Coronavirus, causalità psichica e colpa: rilevanza penale dei messaggi troppo tranquillizzanti?
Sommario: 1. Coronavirus e diffusione di messaggi tranquillizzanti – 1.1. La rilevanza penale della condotta di diffusione di informazioni eccessivamente rassicuranti: il caso Grandi Rischi – 2. Elemento oggettivo: la causalità psichica e il relativo criterio di accertamento – 2.1. Concorso di cause: il contagio può essere derivato da una causa sopravvenuta alla condotta informativa e da sola sufficiente a determinarlo – 3. Elemento soggettivo: l’accertamento della colpa – 3.1. Il 1° requisito: la mancanza di volontà dell’evento – 3.2. Il 2° requisito: la violazione della regola cautelare – 3.3. Il 3° requisito: la concretizzazione del rischio – 3.4. Il 4° requisito: la prevedibilità dell’evento – 3.5. Il 5° requisito: la evitabilità dell’evento – 4. Conclusioni
1. Il coronavirus e la diffusione di messaggi tranquillizzanti
Dai primi mesi di quest’anno l’Italia è stata costretta ad affrontare quella che poi si sarebbe rivelata una pandemia.
Sulla base dei dati forniti dal Ministero della Salute, il nuovo coronavirus SARS-CoV-2 “è un nuovo ceppo di coronavirus che non è stato precedentemente mai identificato nell’uomo“.
Con l’acronimo COVID-19, invece, si indica la malattia provocata da tale agente patogeno (dove “CO” sta per corona, “VI” per virus, “D” per disease e “19” indica l’anno in cui si è manifestata).
Sul versante delle cure, il Ministero della Salute riferisce che allo stato attuale non esiste ancora un trattamento specifico1.
Il propagarsi di un nuovo virus e di una nuova patologia ha ingenerato un’ingente diffusione di notizie, soprattutto tramite radiotelevisione, stampa e internet. Mediante questi canali, infatti, si sono tentati di chiarire i pericoli per la salute, le modalità di contagio e le cautele da adottare per evitare di contrarre il nuovo virus. Le principali figure a cui i media si sono rivolti per ottenere tali delucidazioni appaiono riconducibili in due macro-categorie.
La prima è composta dai soggetti appartenenti alle istituzioni, il cui ruolo pubblicistico rende inevitabile la comunicazione verso i cittadini.
La seconda categoria invece include coloro che hanno conoscenze mediche e che per tale ragione ricoprono una funzione essenziale nella gestione della pandemia.
Nonostante la diversità delle mansioni, le dichiarazioni rilasciate dai soggetti citati risultano accomunate dalla capacità di incidere sui comportamenti dei destinatari, condizionandone le scelte. Ciò in forza della posizione qualificata dell’autore, che attribuisce credibilità al messaggio diffuso.
Coerentemente, risulta che oltre otto italiani su dieci si informino sulla pandemia in corso tramite notiziari, canali web istituzionali e stampa, ossia con mezzi di comunicazione di massa2.
Volendo identificare i messaggi che più di altri appaiono idonei a influenzare il comportamento altrui, si possono individuare quelli di tipo rassicurante, ossia capaci di infondere tranquillità, fiducia o comunque a liberare dal timore. Si pensi all’intervista televisiva o all’articolo di stampa riportanti le dichiarazioni di un soggetto politico o di un sanitario, che riferiscano l’assenza di un concreto pericolo di contagio o l’assenza di pericoli per la salute, oppure che equiparino l’insorgenza della nuova patologia con quella di una malattia che l’opinione pubblica considera non pericolosa.
Messaggi di questo tipo hanno il pregio di evitare l’insorgenza del panico e dei relativi effetti che questo può determinare sull’ordine e incolumità pubblici.
Nello stesso tempo, tuttavia, il contenimento del timore non giustifica la diffusione di messaggi eccessivamente tranquillizzanti, che tendano cioè a minimizzare la effettiva entità del rischio di contagio, i relativi effetti per la salute o che riducano la dimensione di un rischio che invece è ancora sconosciuta. Invero, la ricezione di una eccessiva rassicurazione potrebbe, da un lato, indurre i destinatari a non adottare meccanismi auto-protettivi idonei ad evitare il contagio o, dall’altro lato, a trascurare quelli precedentemente impiegati, poiché ritenuti superflui. Ebbene, se il messaggio dovesse indurre alla riduzione delle cautele, con conseguente contrazione del virus, l’autore della rassicurazione potrebbe essere chiamato a risponderne penalmente.
