Contratti derivati e enti locali: il difficile equilibrio tra meritevolezza, aleatorietà, obblighi informativi, buona fede e finanza pubblica
Corte di Cassazione, Sez. Un., sent. 12 maggio 2020, n. 8770
Sommario: 1. Premessa – 2. Gli swaps e i contratti derivati: l’assenza di una nozione normativa – 3. Il contratto di interest rate swap: tra atipicità ed aleatorietà – 4. La tipizzazione dei contratti “derivati” degli Enti pubblici quale portato di una visione unitaria dell’ordinamento – 5. I principi di diritto affermati nella sentenza: i requisiti che i contratti derivati devono avere per poter essere considerati validi ed efficaci ai sensi del Codice Civile – 6. La necessità di condurre una valutazione caso per caso e in concreto – 7. Conclusioni
Abstract: Il presente contributo si propone di operare un esame sui caratteri peculiari dei contratti derivati e sull’utilizzo che ne viene fatto dalla prassi finanziaria, con particolare riferimento all’interest rate swap. Si prenderanno le mosse dalla Sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 8770/2020, con la quale sono stati fissati importanti principi di diritto in punto di rapporto fra funzione economico-individuale dei derivati e meritevolezza, obblighi di stabilità derivanti dalla finanza pubblica e di certezza dei bilanci, nonché di organo comunale competente a dare l’autorizzazione alla conclusione di un contratto di swap.
1. Premessa
Le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza del 12 maggio 2020 n. 8770, sono intervenute a risolvere il contrasto giurisprudenziale sulla validità dei contratti di swaps.
Sebbene la pronuncia in commento riguardi i derivati stipulati dagli enti pubblici, i principi ivi fissati sono suscettibili di essere trasfusi anche ai contratti derivati conclusi da privati.
Gli Ermellini hanno rigettato il ricorso proposto da una banca avverso la sentenza della Corte di Appello di Bologna n. 734 del 11 marzo 2014, con cui era stata dichiarata la nullità e l’inefficacia di alcuni contratti di finanza derivata stipulati con un Comune
È importante, sin d’ora, sottolineare che detti contratti (quantomeno quelli per i quali vi era un effettivo interesse dell’Ente alla loro caducazione) erano stati sottoscritti nel 2013 e quindi prima che gran parte della normativa in materia di “derivati” degli Enti pubblici prendesse corpo.
Occorre rilevare che le problematiche relative ai derivati degli Enti pubblici sono emerse all’inizio degli anni 2000 e si sono affievolite a seguito dei ripetuti interventi del legislatore, culminati con il decreto legge 25 giugno 2008, n. 112.
Continuano, però, tuttora a produrre i loro effetti i contratti stipulati prima delle misure di “contenimento” assunte dal legislatore, nella gran parte dei casi produttivi di ingenti differenziali negativi a carico delle Pubbliche Amministrazioni: ed è per queste ultime situazioni che la sentenza delle Sezioni Unite, intervenuta a dirimere “questioni di massima di particolare importanza” per gli interessi degli Enti pubblici – in particolare territoriali (e delle collettività da essa rappresentati) è destinata a produrre i suoi effetti pratici.
La pronuncia è, nel contempo, di estrema importanza anche sul piano teorico, in quanto rappresenta un fondamentale momento di verifica dei sempre controversi rapporti tra “diritto amministrativo” e “diritto privato” e tra autonomia negoziale e principio di legalità amministrativa
2. Gli swaps e i contratti derivati: l’assenza di una nozione normativa
Gli swaps, come i futures e le options sono contratti derivati (1).
I contratti derivati, sono contratti il cui valore “deriva” dall’andamento del valore di un’attività sottostante (cd. underlying asset) ovvero dal verificarsi nel futuro di un evento osservabile oggettivamente. I derivati sono contratti che insistono su elementi di altri schemi negoziali, quali titoli, valute, tassi di interesse, tassi di cambio, indici di borsa ecc. Il loro valore, dunque, varia in connessione all’andamento degli elementi sottostanti(2).
