Convivenze di fatto: il “diritto di abitazione” del convivente superstite e profili di criticità
La Legge 76/2016 (legge Cirinnà) ha finalmente riconosciuto, a seguito di un’evoluzione giurisprudenziale e legislativa legata all’ineluttabile cambiamento dei costumi della società moderna, la convivenza di fatto tra due persone, di sesso diverso o dello stesso sesso, che, ai sensi dell’art. 1 comma 36 L. 76/2016, sono “unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolati da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”.
Con la summenzionata legge, trovano disciplina quelle situazioni in cui una coppia “stabile” decida di non sposarsi o di non unirsi civilmente che, prima della Legge Cirinnà, erano sprovviste di qualsiasi tutela.
Tra queste tutele vi è quella indicata all’art. 1, comma 42, che prevede, per il convivente superstite – fatto salvo l’art. 337 sexies c.c – in caso di morte del convivente proprietario della casa di comune residenza, il diritto di continuare ad abitare nella stessa, per un periodo di tempo tra un minimo di due anni ed un massimo di cinque (tranne nei casi in cui nell’abitazione coabitino figli minori o disabili del convivente superstite ed, in tal caso, il diritto si protrae per un tempo non inferiore a tre anni).
Le problematiche riguardanti questo diritto risiedono nella sua qualificazione giuridica e, come vedremo, nella conseguente impossibilità di tutela dello stesso.
La Suprema Corte, con la sentenza n. 10377/2017, per qualificare il diritto ex art. 1, comma 42, L. 76/2016 aveva seguito un ragionamento che distingueva due situazioni differenti:
– la prima prendeva in considerazione l’ipotesi in cui il convivente proprietario dell’immobile fosse ancora in vita. In questo caso “..la convivenza more uxorio quale formazione sociale che dà vita ad un autentico consorzio familiare” avrebbe determinato un potere di fatto, sulla casa di comune residenza, basato su un interesse proprio del convivente, “..tale da assumere i connotati tipici di una detenzione qualificata, che ha titolo in un negozio giuridico di tipo familiare”;
– la seconda si riferiva al momento del decesso del convivente proprietario. In questo caso, secondo la Cassazione, con la cessazione della convivenza, si sarebbe estinto anche il diritto avente oggetto la detenzione qualificata dell’immobile. A questo punto la tutela del convivente superstite, a fronte della pretesa degli aventi causa del de cuis, non sarebbe stata concessa sulla scorta di un diritto precedente o sopravvenuto, ma dal canone di buona fede e correttezza che impone all’erede di concedere un tempo congruo per trovarsi una nuova sistemazione abitativa.
Quanto stabilito dalla Suprema Corte è, tuttavia, risultato essere in contrasto con l’art. 1, comma 42, L. 76/2016, dove viene sottolineata una sorta di continuum (si parla appunto di “diritto di continuare ad abitare” nella casa di comune residenza) senza, però, specificare se ci si trovi di fronte ad un diritto già maturato in corso di convivenza, o se sia l’attribuzione di un nuovo e diverso diritto.
Si è ipotizzato, dunque, che, anche il diritto di abitazione del convivente superstite, potesse essere un diritto reale ex art. 1022 c.c., data l’evidente similarità del predetto istituto rispetto a quello disciplinato dall’art. 540 comma 2 c.c. dettato in tema di successioni ed in particolare riguardante la “Riserva a favore del coniuge”, a cui sono, appunto, riservati i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare, se di proprietà del coniuge defunto.
Tuttavia, questo diritto riconosciuto al convivente superstite, a differenza del diritto di abitazione del coniuge superstite ex art. 540, comma 2 c.c., non sembra possa rientrare nell’alveo dei diritti reali, per tre ordini di ragioni.
