Conviventi more uxorio e art. 384 c.p.: le Sezioni Unite si pronunciano

Conviventi more uxorio e art. 384 c.p.: le Sezioni Unite si pronunciano

Le Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione (sentenza n. 10381/2021) si sono occupate recentemente di una questione di particolare rilievo, attinente all’ambito applicativo del primo comma dell’art. 384 c.p., che prevede una causa di non punibilità in relazione a una serie di delitti contro l’amministrazione della giustizia (ivi espressamente elencati) ove l’agente abbia commesso il fatto “per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore”.

Il punto controverso concerne la possibilità di estendere tale disposizione anche ai conviventi di fatto, atteso che nella definizione di “prossimo congiunto” agli effetti della legge penale (cfr. art. 307 c.p.), peraltro riformata dopo la c.d. “Legge Cirinnà” del 2016 con l’aggiunta dei soggetti uniti civilmente, continua a non esservi alcun riferimento nei riguardi di siffatti modelli relazionali.

A tal riguardo si sono confrontati due orientamenti: l’uno maggioritario e nettamente contrario al riconoscimento di tale estensione; l’altro, più recente, di segno invece favorevole.

L’orientamento negativo attribuisce rilievo determinante proprio al fatto che nel novero dei “prossimi congiunti” individuati dall’art. 307 c.p., disposizione espressamente richiamata dall’art. 384 c.p., i conviventi di fatto non figurano. In secondo luogo, facendo leva sulla giurisprudenza costituzionale, si esclude la possibilità di assimilare i rapporti di fatto ai rapporti coniugali, in ragione della differente fisionomia che contraddistingue tali modelli familiari, essendo le convivenze connotate da un’affectio revocabile in qualunque momento, laddove il matrimonio è caratterizzato dalla stabilità e dalla sussistenza di scambievoli diritti e doveri; diverso è invero anche il fondamento costituzionale sotteso a tali rapporti: i primi rinvengono implicita copertura nell’art. 2, ossia nell’alveo delle formazioni sociali ove si esplica la personalità dell’individuo, mentre i secondi trovano espresso fondamento nell’art. 29. L’orientamento contrario all’equiparazione sul piano esegetico del convivente more uxorio al coniuge ai fini dell’operatività del primo comma dell’art. 384 c.p., valorizza poi la natura eccezionale della predetta norma, di guisa da escluderne la possibilità di interpretazione analogica, giusta il disposto dell’art. 14 delle Preleggi. Ulteriore argomento a sostegno dell’inapplicabilità di tale disposizione al convivente more uxorio è infine individuato nel fatto che la recente “Legge Cirinnà” ha modificato, per quel che qui rileva, la definizione dei  “prossimi congiunti agli effetti della legge penale ex art. 307 c.p.”, includendovi “la parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso” ma non anche i conviventi di fatto. Un simile silenzio è dunque significativo, essendo frutto non di una semplice svista, bensì di una presa di posizione del legislatore che ubi voluit dixit ubi noluit tacuit.

L’orientamento favorevole all’estensione della causa di non punibilità di cui all’art. 384 primo comma c.p. anche ai conviventi more uxorio si fonda invece su una lettura “ampia” del concetto di famiglia, il cui volto è certamente assai mutato rispetto al contesto storico nel quale è stato emanato il codice penale. Pur senza mettere  in discussione il carattere eccezionale dell’art. 384 c.p., si evidenzia che la nozione moderna di famiglia postula un consorzio di individui i quali, in virtù di strette relazioni e consuetudini di vita intrattengono rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile lasso temporale. A ulteriore conforto si suole richiamare inoltre la nozione di famiglia accolta dall’art.8 Cedu, così come interpretata dalla Corte di Strasburgo, che suole farvi rientrare anche i rapporti di fatto  fondati su una convivenza stabile. Si pone inoltre in risalto  la contraddizione insita nell’orientamento negativo che sostiene l’inammissibilità dell’equiparazione tra coniugio e convivenza ai fini dell’applicazione di una causa di non punibilità, ma nel contempo attribuisce rilievo alla convivenza allorché da ciò derivino effetti giuridici in malam partem: l’esempio è offerto dal reato di maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p., a proposito del quale la giurisprudenza è pacifica nel riconoscere che la condotta delittuosa possa essere realizzata anche ai danni del convivente. In ordine poi alla mancata modifica della definizione dei prossimi congiunti agli effetti penali, l’orientamento favorevole osserva che il silenzio serbato sul punto dal legislatore non ha valore dirimente e non osta pertanto a un’interpretazione estensiva dell’ambito applicativo dell’art. 384 c.p., alla luce della complessa evoluzione storico-normativa che ha interessato lo stesso concetto di famiglia.