Sono strumenti utilizzati, principalmente, per finalità di copertura o anche di hedging: i derivati possono assolvere una funzione protettiva da uno specifico rischio di mercato; o per finalità speculativa: consiste nell’“acquisto” di un rischio al fine di trarne un profitto; o, ancora, finalità di arbitraggio: consiste nell’operazione diretta al conseguimento di un profitto tramite l’acquisto dei prodotti su un mercato e la rivendita su un altro.
Il legislatore italiano, sebbene abbia predisposto una disciplina dettagliata per i valori mobiliari (art. 1 comma 1-bis TUF) e per gli strumenti finanziari (art. 1 comma 2 TUF), non offre una definizione di contratti derivati ma si limita ad elencare determinati contratti, lasciando all’interprete il compito della reductio ad unum, laddove possibile.
Per quanto riguarda gli swaps, nel silenzio di una definizione normativa, occorre partire dal dato semantico. Il temine “swap“, dal punto di vista etimologico, deriva dal verbo inglese “to swap” che letteralmente si traduce “scambiare qualcosa con qualcos’altro”. Lo swap è infatti un contratto con il quale due controparti (A e B) si accordano per scambiarsi somme di denaro (più comunemente la differenza tra queste ultime) a date certe. I pagamenti possono essere espressi nella stessa valuta o in valute differenti ed il loro ammontare è determinato in relazione ad un sottostante. Gli swaps, inoltre, sono contratti OTC (over-the-counter) ovvero prodotti non negoziati sui mercati regolamentati: <<come per molti derivati, soprattutto quelli OTC, lo swap, […] non ha le caratteristiche intrinseche degli strumenti finanziari, e particolarmente non ha la cd. negoziabilità, cioè quella capacità di rappresentare una posizione contrattuale in forme idonee alla circolazione, in quanto esso tende a non divenire autonomo rispetto al negozio che lo ha generato. Inoltre, benché siano stipulati nell’ambito della prestazione del servizio di negoziazione per conto proprio, ex art. 23, comma 5, Tuf, nei derivati OTC l’intermediario stipula un contratto (con il cliente) ponendosi quale sua controparte>>.
3. Il contratto di interest rate swap: tra atipicità ed aleatorietà
Sia in giurisprudenza sia nella scienza giuridica è molto discussa la validità di questo contratto, che in epoca recente ha ottenuto una grande diffusione: la descritta dinamica di scambio tra le prestazioni future è stata impiegata in funzione della gestione di diversi rischi finanziari.
Innanzitutto, occorre porre a mente gli elementi fondamentali di un interest rate swap e che andranno definiti in sede di negoziazione del contratto. Secondo una recente e chiara pronuncia di merito, questi sono: 1) la data di stipulazione del contratto (trade date); 2) il capitale di riferimento, detto “nozionale” (notional principal amount), che non viene scambiato tra le parti, e serve unicamente per il calcolo degli interessi; 3) la data di inizio (effective date), dalla quale cominciano a maturare gli interessi (normalmente due giorni lavorativi dopo la trade date); 4) la data di scadenza (maturity date o termination date) del contratto; 5) le date di pagamento (payment dates), e cioè le date in cui vengono scambiati i flussi di interessi; 6) i diversi tassi di interesse (interest rate) da applicare al detto capitale.
Ai fini della presente ricerca è indifferente stabilire se le parti si siano vincolate al reciproco pagamento delle somme dei prodotti o se, invece, si siano accordate per la liquidazione della differenza tra la somma prodotta dall’applicazione dei diversi interessi rispetto ad un medesimo capitale. Ciò che conta è che le parti si siano accordate rispetto ad uno scambio di obbligazioni pecuniarie future determinate sulla base di un diverso tasso di interesse.
