tanto da rendersi necessario, il giorno seguente, una nuova operazione chirurgica. A tal punto forti furono i dolori postumi del nuovo intervento che la paziente veniva portata una terza volta in sala operatoria, senza la preventiva sottoscrizione del consenso informato.

Tuttavia, stante la persistenza di dolori lancinanti, la paziente decideva di consultare un altro professionista che la sottoponeva a una nuova operazione. Il decorso postoperatorio rilevava la scarsa possibilità di ripristinare la funzione rettale. In altri termini, con il nuovo intervento, non era stato possibile rimediare ai danni provocati nei precedenti.

Alla luce di ciò, la paziente querelava il primo sanitario che, in sede di incidente probatorio, era riconosciuto responsabile sotto il profilo della imperizia nella conduzione dell’assistenza della donna. Nelle more, l’assicuratore del professionista versava una somma di denaro alla paziente, che la tratteneva in acconto. Seguivano l’applicazione alla donna di un pace-maker anale, successivamente rimosso dato l’aggravarsi della situazione, e due nuovi interventi chirurgici che si rivelarono inutili.

La paziente lamentava danni alla persona dovuti al forte dolore fisico e psichico.

Il Tribunale di primo grado riconosceva il primo medico responsabile degli errati interventi chirurgici, condannando lo stesso al pagamento di una somma di denaro e l’assicuratore a manlevare il professionista riguardo al medesimo esborso di somme.

Tuttavia, secondo la paziente, il primo giudice aveva errato nell’attribuire al secondo professionista (che aveva eseguito il quarto intervento), estraneo al giudizio, la responsabilità del 20% in ordine alle conseguenze dannose e alla stessa una responsabilità del 10%, ritenendo i postumi permanenti riportati dalla medesima in misura inferiore a quella reale e calcolando il danno patrimoniale senza tener conto della perdita totale di ogni reddito, conseguenza della rinunzia della paziente ad ogni attività imprenditoriale. In ultimo la donna osservava il mancato esame, in primo grado, della carenza del consenso informato.

Il giudice di secondo grado, in parziale accoglimento dell’appello principale, condannava il sanitario al pagamento di un’ulteriore somma a titolo di risarcimento del danno da invalidità permanente, nonché al rimborso delle spese mediche, e l’assicuratore a tenere indenne l’assicurato dalle somme dovute alla paziente. In accoglimento dell’appello incidentale dell’assicuratore, condannava, altresì, la donna a restituire alla compagnia assicuratrice una parte dell’importo al cui pagamento era stata condannata dal Tribunale.

Contro questa pronuncia la paziente decideva di proporre ricorso per Cassazione.

Il decisum

La Suprema Corte ritiene errata la sentenza impugnata laddove la Corte d’Appello ritiene di poter estendere il consenso espresso per iscritto al primo intervento anche alle operazioni successive. Il secondo e il terzo intervento sono stati eseguiti, infatti, in mancanza della preventiva acquisizione del consenso informato, neppure mediante sottoscrizione di un modulo prestampato. Trattasi di “un’inadeguatezza del consenso e, prima ancora, della informazione, ove il consenso sia prestato apponendo la firma su un modulo prestampato e generico”.

Sul punto la Corte ribadisce quanto già ripetutamente affermato in tema di attività medico-chirurgica. Non basta la sottoscrizione di un modulo prestampato e dal contenuto generico, ma occorre che il professionista fornisca informazioni dettagliate al paziente, che siano idonee alla piena conoscenza della natura, portata ed estensione dell’intervento chirurgico, nonché dei risultati conseguibili, dei rischi e possibili conseguenze negative. La qualità del paziente, o meglio il suo livello culturale, inoltre, influisce unicamente sulla conseguente necessità di ricercare un linguaggio a lui comprensibile, che tenga conto del suo particolare stato soggettivo e del grado di conoscenze scientifiche di cui è in possesso.

Per cui, non solo andava acquisito il consenso anche in occasione dei successivi interventi ma, considerato altresì il carattere riparatorio di quest’ultimi, che intervenivano nell’ambito di un pregiudizio già verificatosi, la Cassazione evidenzia la particolare importanza che assume, in tale contesto, la preventiva informazione, che deve essere ancor più dettagliata. Il malato deve essere edotto della patologia determinata dal primo intervento e delle concrete prospettive conseguibili con la successiva operazione chirurgica.