Richiamate le argomentazioni principali espresse dai due orientamenti, giova ora soffermarsi sulla soluzione elaborata dalle Sezioni Unite.

Il Supremo Collegio ricorda che la questione attinente all’ambito applicativo dell’art. 384 c.p. primo comma sottende la mancata parificazione nel nostro ordinamento, tra la convivenza more uxorio e la famiglia fondata sul matrimonio. È indubbio che entrambe condividano la scelta di un percorso di vita comune basato sull’affectio, la stabilità, la responsabilità e la cura dell’eventuale prole; la differenza si coglie nondimeno sul piano della formalizzazione del rapporto, atteso che il vincolo coniugale viene esteriorizzato attraverso un’espressa manifestazione di volontà relativa all’assunzione di reciproci obblighi di fedeltà e di assistenza morale e materiale, laddove nel rapporto di fatto vi è una spontanea scelta revocabile in qualunque momento.

Orbene le pronunce favorevoli all’estensione del primo comma dell’art. 384 c.p. sono solite richiamare, tra i vari argomenti,  la giurisprudenza della Corte di Strasburgo in merito alla nozione di famiglia ex art. 8 Cedu,  ma le Sezioni Unite hanno modo di osservare che in fondo tale prospettiva non conduce a significative divergenze rispetto al sistema normativo costituzionale. Difatti sia a livello convenzionale sia a livello interno sono pienamente riconosciuti i diritti dei singoli che nascono e si sviluppano in un nucleo familiare, fermo restando la possibilità per il legislatore di apprestare trattamenti differenziati in virtù delle diversità nonché delle peculiarità dei vari modelli relazionali familiari. In sostanza il fatto che le convivenze abbiano pari dignità rispetto ai rapporti matrimoniali non implica una totale equiparazione dei due modelli, che restano comunque ragionevolmente distinti.

Quanto al valore da attribuire al silenzio del legislatore in merito all’inclusione dei conviventi di fatto nella definizione dei prossimi congiunti agli effetti penali, le Sezioni Unite concordano con l’orientamento favorevole, rilevando in effetti come una simile omissione non tradisca necessariamente un’implicita contrarietà del legislatore alla possibilità di riconoscere diritti in favore del convivente more uxorio né tantomeno, ed è ciò che in questa sede maggiormente rileva, osta all’operatività dell’art. 384 c.p.

La “Legge Cirinnà” è sorta per regolamentare le unioni civili tra persone dello stesso sesso e nulla ha previsto per le coppie conviventi, ad eccezione di una serie di profili specifici, ma la mancanza di una disciplina organica non depriva i rapporti di fatto né di tutele né di effetti giuridici e di ciò abbondano esempi sia nel campo civile sia nel campo penale.

Basti pensare al delicato settore della filiazione, ove si è ormai giunti a una piena sovrapposizione tra la famiglia naturale e quella matrimoniale, dal momento che la legge riconosce finalmente lo status unico di “filiazione” senza più distinzioni di sorta; o si pensi ancora all’ammissione delle coppie non coniugate alle tecniche di procreazione assistita o, in tema di responsabilità civile, al riconoscimento pretorio del risarcimento del danno da “uccisione” del convivente.

Sotto il profilo penale si rammenta, a titolo esemplificativo, l’evoluzione giurisprudenziale attinente ai presupposti di configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia, dacché si considera tale non solo quella fondata sul vincolo coniugale ma anche quella di fatto connotata da un rapporto stabile.

Ebbene, malgrado difetti una visione di sistema, l’ordinamento pare muoversi attraverso interventi mirati e multiformi, nell’esigenza di preservare le strutture e gli istituti fondamentali della società,  esaltando nel contempo le forme di tutela poste a garanzia delle convivenze di fatto.

Se dunque la “Legge Cirinnà” non osta di per sé a un’interpretazione estensiva dell’art. 384 primo comma c.p., occorre soffermarsi proprio sulla natura di tale disposizione.

Ed invero, se questa fosse realmente una norma di carattere eccezionale, come persino lo stesso orientamento favorevole sembra riconoscere, non vi sarebbe spazio per l’interpretazione analogica, a pena di violare, altrimenti, il già menzionato art. 14 delle Preleggi.