L’interest rate swap è tipicamente un derivato c.d. over the counter. Esso è quindi i) un contratto in cui gli aspetti fondamentali sono definiti dalle parti e il contenuto non è etero regolamentato (come, invece, accade per gli altri derivati, cd. standardizzati o uniformi); ii) uno strumento finanziario rispetto al quale «l’intermediario è sempre controparte diretta del proprio cliente». Il descritto schema negoziale – noto appunto come interest rate swap – è conosciuto dal nostro legislatore, che definisce il relativo contratto nei termini di uno strumento finanziario derivato complesso (art. 1, Tuf). Oltre a una tale indicazione, che ha l’effetto di inserire lo swap tra quegli strumenti finanziari il cui scopo primario non è la circolazione (appunto, i derivati), il legislatore non dice altro. Pertanto, in assenza di una disciplina specifica, l’interest rate swap è da considerarsi come un contratto (nominato ma) atipico. Questa caratteristica, come noto, di per sé non ne inficia la validità: «[u]na volta individuata l’intenzione comune delle parti del contratto, il passaggio successivo è la sussunzione del negozio in un paradigma disciplinatorio, si da apprezzarne l’aderenza (magari anche solo parziale e/o secondo schemi combinatori) con una fattispecie astratta, tra quelle preventivamente delineate dal legislatore oppure conformate dagli usi e dalle prassi commerciali, sebbene il contratto possa anche non coincidere affatto con il “tipo” e mantenere, come tale, la sua vocazione ad essere “legge tra le parti”, ove sia diretto a realizzare un interesse meritevole di tutela, ai sensi dell’art. 1322, secondo comma, cod. civ. In siffatta prospettiva, la qualificazione del contratto ha la funzione di stabilire quale sia la disciplina in concreto ad esso applicabile, con le relative conseguenze effettuali».
Ancora. Di tale accordo è riconosciuta la natura aleatoria, non senza eccezioni. La giurisprudenza, in particolare, muove in tal senso sulla base di due considerazioni. Innanzitutto, essa richiama le autorevoli definizioni costruite dalla Cassazione in tema di domestic currency swap e della Consulta in punto di contratti aventi ad oggetto strumenti finanziari derivati. Inoltre, la giurisprudenza in parola desume il carattere dell’aleatorietà dal dato normativo (l’art. 23 comma 5 del Tuf statuisce che «nell’ambito della prestazione dei servizi e attività di investimento, agli strumenti finanziari derivati nonché a quelli analoghi individuati ai sensi dell’articolo 18, comma 5, lettera a), non si applica l’articolo 1933 del codice civile»). L’esclusione dell’applicabilità dell’art. 1933 cc ha, infatti, senso nei limiti in cui il legislatore ritenga che la natura giuridica del derivato come scommessa autorizzata possa comportare l’applicazione della cd. eccezione di gioco. Peraltro, come reso evidente da questo passaggio normativo, l’aleatorietà dello swap nulla ha da dire in punto di validità dell’accordo di scambio concluso con un intermediario professionista, così che, attesa la sua natura aleatoria, un contratto di interest rate swap non possa essere risolto per eccessiva onerosità sopravvenuta.
Dunque, né l’atipicità né l’aleatorietà escludono la validità del contratto di interest rate swap. Ciò non di meno, almeno sinora, proprio a partire da queste caratteristiche la giurisprudenza ha ricostruito le coordinate in cui muove la efficacia del contratto di interest rate swap sottoscritto dal cliente con l’intermediario.
In particolare, verificando la meritevolezza dell’interesse (art. 1322 cc) sotteso allo specifico contratto atipico di interest rate swap, una parte della giurisprudenza di merito ha escluso che l’IRS che sia «insuscettibile di recare un apprezzabile pregiudizio a un contraente, esponendo viceversa – solamente – l’altro contraente al rischio di oscillazione dei mercati in misura notevole» possa superare il vaglio di meritevolezza che il diritto contrattuale generale richiede a condizione di validità dell’accordo atipico.
4. La tipizzazione dei contratti “derivati” degli Enti pubblici quale portato di una visione unitaria dell’ordinamento
La pronuncia delle Sezioni Unite riguarda un caso di contratti derivati stipulati da un Ente locale prima dell’entrata in vigore delle varie norme di “contenimento” introdotte dal legislatore ed il suo iter motivazionale si sviluppa intorno all’unica disciplina ratione temporis applicabile, rappresentata essenzialmente dall’art. 41 della legge n. 448 del 2001
Proprio per tale motivo, i principi affermati dalla S.C. assumono una particolare valenza di ordine sistematico, in quanto fondamentale momento di ripensamento o comunque di ricognizione dei rapporti tra “diritto amministrativo” e “diritto privato” dei contratti pubblici.