Stante il carattere “riparatorio” e l’esito non risolutivo degli interventi successivi, l’onere di dimostrare che, se adeguatamente informata, la paziente avrebbe verosimilmente rifiutato l’operazione non incombe su di lei. Tale principio trova applicazione, infatti, nella diversa ipotesi di intervento correttamente eseguito.

Coglie l’occasione, poi, la Suprema Corte per ribadire un orientamento introdotto nel 2013 e ormai consolidato: ai fini dell’eventuale responsabilità risarcitoria, la mancata prestazione del consenso da parte del malato assume autonoma rilevanza.

La Costituzione sancisce il rispetto della persona in qualsiasi momento della sua vita e nell’integralità della sua essenza psicofisica, tenuto conto delle sue convinzioni morali, religiose, culturali e filosofiche. Ne consegue, per la Cassazione, il diritto del paziente a conoscere con precisione le conseguenze dell’intervento sanitario, in modo da prepararsi ad affrontarle con migliore consapevolezza. Pertanto, “la violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danni: un danno alla salute, sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, su cui grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all’intervento e di subirne le conseguenze invalidanti; nonché un danno da lesione del diritto all’autodeterminazione in se stesso, il quale sussiste quando, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale, diverso dalla lesione del diritto alla salute”.

Ne esce, quindi, esaltato il ruolo del consenso informato, da intendersi quale consapevole adesione o non adesione del malato al trattamento proposto dal sanitario; consenso che, per essere consapevole, implica che il medico dialoghi con il paziente.

A tal proposito, già nel 2008, la Corte Costituzionale affermava che il consenso informato svolge la funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute. Poiché, “se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha altresì il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto” in modo da “garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente” e, dunque, “la sua stessa libertà personale” (Corte cost., sent. n. 438/2008).

Giova aggiungere, ai fini di una completa disamina della sentenza in oggetto, che la Suprema Corte si sofferma, inoltre, sulla struttura dell’illecito civile. Precisa che, dopo le Sezioni Unite Civili del 2008 (sent. n. 576 dell’11 gennaio 2008), l’illecito civile è strutturato in maniera diversa da quello penale. In quest’ultimo, occorre accertare che la condotta umana abbia prodotto l’evento che costituisce il fatto-reato; mentre nell’illecito civile occorre anche appurare che dalla lesione siano scaturite conseguenze pregiudizievoli. Ciò perché, in sede civile, la lesione dell’interesse protetto non rappresenta il danno, ma la causa del danno. Dunque ci sono due distinti accertamenti eziologici da fare in materia di responsabilità civile: quello tra la condotta illecita e la lesione dell’interesse e quello, successivo, tra la lesione dell’interesse e il danno risarcibile. Nel primo caso si parla di causalità materiale, nel secondo di causalità giuridica.

Possiamo, quindi, affermare che il primo nesso di causalità è teso a stabilire se l’evento sia o meno addebitabile alla condotta materiale di un determinato soggetto, mentre il secondo è volto a stabilire l’esistenza e l’ampiezza dei pregiudizi riconducibili al fatto dannoso, determinando gli eventi da porre a fondamento del danno risarcibile.

Tornando alla sentenza in esame, la Corte di Cassazione afferma che, ai fini della sussistenza dell’obbligo risarcitorio, occorre il positivo accertamento sia della causalità materiale che di quella giuridica. Solo se sussistono entrambe è configurabile anche il danno, potendo parlare di solo illecito ove vi sia unicamente la causalità materiale. Infine la Corte aggiunge che in ambito civilistico, per la causalità materiale, opera il principio del “più probabile che non”, mentre per la causalità giuridica occorre far riferimento all’articolo 1223 c.c. che prevede la risarcibilità dei soli danni che siano conseguenza diretta e immediata dell’illecito.


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Francesca Di Mezza

Laureata in Giurisprudenza presso l’Università “Federico II” di Napoli con votazione 110/110, discutendo una tesi in procedura penale dal titolo “L’uso processuale dell’interrogatorio dell’indagato”. Ha svolto la pratica forense presso l’Avvocatura distrettuale dello Stato di Napoli e ha conseguito il titolo di avvocato. Ha frequentato corsi di approfondimento post lauream.

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