Il punto tuttavia è proprio questo: ad avviso delle Sezioni Unite tale norma non presenta carattere eccezionale.

Nonostante nella rubrica dell’art. 384 c.p. figuri il termine “casi di non punibilità”, è ormai superato l’orientamento che ritiene che tale disposizione rechi una “causa di non punibilità in senso stretto” o secondo altra terminologia “esimente”; non persuade nemmeno quell’orientamento, più risalente, che vi intravede invece una causa di giustificazione. Ben più rispettosa della fisionomia dell’istituto è quella tesi, sostenuta da attenta dottrina, atta a inquadrare la previsione in analisi nel novero delle scusanti o  delle cause di esclusione della colpevolezza che dir si voglia.

Rientrano in tale categoria quelle ipotesi in cui l’agente, pur avendo realizzato un fatto tipico e antigiuridico non soggiace a pena poiché non è rimproverabile, dato che la sua condotta è stata influenzata da circostanze del tutto peculiari le quali hanno impedito una diversa azione.

Pertanto non viene un rilievo un bilanciamento tra contrapposti interessi che conduce all’esclusione dell’antigiuridicità del fatto come avviene nelle cause di giustificazione; d’altro canto non vi è nemmeno un fatto tipico, antigiuridico e colpevole dinanzi al quale la legge non commina la pena per ragioni di opportunità, così come accade nelle cause di esclusione della punibilità in senso stretto.

Le scusanti escludono la colpevolezza del soggetto in quanto l’ordinamento riconosce che nelle condizioni in cui costui si è trovato non era esigibile una condotta diversa.

Riconosciuta dunque la natura di scusante dell’istituto contemplato dall’art. 384 c.p., ci si interroga sulla possibilità di applicarlo analogicamente.

Ebbene si ricorda che il divieto di analogia, diretto corollario dell’art. 25 comma 2 Cost., non conosce, per pacifica giurisprudenza, carattere assoluto in materia penale: giacché è posto a presidio più che della certezza del diritto della libertà del consociato, la sua portata concerne solo gli effetti in malam partem essendo ammissibile un intervento in bonam partem.

Il carattere relativo del divieto di analogia si confronta comunque con il disposto dell’art. 14 Preleggi che vieta l’interpretazione analogica delle norme eccezionali.

È indubbio che le cause di non punibilità in senso stretto siano norme eccezionali e conseguentemente non vi sono margini per l’analogia; né la cause di giustificazione né le scusanti rivestono invece tale carattere, indi ne è ben possibile un’interpretazione analogica in bonam partem.

Dal momento che l’art. 384 c.p. integra una scusante ostando alla punizione di una condotta che viene percepita come inesigibile e non apporta alcuna deroga alle norme ordinarie, essendo anzi essa stessa espressione di principi generali, quali il nemo tenetur se detegere o ad impossibilia nemo tenetur, non vi è dunque alcun impedimento a una sua applicazione analogica al convivente more uxorio.

Simile soluzione, pertanto, oltre a essere suffragata da un complesso quadro normativo e giurisprudenziale teso a offrire tutele ai rapporti di fatto, è vieppiù corroborata dalla stessa struttura nonché dalla funzione dell’art. 384 c.p.

Ed invero, la situazione soggettiva di una persona che commette uno dei reati contro l’amministrazione della giustizia richiamati da tale disposizione, presuppone una drammatica alternativa tra l’adempimento di un dovere penalmente sanzionato e la salvaguardia dei propri affetti: se così è il medesimo conflitto psicologico si profila sia che si tratti di persone coniugate sia che si tratti di conviventi di fatto.

Il discrimine non può fondarsi sulla circostanza che l’unione di due persone sia fondata o meno sul vincolo coniugale: il coinvolgimento psicologico dell’agente ne vulnera il processo motivazionale e quindi la colpevolezza e ciò, si ripete, a prescindere dal fatto che i soggetti coinvolti siano coniugati o conviventi di fatto.

Da qui la conclusione delle Sezioni Unite con l’enunciazione del seguente principio di diritto: “l’art. 384 c.p. in quanto causa di esclusione della colpevolezza è applicabile analogicamente anche a chi ha commesso uno dei reati ivi indicati, per esservi stato costretto dalla necessità di salvare il convivente more uxorio da un grave e inevitabile nocumento nella libertà e nell’onore”.


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