Contratti di investimento: ancora le Sezioni Unite sulla questione della nullità selettiva

Contratti di investimento: ancora le Sezioni Unite sulla questione della nullità selettiva

Sommario: Introduzione – 1.  L’ordinanza della Cassazione, n. 23927 del 2 ottobre 2018 – 2. Nullità del contratto quadro monofirma esclusa dalle SU – 3. L’ammissibilità della c.d. nullità selettiva

Con la recente ordinanza interlocutoria n. 23927 del 2 ottobre scorso, la I Sezione della Corte Cassazione è tornata ad occuparsi di nullità nei contratti-quadro di investimento rimettendo la causa al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.

L’ordinanza riaccende l’attenzione su due problematiche che riguardano i contratti bancari: a) da un lato dà atto della soluzione raggiunta in tema di sottoscrizione da parte del solo investitore del contratto quadro, c.d. contratto monofirma; b) dall’altro rimette alle S.U. la valutazione in merito all’eventuale contrarietà a buona fede della c.d. nullità selettiva.

Operata una breve premessa sull’ordinanza in commento si ricorderà come il supremo consesso ha risolto la prima delle menzionate questioni e si esamineranno, poi, le principali problematiche attinenti alla seconda tematica nell’attesa della pronuncia della Suprema Corte.

1. L’ordinanza della Cassazione, n. 23927 del 2 ottobre 2018

Sulla scorta di una serie di contratti di investimento in obbligazioni argentine,  il cliente, una volta rilevata la nullità del contratto quadro per difetto di forma scritta, censurava non tutti, ma solo alcuni dei contratti di acquisto di prodotti finanziari attuativi del contratto quadro nullo.

La sezione rimettente si interroga proprio sulla correttezza di tale utilizzo dell’eccezione di nullità in modo c.d. “selettivo” ovvero limitato a quelle sole operazioni economicamente svantaggiose.

Premesso, infatti, che  l’invalidità prevista ex art. 23 d.lgs.n. 58 del 1998 fa parte delle c.d. nullità di protezione  – che possono essere fatte valere unicamente dalla parte a tutela della quale le norme sono previste– e che quindi certamente rientrava tra i poteri del cliente quello di censurare l’invalidità del contratto, vi è da chiedersi se un utilizzo artatamente selettivo di tale strumento costituisca una condotta non autorizzata, violativa del generale divieto di abuso del diritto[1].

La Sezione I dà atto della sussistenza di una duplice posizione della giurisprudenza in tema:

  • Una parte, più possibilista, ammette una censura dell’invalidità limitata ad alcuni ordini proprio sulla scorta del fatto che si tratta di una nullità di protezione :“muovendo dal rilievo secondo cui nel contratto di intermediazione finanziaria, la produzione in giudizio del modulo negoziale relativo al contratto quadro sottoscritto soltanto dall’investitore non soddisfa l’obbligo della forma scritta <ad substantiam>, imposto, a pena di nullità, dall’art. 23 del d.lgs.n.58 del 1998, questa Corte, occorrendo la sottoscrizione di entrambi i contraenti – è pervenuta alla conclusione che, trattandosi di una nullità di protezione, la stessa può essere eccepita dall’investitore anche limitatamente ad alcuni ordini di acquisto, a mezzo dei quali è stata data esecuzione al contratto viziato (Cass.,27/04/2016, n.8395);

  • Altra tesi nega tale modalità di rilevazione della nullità in ragione del fatto che presterebbe il fianco a comportamenti opportunistici dell’investitore: <L’esigenza di scongiurare uno sfruttamento “opportunistico” della normativa di tutela dell’investitore potrebbe portare la Corte, come suggerito da parte della dottrina, ad affermare la possibilità per l’intermediario di opporre exceptio doli generalis in tutte quelle ipotesi in cui il cliente (evidentemente in mala fede) proponga una domanda di nullità “selettiva”, cosicchè l’eccezione di dolo, concepito quale strumento volto ad ottenere la disapplicazione delle norme positive nei casi in cui la rigorosa applicazione delle stesse risulterebbe – in ragione di una condotta abusiva – sostanzialmente  iniqua, potrebbe in effetti rivelarsi un’utile arma di difesa contro il ricorso pretestuoso all’art. 23 menzionato> (cfr.Cass., 17/05/2017, nn 12388; 12389e 12390).