Quello che, invero, può essere subito notato è che l’intero scrutinio condotto dalla S.C. (cosi come d’altra parte, in precedenza, dalla Corte di Appello) sulla validità dei contratti è svolto assumendo come parametro di legalità fonti normative o comunque principi di diritto appartenenti a quella branca dell’ordinamento tradizionalmente definita di “diritto amministrativo”.
Ciò sul presupposto di una visione unitaria dell’ordinamento giuridico, in cui non vi è posto per una netta e rigida demarcazione tra i due rami dell’ordinamento.
Un tale modo di procedere può sembrare scontato, ma non lo è affatto.
Si consideri, invero, che in tutt’altra prospettiva si era mossa la sentenza di primo grado (poi riformata dalla Corte di Appello), secondo la quale la normativa generale sulla intermediazione finanziaria (d.lgs. 58 del 1998) sarebbe valsa ad attribuire a tutti gli “strumenti finanziari”, compreso quelli stipulati da Enti pubblici, un’autonomia funzionale dal punto di vista giuridico-economico, neppure minimamente intaccata dalle norme di rango pubblicistico .
Impostazione corretta dalla Corte d’Appello di Bologna, che, nel qualificare i contratti derivati sottoposti al suo esame, rimarcava che << non sussiste incompatibilità alcuna fra la normativa civilistica e quella amministrativa >> regolanti i derivati degli Enti pubblici, trattandosi di discipline destinate ad essere integrate reciprocamente.
L’idea sottesa è che la normativa privatistica e quella pubblicistica (utilizzando tali definizioni convenzionalmente, essendo noti i limiti descrittivi della distinzione) non sono monadi a sé stanti, ma operano in una logica di vasi comunicanti ed il fatto che i contratti derivati (nelle loro molteplici varianti) siano contemplati – e per certi aspetti disciplinati – dal D.Lgs. n. 58 del 1998 in materia di intermediazione finanziaria, non significa che essi non soggiacciano contemporaneamente alla concorrente disciplina di rango pubblicistico.
Ne vale la qualificazione giuridica dei suddetti contratti.
Invero, se il processo di qualificazione negoziale serve ad identificare il modello legale astratto di un contratto nel quale inquadrare quello in concreto stipulato, nella fattispecie dei derivati stipulati dagli Enti pubblici l’individuazione di tale modello deve considerare anche l’esistenza della normativa speciale di rango pubblicistico, attingendo ad entrambe le fonti dell’ordinamento (quelle per così dire privatistiche e quelle pubblicistiche).
Con la conclusione che i contratti derivati degli Enti Pubblici sono (a differenza di quelli tra privati) “contratti tipici”, la cui disciplina è contenuta in un corpus normativo composto in parte dalla normativa sulla intermediazione finanziaria ed in parte dalla disciplina pubblicistica avente carattere “speciale” (in quanto destinata a disciplinare l’attività contrattuale delle Pubblica amministrazione) e di sempre più marcata pervasività (in quanto destinata a disciplinare molteplici aspetti della suddetta attività contrattuale).
Conclusione pienamente accolta dalle Sezioni Unite, per le quali << ..bisogna concludere che le disposizioni normative passate in rassegna, che tali possibilità prevedevano, consentivano solo ciò che, normalmente, sarebbe stato vietato, con la conseguenza che dette previsioni erano anzitutto di natura eccezionale e di stretta interpretazione, avendo reso i derivati stipulati dalle pubbliche amministrazioni come contratti tipici, diversamente da quelli innominati conclusi dai privati (per quanto appartenenti all’amplissimo e medesimo genus). >>.
Il concetto è denso di implicazioni giuridiche, se si considerino i corollari derivanti dal controllo di conformità del contratto stipulato rispetto al modello legale tipico di riferimento, avuto riguardo ai suoi elementi essenziali.
5. I principi di diritto affermati nella sentenza: i requisiti che i contratti derivati devono avere per poter essere considerati validi ed efficaci ai sensi del Codice Civile
Esaurita la sezione introduttiva, le Sezioni Unite si sono più specificatamente soffermate sulle questioni di diritto rilevanti per il procedimento e hanno, conseguentemente, formulato tre principi di diritto.