La prima si può rinvenire da una lettura sistematica della legge 76/2016 la quale, ogni volta in cui è necessario e vi è uguale disciplina, opera un espresso rinvio al codice civile (come, ad esempio, per il regime patrimoniale della comunione dei beni disciplinato all’art. 1, comma 53, lett. C, in cui vi è un espresso rinvio alla sezione III del capo IV del titolo VI del I libro del Codice Civile). Nel caso del diritto considerato, invece, non vi è nessun riferimento e nessun rinvio agli artt. 540 comma 2 c.c. e 1022 c.c.
La seconda ragione, invece, si può riscontrare da un’analisi letterale e lessicale della normativa. Nella prima stesura del testo di legge, la locuzione utilizzata era “diritto di abitazione”, quindi con un chiaro richiamo al diritto spettante al coniuge superstite ex art. 540, comma 2 c.c., poi sostituita, in sede di approvazione del testo definitivo, con “diritto di continuare ad abitare”. Questo cambiamento terminologico è frutto di un volontario allontanamento, da parte del legislatore, di riconoscere il diritto di abitazione del convivente superstite come diritto reale.
Il terzo motivo deriva da un’analisi comparatistica tra i due istituti: infatti mentre l’art. 540, comma 2 si riferisce ad un legato vitalizio ex lege, l’art. 1 comma 42 L. 76/2016 individua un termine finale ben preciso per il godimento dell’immobile adibito a comune residenza.
Per i summenzionati motivi, appare evidente come il diritto di abitazione del convivente superstite non possa essere considerato un diritto reale.
La dottrina si è orientata a ritenere quel diritto come un’obbligazione, ovvero un diritto personale di godimento.
Ed è proprio arrivando a questa conclusione che si pone il problema della qualificazione giuridica del diritto abitativo del convivente superstite.
Infatti, ammettendo che questo diritto sia un diritto personale di godimento, il convivente superstite, per poterlo opporre ai terzi aventi causa del de cuius, avrebbe interesse a trascrivere il suo diritto.
Il problema è che la L. 76/2016 pur riconoscendo “in astratto” il diritto di cui all’art. 1, comma 42 L. 76/2016, non spiega come questo possa opporsi ai terzi e non vi è alcuna norma che preveda la trascrizione dello stesso.
Si è ipotizzato, proprio ai fini trascrittivi, una parificazione del suddetto diritto con quello del locatario, con conseguente applicazione dell’art. 1599 c.c. (Trasferimento a titolo particolare della cosa locata).
Tuttavia, la Suprema Corte con la pronuncia n. 664/2016 ha evidenziato che le “disposizioni dell’articolo 1599 c.c., non sono estensibili, per il loro carattere eccezionale, a rapporti diversi dalla locazione”.
Ammettendo dunque queste conclusioni, viene da chiedersi come questo diritto possa essere tutelato nel caso in cui, ad esempio, i successori del convivente defunto (come i figli del de cuius legati da un rapporto conflittuale con la convivente superstite) vogliano vendere l’immobile che era di comune residenza.
In questo caso, infatti, per rendere il suo diritto opponibile ai successori, il convivente superstite avrebbe interesse a far trascrivere il suo diritto, ma, mancando questa possibilità, la sua posizione finirebbe per rimanere senza tutela.
Alla luce del cambiamento operato dal legislatore in sede di approvazione del testo definitivo (come detto, prima si parlava di “diritto di abitazione”, poi sostituito dalla locuzione “diritto di continuare ad abitare”), appare evidente che questa non sia stata una svista, ma una scelta oculata e volontaria per mettere in risalto le differenze tra la tutela riservata al coniuge superstite ex art. 540, comma 2 c.c. e quella riservata al convivente superstite.
Probabilmente, il legislatore non si era reso conto che, così facendo, avrebbe azzerato la tutela del convivente di fatto superstite, che si sarebbe proprio dovuta garantire con la stessa Legge Cirinnà.
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Filippo Sguotti
Dott. Filippo Sguotti, laureato all'Università degli Studi di Padova in Giurisprudenza, praticante avvocato e mediatore civile e commerciale ex D.Lgs. 28/2010