2. Nullità del contratto quadro monofirma esclusa dalle SU

Nell’ordinanza in commento la Suprema Corte ricorda le recenti pronunce rese a Sezioni Unite (cass.SS.UU.16/01/2018 n° 898 e cass.SS.UU.18/01/2018, n. 1200), con le quali il Supremo consesso  ha concluso per la validità del contratto quadro sottoscritto dal solo investitore e non anche dall’intermediario.

Le motivazioni che hanno spinto i giudici di legittimità a questa risoluzione trovano fondamento nell’analisi della ratio ispiratrice della norma di cui all’art. 23 T.U.F.. Tale ultima disposizione prevede un’ ipotesi di nullità per difetto di forma posta nell’interesse esclusivo del cliente, intesa ad assicurare a quest’ultimo una piena tutela di carattere informativo, in considerazione del fatto che l’investitore abbisogna di conoscere e all’occorrenza di poter verificare, nel corso del rapporto, il rispetto delle modalità di esecuzione e le regole che riguardano la vigenza del contratto.

Se questa è la ratio della norma è irrilevante la firma del delegato della banca sul contratto quadro. Infatti, nel caso specifico in cui l’accordo è siglato dall’investitore, una sua copia gli sia stata consegnata ed il contratto abbia avuto esecuzione, l’elemento strutturale della firma dell’intermediario sul modulo contrattuale da questi predisposto viene data per assunta, non svolgendo la sottoscrizione espressa alcuna specifica funzione di tutela.

Il principio enunciato dalle Sezioni Unite, seppur riferito precisamente all’ipotesi di contratto di intermediazione finanziaria, deve ritenersi applicabile anche ai contratti bancari, attesa la sostanziale identità di disciplina e di ratio di protezione del cliente.

3. L’ammissibilità della c.d. nullità selettiva

Per quanto riguarda la seconda questione, che negli effetti è quella demandata dall’ordinanza in commento all’analisi delle S.U., non resta che attendere maggiori chiarimenti da parte del Supremo Consesso.

Nel frattempo, il provvedimento in esame offre un interessante spunto per diverse notazioni.

Una prima, centrale, attiene al se la tutela fornita da una nullità di protezione, come quella prevista dall’art. 23 d.lgs.n. 58 del 1998, proprio perché configurata come tale, si spinga sino a giustificare comportamenti utilitaristici del cliente, oppure se tali condotte risultino violative del generale divieto di abuso del diritto.

La dottrina maggioritaria ritiene che l’origine della teorizzazione di questa peculiare categoria di invalidità sia da rinvenirsi nella concettualizzazione di una nuova tipologia di ordine pubblico, l’“ordine pubblico di protezione”. Rientrerebbero in tale ultima categoria tutte quelle norme che garantiscono non un interesse generale della collettività, ma unicamente le posizioni di determinate classi di soggetti che abbisognano di maggior protezione in ragione della loro vulnerabilità.

Se esigenze di tutela, collegate al generale parametro di solidarietà sancito all’art. 2 della Costituzione, giustificano l’elaborazione di una speciale modalità di rilevazione della nullità limitata ad alcuni soggetti, le medesime ragioni hanno spinto la giurisprudenza, nazionale[2] e sovranazionale[3] a teorizzare l’obbligo di non abusare di un diritto riconosciuto da una norma dell’ordinamento. Tali necessità devono dunque essere poste in correlazione.

Da un lato, infatti,la posizione di inferiorità di una delle parti, quella investitrice, dovuta sostanzialmente ad una carenza sul piano informativo, ha spinto l’introduzione di uno strumento finalizzato a presidiare, a posteriori, un effettivo equilibrio dell’assetto contrattuale.

Dall’altro lato, la sempre maggiore pregnanza che, in generale, ha assunto il criterio di buona fede nel nostro ordinamento ha imposto ad entrambe le parti del rapporto negoziale un condizionamento nelle modalità di esercizio del diritto alle finalità per le quali lo stesso è riconosciuto dal legislatore. Nell’ambito del nostro ordinamento nazionale, tale principio sembra desumibile dalla lettura da diverse disposizioni codicistiche, tra le quali in primo luogo rilevano l’art. 833 c.c. che vieta  gli atti emulativi e la clausola generale di buona fede e correttezza (1175 cc).