A tale riguardo, dopo aver analizzato, ai fini del primo principio di diritto da esse affermato, i limiti entro cui gli enti locali dovevano considerarsi legittimati a concludere contratti derivati, analisi del tutto compilativa che si limita a statuire l’ovvio, e cioè che gli enti locali non potevano stipulare contratti puramente speculativi, successivamente, ai fini del secondo principio di diritto come anticipato, le Sezioni Unite si sono più specificatamente soffermate sui requisiti di diritto privato applicabili ai contratti derivati. E, dunque, sui requisiti che devono essere osservati affinché essi possano essere considerati validi ed efficaci, soprattutto in considerazione delle disposizioni del Codice Civile riguardanti gli elementi essenziali del contratto. E’ qui che la sentenza introduce principi sorprendenti, quasi rivoluzionari, senza peraltro nemmeno sviluppare in maniera completa il ragionamento che avrebbe dovuto sostenere tali conclusioni.
Le Sezioni Unite hanno fatto affidamento sui ben noti principi stabiliti da un filone della giurisprudenza di merito e riguardante la presunta connessione tra il mark to market iniziale di un contratto derivato (e la sua comunicazione da parte della banca) e la causa e/o l’oggetto del medesimo contratto derivato.
Tale giurisprudenza muove dall’assunto che il mark to market iniziale di un contratto derivato – ed in particolare la sua conoscenza da parte dell’investitore – avrebbe rilievo dirimente affinché il contratto derivato stesso possa considerarsi provvisto di causa o, in ogni caso, avere un oggetto determinato o determinabile.
Per quanto riguarda la “causa”, la giurisprudenza di merito che segue tale filone interpretativo sostiene che un contratto derivato debba considerarsi come una sorta di “scommessa” che, tuttavia, per poter essere meritevole di tutela da parte dell’ordinamento, deve avere carattere “razionale”, e cioè deve essere stipulata in termini tali da far sì che entrambe le parti siano in grado di comprendere le tipologie di rischi sottostanti al contratto e così di apprezzare pienamente la misura del rischio che stanno assumendo.
In questo senso, il valore di mercato (mark to market) (3) iniziale giocherebbe un ruolo fondamentale e, perciò, dovrebbe essere obbligatoriamente comunicato alla controparte non-finanziaria prima di concludere qualsiasi contratto derivato. In mancanza di una simile comunicazione, la scommessa non potrebbe infatti considerarsi razionale e il contratto interessato dovrebbe essere dichiarato nullo per mancanza di causa.
Secondo una teoria alternativa (ma che conduce, sostanzialmente, a risultati analoghi) il mark-to-market anderebbe invece ricollegato all’oggetto del contratto derivato. In particolare, in assenza di una effettiva comunicazione di tale valore, la controparte non-finanziaria non sarebbe in grado di determinare l’esatta estensione delle obbligazioni contrattuali da essa assunte, per cui il contratto sarebbe da considerarsi nullo per indeterminatezza o indeterminabilità dell’oggetto.
A nostro parere, il mark-to-market non ha niente a che vedere né con la causa, né con l’oggetto di un contratto derivato. Si tratta infatti del mero valore di mercato dello strumento finanziario, valore di mercato peraltro variabile nel tempo e dipendente dalle modalità di calcolo seguite, potendo di conseguenza essere diverso, nello stesso momento, a seconda dei metodi di calcolo utilizzati. Sostenere che il MtM sia un elemento essenziale del contratto derivato è di fatto assai simile a dire che nei contratti di compravendita immobiliari con società di real estate queste ultime abbiano l’obbligo a pena di nullità di indicare il valore di mercato dell’immobile compravenduto, o che le compagnie assicurative debbano indicare, sempre a pena di nullità del contratto, il valore di mercato della polizza rispetto al premio pagato. Assurdità che nessuno ha mai veramente sostenuto. Peraltro, anche se gli intermediari finanziari fossero di fatto tenuti a comunicare tale valore ai propri clienti[6], ogni eventuale omissione di tale comunicazione potrebbe al più essere qualificata come una violazione di un dovere informativo, passibile di dare adito ad un’azione per risarcimento danni e non certo alla nullità del contratto.
