Consiglio di Stato, Avvocati: bocciato il regolamento sulle specializzazioni forensi
Con sentenza n. 5575 del 28 novembre 2017 la Quarta Sezione del Consiglio di Stato si è soffermata sulla disciplina che individua le modalità per consentire agli Avvocati di conseguire il titolo di specialista. Il Supremo consesso, in particolare:
– ha condiviso la determinazione del TAR Lazio in ordine all’illegittimità dell’art. 6, comma 4, del regolamento recante disposizioni per il conseguimento e il mantenimento del titolo di avvocato specialista secondo cui “…nel caso di domanda fondata sulla comprovata esperienza il Consiglio nazionale forense convoca l’istante per sottoporlo ad un colloquio sulle materie comprese nel settore di specializzazione…”. Secondo la decisione richiamata, infatti, il colloquio – così come delineato dalla disposizione regolamentare impugnata – avrebbe contorni vaghi e imprecisi, non risultando sufficientemente tutelato né l‘interesse del professionista aspirante al titolo, né, per altro verso, l’interesse del consumatore-cliente. Ciò che appare illegittimo, ha chiarito in sostanza il Consiglio di Stato, non è l’adozione dello strumento prescelto dal regolamento (e cioè a dire il colloquio), che è di per sé senz’altro ragionevole e legittimo, ma “…la circostanza che tale strumento abbia contorni nebulosi e indeterminati, anche perché l’attribuzione di competenza in materia al C.N.F. “in via esclusiva” (ai sensi dell’art. 9, comma 5, della legge) non può risolversi in una sorta di delega in bianco…”;
– ha condiviso l’ulteriore conclusione del primo Giudice che aveva ritenuto la suddivisione delle specializzazioni irragionevole e arbitraria nonché illogicamente omissiva di determinate discipline giuridiche. Il Consiglio di stato, nello specifico, ha osservato che sebbene l’elenco prenda le mosse dalla tripartizione tradizionale fra diritto civile, penale e amministrativo, lo stesso poi “…dilata ampiamente il primo settore e non introduce nessuna differenziazione nell’ambito degli altri, laddove è ben noto che quanto meno il diritto amministrativo conosce sotto-settori autonomi nella pratica, nella dottrina e nella didattica, che – al pari di quelli del diritto civile – meriterebbero di essere considerati settori autonomi di specializzazione; mentre, per converso, appare discutibile, in termini di ragionevolezza, la analitica suddivisione per il diritto civile…”. Tale giudizio negativo – ha altresì precisato il Supremo Consesso – dovrebbe implicare “…un profondo ripensamento della disciplina introdotta con l’adozione di parametri che siano il frutto di una scelta di merito, ma che devono rispettare i criteri di effettività, congruità e ragionevolezza; né tale articolazione, se originariamente ritenuta incongrua, può essere corretta nella sede di modifica e aggiornamento riconosciuta al Ministro della giustizia dall’art. 4 del regolamento…”;
– ha dato atto della fondatezza della censura concernente il numero massimo di specializzazioni conseguibili non in sé, ben potendo essere opportuno frenare una “corsa alla specializzazione” che rischierebbe di svilire il valore della specializzazione stessa e di andare contro l’interesse del cliente-consumatore, ma “…alla luce della acclarata irragionevolezza della suddivisione relativa che individua ambiti contermini e settori affini, tanto da far apparire egualmente irragionevole la limitazione impugnata…”. In tale prospettiva – ha precisato il Supremo Consesso – “…è evidente che rivisitazione dell’elenco e individuazione di un limite ragionevole e congruo dovranno andare di pari passo…”;
– ha infine ritenuto fondata la censura rivolta avverso la previsione di cui all’art. 2, comma 3, del Regolamento secondo cui “…commette illecito disciplinare l’avvocato che spende il titolo di specialista senza averlo conseguito…”. Il Consiglio di Stato, infatti, ha chiarito che “…a fronte dell’inequivoco disposto dell’art. 3, comma 3, della legge, che rinvia al codice deontologico per l’individuazione dei fatti di rilievo disciplinare, la norma regolamentare è illegittima se vuole ampliare l’ambito delle fattispecie rilevanti, superflua e illogica se non perplessa, e dunque parimenti da annullare, se intende riportarsi alle previsioni del codice deontologico specificandole. Fermo il rispetto del principio della tipizzazione delle condotte rilevanti in chiave disciplinare, la disposizione regolamentare, se così ricostruita, introdurrebbe non consentiti elementi di incertezza sulle conseguenze sanzionatorie dell’indebito utilizzo del titolo, poiché alla violazione dell’art. 65, comma 1, del codice, valorizzato dal T.A.R., segue l’avvertimento, mentre potrebbero egualmente essere richiamati le prescrizioni dell’art. 35 (“dovere di corretta informazione”) o dell’art. 36 del codice (“divieto di attività professionale senza titolo e di uso di titoli inesistenti”), alle quali sono collegate le diverse sanzioni della censura o della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale e che rimangono comunque pienamente applicabili una volta in concreto accertati i relativi presupposti….”.
In sintesi, a fronte dell’inequivoco disposto dell’art. 3, comma 3, della legge, che rinvia al codice deontologico per l’individuazione dei fatti di rilievo disciplinare, la norma regolamentare è illegittima se vuole ampliare l’ambito delle fattispecie rilevanti, superflua e illogica se non perplessa, e dunque parimenti da annullare, se intende riportarsi alle previsioni del codice deontologico specificandole.
Fermo il rispetto del principio della tipizzazione delle condotte rilevanti in chiave disciplinare, la disposizione regolamentare, se così ricostruita, introdurrebbe non consentiti elementi di incertezza sulle conseguenze sanzionatorie dell’indebito utilizzo del titolo, poiché alla violazione dell’art. 65, comma 1, del codice, segue l’avvertimento, mentre potrebbero egualmente essere richiamati le prescrizioni dell’art. 35 (“dovere di corretta informazione”) o dell’art. 36 del codice (“divieto di attività professionale senza titolo e di uso di titoli inesistenti”), alle quali sono collegate le diverse sanzioni della censura o della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale e che rimangono comunque pienamente applicabili una volta in concreto accertati i relativi presupposti.
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Luigi Piero Martina (Lecce, 1992).
Laureato con 110 e lode in Giurisprudenza (con qualifica Summa cum Laude) presso la Pontificia Università Lateranense, con pubblicazione scientifica di Tesi di Laurea a carattere sperimentale.
Laureato con il massimo dei voti in Operatore Giuridico di Impresa, del Lavoro e delle Pubbliche Amministrazioni, con pubblicazione scientifica di Tesi di Laurea in materia di contrattualistica pubblica.
Laureando in materie economiche e Avvocato Comunitario.
Dipendente del Sovrano Militare Ordine di Malta.
Ex Segretario e Tesoriere dell’Associazione Internazionale Lateranense della Pontificia Università Lateranense ed ex Consulente Professionale presso la Fondazione “Civitas Lateranensis” .
Ex Consulente Professionale presso la Cattedra di Filosofia e Storia delle Istituzioni Europee della Pontificia Università Lateranense.
Autore scientifico ed ex Tutor Accademico presso la succitata università.
Componente dell'Osservatorio di Studi sulla Dualità di Genere della Pontificia Università Lateranense.
Membro del Gruppo Interdisciplinare di Ricerca in Neurobietica dell'Ateneo Pontificio Regina Apostolorum.
Responsabile Qualità Accademica della Scuola di Alta Formazione e Studi Specializzati per Professionisti.
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