Sul punto, d’altronde, la migliore dottrina ha evidenziato che tale ultima norma avrebbe la specifica funzione di estendere o restringere una determinata subordinazione d’interesse quando non si dimostri conforme a solidarietà [Santoro Passarelli].

Dunque, un atto di esercizio del diritto che venga posto in essere al solo scopo di nuocere o recare molestia ad altri si colloca al di fuori del potere attribuito dall’ordinamento[4].

Vi è allora necessità di un bilanciamento tra l’esigenza di protezione del contraente debole e il generale principio del divieto di condotte abusive, equilibrio che, a parere di chi scrive, può essere trovato unicamente operando una valutazione complessiva dei rapporti intercorrenti tra le parti ed attribuendo rilevanza, nell’ambito dell’assetto negoziale, anche alla produzione di eventuali risultati ulteriori e diversi rispetto a quelli per i quali l’eccezione di nullità è concessa[5].

Non si può nascondere che ammettere un utilizzo selettivo dello strumento della nullità importa un ulteriore allontanamento della categoria dell’invalidità di protezione dalla configurazione generale dell’istituto prevista agli art. artt. 1418 ss. c.c., in quanto, come noto, un atto qualificato come nullo dal legislatore non può produrre per definizione nessun effetto né può determinare alcuna conseguenza nell’ambito dell’ordinamento giuridico.

Ebbene, già in conseguenza della legittimazione ristretta, il contratto, benché invalido, continua a produrre effetti fino a quando la parte interessata decida di far valere la nullità stessa.

Tuttavia, a voler seguire la tesi dell’uso selettivo dell’invalidità, resterebbe riservato ad una sola delle parti il potere stabilire non solo l’an, ma anche il quomodo della nullità, con la conseguenza di configurare così una disciplina sempre più vicina a quella dei vizi non essenziali della stipulazione.

Un secondo spunto di valutazione è costituito dalla considerazione che ammettendo la rilevabilità in modo selettivo dei vizi di nullità si finirebbe con il reintrodurre una posizione sperequata tra le parti, in quanto si offrirebbe la possibilità al cliente di trasferire sull’intermediario l’esito negativo derivante da uno o più investimenti non andati a buon fine.

La terza ed ultima tematica che si vuole segnalare è quella relativa alle modalità con le quali far valere l’eventuale comportamento abusivo dell’investitore.

Come noto, lo strumento d’elezione per censurare una violazione del divieto di abuso del diritto è l’exceptio doli generalils. La dottrina e la giurisprudenza fondano l’istituto in esame in parte nel  divieto di venire contra factum proprium, in parte nell’esigenza di negare tutela giuridica al soggetto che intende trarre vantaggio da un suo precedente comportamento scorretto. Si tratta, dunque, di un rimedio generale diretto a precludere l’esercizio fraudolento dei diritti paralizzando l’efficacia di un atto o giustificando la reiezione della domanda giudiziale fondata sul medesimo.

Ebbene, la S.C. con una recente pronuncia (Cass., 24/04/2018, n. 10116), citata nell’ordinanza in commento, ha negato l’opponibilità dell’eccezione di dolo generale fondata sull’uso selettivo della nullità da parte del cliente, in quanto l’eccezione sarebbe prospettabile solo in relazione ad un contratto quadro formalmente esistente e non anche quando lo stesso sia affetto da nullità per difetto della forma prescritta.

Spetterebbe, allora, all’intermediario e all’investitore il diritto di ripetere l’uno nei confronti dell’altro le reciproche prestazioni:“allorché singole operazioni di investimento abbiano avuto  esecuzione in mancanza di un  valido contratto quadro, previsto dall’art. 23 d.lgs.n. 58 del 1998, all’investitore che chiede la declaratoria di nullità solo per alcune di esse, non sono opponibili l’eccezione di dolo geniale fondata sull’uso selettivo della nullità e, in ragione della protrazione nel tempo del rapporto, ‘intervenuta sanatoria del negozio nullo per rinuncia a valersi della nullità o per convalida di esso. L’una e l’altra sono, per vero, prospettabili solo in relazione ad un contratto quadro formalmente  esistente, e non anche quando questo sia affetto da nullità per difetto della forma prescritta. Per effetto della nullità del contratto di investimento, i cui effetti per i principi regolanti le nullità del contratto di investimento, i cui effetti per i principi regolanti le nullità negoziali si estendono al negozio di acquisto effettuato dall’intermediario per dare esecuzione all’ordine ricevuto, l’intermediario e l’investitore hanno, pertanto, il diritto di ripetere l’uno nei confronti dell’altro le reciproche prestazioni. Sicchè è legittimamente dichiarata la compensazione tra la somma che l’investitore abbia corrisposto all’intermediario ai fini dell’investimento e la somma che l’intermediario abbia riscosso per conto dell’investitore, ed abbia corrisposto al medesimo a titolo di frutti civili”.