Per quanto ci consta, questa è anche la posizione che la Corte di Cassazione (anche tramite le sue Sezioni Unite) ha seguito prima della Sentenza. Le Sezioni Unite, infatti, hanno ripetutamente affermato (almeno dal 2007, tramite le ben note sentenze “gemelle”) che l’inosservanza di doveri informativi non può mai determinare l’invalidità di un contratto, a meno che l’invalidità stessa non sia prevista espressamente dalla legge. La Corte di Cassazione ha peraltro pronunciato anche alcune sentenze riguardanti i contratti derivati (che saranno meglio approfondite di seguito) e, per quanto ci risulta, non ha mai qualificato il mark-to-market come un elemento essenziale del contratto.
Del resto, contrarie alla decisione della Cassazione, vi sono alcune importantissime sentenze di organi di uguale autorevolezza. In particolare, si segnala il ben noto precedente del Consiglio di Stato sui derivati stipulati dalla Provincia di Pisa.
Ai fini di tale sentenza, il Consiglio di Stato ha categoricamente escluso che la mancata comunicazione, da parte della Banca interessata, del valore mark to market dei contratti derivati e dell’importo dei cosiddetti costi occulti potesse costituire una violazione di obblighi informativi effettivamente imposti dalla normativa applicabile.
E – infatti – secondo il Consiglio di Stato, quando i contratti di swap sottoposti al suo esame erano stati stipulati non sussisteva alcun obbligo giuridico in tal senso per gli intermediari finanziari. Il Consiglio di Stato, quindi, non ha rinvenuto “alcuna prova, neppure indiziaria, di un preteso comportamento scorretto, non diligente e poco trasparente, finalizzato a non servire al meglio l’interesse del cliente (ex art. 21 del D. Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, invocato dalla difesa dell’amministrazione), né può assumersi che le banche appellanti abbiano agito senza acquisire le informazioni necessarie dai clienti e senza operare in modo che essi fossero sempre adeguatamente informati, ciò essendo smentito dalle stesse peculiarità…degli swap stipulati, evidentemente calibrati sulle specifiche esigenze dell’amministrazione provinciale”.
Inoltre, con più specifico riguardo ai costi occulti, sempre il Consiglio di Stato ha affermato che “va notato che i cosiddetti “costi occulti” dello swap …. non rappresentano affatto un costo effettivo, vale a dire una somma effettivamente sostenuta dall’amministrazione provinciale, rappresentando soltanto il valore che lo swap avrebbe potuto avere in una astratta ed ipotetica (ma assolutamente irrealistica e non vera) contrattazione (contrattazione del resto che non sarebbe neppure giuridicamente possibile, essendo a tal fine necessaria evidentemente un’autorizzazione legislativa del tutto analoga a quella contenuta nell’art. 41 della legge 28 dicembre 2001, n. 448, che ha consentito la rinegoziazione dei mutui già contratti)”.
Il Consiglio di Stato ha inoltre rilevato che non potevano esistere simili obblighi informativi in capo alle banche, in quanto “il contratto [pur non indicando né il mtm iniziale né la scomposizione del “prezzo” n.d.r.] conteneva tutti gli elementi per poter quantificare il MtM a condizioni mid-market e consentire una consapevole valutazione dell’operazione, nonché richiedere alla banca le valutazioni interne fatte, il rischio di credito e le altre variabili al fine di aprire una eventuale fase negoziale sui parametri che la banca ha inserito nel calcolo del fair value”.
Le considerazioni del Consiglio di Stato di cui sopra sono chiaramente in contrasto con le affermazioni delle Sezioni Unite, ma – stranamente, anche considerata l’autorevolezza attribuita alle decisioni del Consiglio di Stato in generale e a quella qui commentata, in particolare – non sono neppure menzionate nella Sentenza.
Su questa base, non si può escludere che i giudici di merito, nell’affrontare gli stessi argomenti su cui si è espressa la sentenza, possano ritenere che i principi di diritto in essa enunciati vadano letti congiuntamente con la posizione opposta che è stata, tuttavia, espressa sul medesimo argomento dal Consiglio di Stato.
6. La necessità di condurre una valutazione caso per caso e in concreto
In ultimo, le Sezioni Unite indicano che, al fine di stabilire se gli enti locali abbiano o meno ricevuto informazioni adeguate per valutare pienamente i rischi dell’operazione (in modo tale da poter ritenere che il relativo contratto abbia una causa valida e/o un oggetto determinabile)(4), è necessario svolgere un’analisi caso per caso.
Su tale base, anche in mancanza delle informazioni specifiche a cui la Sentenza si riferisce (ad esempio, il valore mark to market, gli scenari probabilistici, i costi occulti), si può sostenere che la controparte interessata abbia, comunque, ricevuto (altre) informazioni idonee a consentirgli un’adeguata valutazione dei rischi. Ed infatti, dovendosi procedere, secondo quanto indicato dalla Sentenza, ad un’analisi “caso per caso”, ogni controversia potrebbe presentare un particolare contesto di fatto passibile di essere differenziato da quello che è stato preso in considerazione ai fini della Sentenza, così da consentire al tribunale investito dalla controversia di giungere a conclusioni differenti da quelle cui sono pervenute le Sezioni Unite sulla particolare fattispecie sottoposta al loro esame.
A questo proposito, a nostro avviso occorrerebbe, in particolare, analizzare le informazioni che sono state comunicate prima della stipula del contratto e, più specificatamente, valutare in che misura tali informazioni – anche in mancanza di indicazioni specifiche su MtM, costi occulti e scenari probabilistici – potevano consentire al destinatario interessato di valutare i possibili rischi derivanti dall’operazione.
A tal fine possono essere rilevanti anche le delibere assunte dagli enti interessati al fine di approvare la stipula di contratti derivati. In particolare, tali delibere potrebbero consentire di determinare in quale misura l’ente fosse in grado di comprendere – ed abbia effettivamente compreso tali rischi.
Si noti inoltre che la Sentenza omette di prendere in considerazione le differenze esistenti tra i clienti degli intermediari finanziari, in funzione della loro classificazione, quali clienti professionali o al dettaglio, classificazione che era, di contro, prevista tanto dalla normativa pre-MiFID che da quella post MiFID. Come infatti ben noto, tale classificazione era ed è, tuttora, espressamente finalizzata a determinare la competenza finanziaria e la capacità degli investitori di comprendere e sostenere i rischi di operazioni finanziarie e si traduce in un diverso livello di dettaglio degli obblighi informativi, a seconda delle esigenze di tutela di ogni specifico investitore.
A tale riguardo, si può concludere che qualsiasi analisi caso per caso da effettuarsi da parte del Tribunale competente circa il rispetto degli obblighi informativi asseritamente applicabili in relazione ai contratti derivati dovrebbe necessariamente tenere conto del fatto che gli enti locali/società che soddisfacevano i requisiti per essere identificati come clienti professionali dovevano essere trattati in modo diverso dai clienti al dettaglio.
I clienti professionali, infatti, (così come riconosciuto dalla normativa), dovrebbero presentare esigenze di tutela significativamente inferiori rispetto a quelle dei clienti al dettaglio; con la conseguenza che – procedendo come richiesto dalla Sentenza ad una valutazione, caso per caso – nel caso dei primi, un’informativa attenuata rispetto agli specifici elementi menzionati nella Sentenza potrebbe essere considerata pur sempre adeguata a far sì che detti clienti professionali, al tempo della stipula del contratto, fossero in grado di apprezzare i rischi concretamente discendenti dall’operazione.
7. Conclusioni
Le Sezioni Unite, in materia di contratti derivati, e di interest rate swaps in particolare, hanno fissato una serie di punti fermi circa la meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti.
Posto che la causa concreta degli strumenti finanziari derivati può essere di garanzia–copertura, oppure speculativa, o, ancora, di arbitraggio, secondo la Suprema Corte occorre che la parte
contraente debole, poiché non operante in un settore conosciuto, sia informata su ogni singolo contenuto dell’accordo, da parte del contraente forte, intermediario finanziario (c.d. asimmetria informativa).
Infatti, proprio dalla conoscenza dei caratteri del contratto, può evincersi la finalità dell’operazione economico–finanziaria.
Quando ciò non è comprensibile, si verifica una potenziale violazione del principio di meritevolezza, che può condurre alla declaratoria di nullità del contratto.