Così illustrate brevemente le principali problematiche suggerite dall’ordinanza in esame ed evidenziate le criticità che determinerebbe il voler ammettere un uso selettivo della nullità, non resta che attendere chiarimenti da parte dei giudici di legittimità nella loro massima composizione.


[1] Così autorevole dottrina definisce il divieto di abuso del diritto:“La tutela accordata dal diritto soggettivo è potenzialmente senza limiti, salvo il dovere di non abusarne, secondo una valutazione non già astratta, come quella riferita all’illiceità, ma concreta, che tiene conto delle circostanze.
Il principio del divieto di abusare del proprio diritto è storicamente condizionato e non è stato espressamente codificato, ma può desumersi dall’art. 2 Cost. sul dovere di solidarietà, come limite interno di ogni situazione giuridica soggettiva […]” F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Edizioni Scientifiche Italiane, 2013, p. 57
[2] Basti ricordare in tema il noto dibattito in merito alla possibilità di richiedere in via giudiziale l’adempimento frazionato di una prestazione originariamente unica, risolto dalla S.C. con la famosa pronuncia Cass.,Sez.Un.n. 108/2000 che reca quale principio di diritto:  “le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, anche se relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti, possono essere proposte in separati processi; se tuttavia i suddetti diritti di credito, oltre a far capo ad un medesimo rapporto di durata tra le stesse parti, sono anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o comunque fondati sul medesimo fatto costitutivo – sì da non poter essere accertati separatamente se non a costo di una duplicazione di attività istruttoria e di una conseguente dispersione della conoscenza di una  medesima vicenda sostanziale-, le relative domande possono essere proposte in separati giudizi solo se risulta in capo al creditore agente un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata. Ove la necessità di siffatto interesse (e la relativa mancanza) non siano state dedotte dal convenuto, il giudice che intenda farne oggetto di rilievo dovrà indicare la relativa questione ai sensi dell’art. 183 c.p.c. e, se del caso, riservare la decisione assegnando alle parti termine per memorie ai sensi dell’art. 101 comma 2 c.p.c.
[3] In ambito sovranazionale si può citare la nota sentenza Halifax e University of Huddersfield (sentenze della Corte dei giustizia nelle cause C- 255/02, C-419/02 e C- 223/03) nelle quali la giurisprudenza comunitaria – chiamata ad interpretare la sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, in materia dii armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla volume – ha precisato che i soggetti di diritto non possono avvalersi abusivamente del diritto comunitario.
[4]L’abuso del diritto si ravvisa quando il titolare del diritto può esercitarlo secondo una pluralità di modalità attuative non rigidamente preordinate, ma sceglie quella che dà luogo ad una sproporzione non inevitabile tra il proprio beneficio e il sacrificio cui è soggetta l’altra parte. L’abuso è palese quando l’esercizio sproporzionato del diritto mira a conseguire obiettivi diversi e ulteriori rispetto a quelli indicati dalla norma che quel diritto prevede” F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Edizioni Scientifiche Italiane, 2013, p. 57 .
[5] Sul punto è necessario menzionare l’importante arresto in tema di recesso della Cass. Civ. Sez. II, 18 settembre 2009 n. 20106 ”si ha abuso del diritto quando il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato e ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali i poteri o facoltà furono attribuiti. Ricorrendo tali presupposti, è consentito al giudice di merito sindacare dichiarare inefficaci gli atti compiti in violazione del divieto di abuso del diritto, oppure condannare colui il quale ha abusato del proprio diritto al risarcimento del danno in favore della controparte contrattuale, a prescindere dall’esistenza di una specifica volontà  di nuocere, senza che ciò costituisca una ingerenza nelle scelte economiche dell’individuo o dell’imprenditore, giacchè ciò che è censurato in tal caso non è l’atto di autonomia negoziale, ma l’abuso di esso”.

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