Il 1322 cod. civ. richiede che, con riferimento alla finalità di copertura, le operazioni vengano poste in essere al fine di ridurre la rischiosità di altre posizioni detenute dal cliente, e che vi sia elevata correlazione fra oggetto della copertura e strumento finanziario utilizzato.
Ove il rischio fosse accertato come irrazionale, il contratto derivato sarebbe nullo per difetto di meritevolezza.
Secondo le Sezioni Unite, il principio dell’obbligatorietà dell’indicazione dei futuri scenari probabilistici, a pena di nullità, risponde alle finalità di certezza della spesa pubblica e della finanza pubblica indicata in bilancio dall’Ente locale.
Note bibliografiche
(1) CAPRIGLIONE, F., Manuale di Diritto Bancario e Finanziario, CEDAM, ed 2019; GALGANO F., Diritto civile e commerciale. Le obbligazioni e i contratti, II, 1990, 462; ID., Voce Negozio giuridico (dottrine generali), in Enc. Dir., XXVII, Milano, 1977, 932 ss.; ID., Il negozio giuridico, in Tratt. dir. civ. comm., Cicu A. e Messineo F. (diretto da), Mengoni L. (continuato da), III, Milano, 1988.
(2) MORERA U., Contratti bancari (disciplina generale), in Banca, borsa e tit. cred., 2008, I; MUSIO A. Violazione degli obblighi di informazione tra regole di validità e regole di correttezza, 2010; NARDI S., Nullità del contratto e potere-dovere del giudice, in Riv. dir. civ., 2012, II NUZZO M., I contratti del consumatore tra legislazione speciale e disciplina generale dei contratti, in Rass. dir. Civ., 1998; PAGLIANTINI S., La rilevabilità officiosa della nullità secondo il canone delle Sezioni Unite “Eppur si muove”?, in I contratti, 11/2012; ID., Autonomia privata e divieto di convalida del contratto nullo, Torino, 2007; ID., Rilevabilità officiosa e risolubilità degli effetti: la doppia motivazione della Cassazione … a mò di bussola per rivedere Itaca, in I contratti 2/2015
(3) BONTEMPI, P., Manuale di Diritto Bancario e Finanziario, Giuffrè, ed 2019
(4) FRANZONI M., Il contratto annullabile, in A. Di Majo, G.B. Ferri e M. Franzoni (a cura di) Il contratto in generale in Tratt. Dir. Priv., Bressone, XIII, 7, Torino 2002; FRATINI, M., Il Sistema del Diritto Civile, Accademia del Diritto, ed. 2019; FREDA A., Riflessioni sulle c.d. nullità di protezione e sul potere-dovere di rilevazione officiosa, in Ricerche giuridiche 2/2/2013, Università Ca’ Foscari Venezia, in internet; GALGANO F., I contratti di investimento e gli ordini dell’investitore all’intermediario, in Contratto e Impresa, 2005, 889 ss.; ID, La categoria del contratto alle soglie del terzo millennio, in Contr. e impr., 2000, 924 ss.; ID., Simulazione, nullità, annullabilità, in Comm. cod. Civ., . Scialoja – Branca (diretto da), Bologna, 1998; ID., Diritto civile e commerciale. Le obbligazioni e i contratti, II, 1990, 462.; ID, Voce Negozio giuridico (dottrine generali), in Enc. Dir., XXVII, Milano, 1977, 932 ss.; ID., Il negozio giuridico, in Tratt. dir. civ. comm., Cicu A. e Messineo F. (diretto da), Mengoni L. (continuato da), III, Milano, 1988; GALLO P., Nullità e annullabilità in diritto comparato, in Dig. disc. priv. sez. civ., Torino, 1995, vol XII; GENTILI A., Nullità, annullabilità, inefficacia (nella prospettiva del diritto europeo), in Contratti, 2003; ID., Codice del consumo ed esprit de geometrie, in Contratti, 2006; ID., Le invalidità, in I contratti in generale, II, a cura di Gabrielli E.,Torino, 1998; ID., Le invalidità, in Tratt. Contratti, diretto da P. Rescigno, II, Torino 1999; ID., L’inefficacia delle clausole abusive, in Riv. dir. civ., 1997
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