1.1. La rilevanza penale della condotta di diffusione di informazioni eccessivamente rassicuranti: il caso Grandi Rischi
La possibile rilevanza penale della condotta di rilascio di informazioni troppo tranquillizzanti emerge dalla giurisprudenza di legittimità e, in particolare, dalla pronuncia intervenuta nel c.d. processo Grandi Rischi, riferito alla Commissione Nazionale per la Previsione e la Prevenzione dei Grandi Rischi (in seguito anche Commissione Grandi Rischi o C.G.R.), a seguito del terremoto avvenuto in L’Aquila il 6 aprile 20093.
In estrema sintesi, tale pronuncia ha attribuito rilevanza penale, ex artt. 589 e 590 c.p., alla condotta -connotata da negligenza e imprudenza- consistente nel rilascio di una intervista TV espressiva di messaggi ingiustificatamente ed eccessivamente rassicuranti, così definiti perché scientificamente errati e perché tendenti ad escludere il pericolo di un evento sismico futuro nella realtà imprevedibile. È stato infatti accertato che le rassicurazioni diffuse via cavo hanno determinato taluni soggetti a trascurare il comportamento auto-protettivo, sinora sempre adottato, di abbandonare gli edifici in occasione delle scosse di terremoto, decidendo invece di rimanervi comunque all’interno, finendo così travolti dal crollo della costruzione.
L’addebito dei delitti di omicidio colposo e lesioni personali colpose è disceso da un percorso motivazionale che può essere così tratteggiato:
– diffondere informazioni eccessivamente rassicuranti integra una condotta colposa connotata da negligenza e imprudenza;
– tale condotta è causalmente connessa all’evento lesivo o mortale che si verifica a seguito dell’adesione alle suddette rassicurazioni;
– l’evento, non voluto, integra la concretizzazione del rischio poiché è riconducibile ai tipi di evento che la regola di diligenza e prudenza si prefigge di prevenire;
– l’evento risulta inoltre prevedibile ed evitabile mediante l’adozione del comportamento alternativo lecito.
Ciò posto, analizzando la motivazione della pronuncia Grandi Rischi, si vuole verificare se da una informazione eccessivamente rassicurante possa discendere la patologia COVID-19, assumendo rilevanza penale in riferimento alle fattispecie di lesioni personali colpose o di omicidio colposo, qualora la patologia sia anche causa della morte.
L’analisi di tale sentenza risulta utile, in primis, perché si occupa specificamente della condotta diffusiva di messaggi rassicuranti verso il pubblico e, inoltre, poiché applica alla fattispecie in esame i principi espressi nelle note pronunce Franzese (Cass. Pen., S.U., n. 30328 del 2002) e Thyssenkrupp in tema di causalità e di colpa (Cass. Pen., S.U., n. 38343 del 2014).
La questione giuridica che ci si accinge ad affrontare implica infatti l’analisi di due istituti nevralgici del diritto penale.
Il primo è dato dall’accertamento del nesso causale e, precisamente, della c.d. causalità psichica. Sul punto, si deve stabilire in che termini un messaggio rassicurante può incidere o meno sul comportamento di un soggetto, inducendolo a ridurre le cautele idonee a evitare il contagio.
Il secondo, invece, riguarda l’accertamento della colpa, che consente di muovere un rimprovero all’agente per aver causato, seppur non volutamente, un fatto tipico che invece avrebbe potuto prevedere ed evitare. In questo frangente, invece, deve comprendersi in quali casi il rilascio di informazioni rassicuranti possa costituire violazione di una regola cautelare e se il fatto tipico discendente da tale violazione fosse prevedibile ed evitabile mediante l’osservanza del c.d. comportamento alternativo lecito.
Le suesposte questioni verranno affrontate, prima, analizzando la sussistenza del nesso di causa tra condotta informativa ed evento tipico e, poi, mediante l’indagine sull’elemento soggettivo. Quanto precede allo scopo di esporre per primo il tema della causalità psichica e chiarire così i rapporti tra messaggi rassicuranti e i comportamenti che possono determinare nei loro destinatari.
Tuttavia, si deve precisare che nel procedere all’accertamento dei reati colposi la giurisprudenza -come avvenuto nel caso C.G.R.- raccomanda di verificare, in prima istanza, se la condotta dell’imputato sia violativa di una regola cautelare (c.d. profilo oggettivo della colpa). In altri termini, prima di iniziare l’analisi sul nesso causale, si suggerisce di accertare se l’agire di costui sia stato negligente, imprudente o imperito, o comunque inosservante di leggi, regolamenti, ordini o discipline. Difatti, se dovesse invece risultare che la condotta dell’agente è stata conforme alle regole cautelari, non si pone neppure il problema di procedere oltre, con la verifica sul nesso di causa tra questa e l’evento, poiché trattasi di una condotta penalmente irrilevante.
Dunque, analizzando ora la tematica della causalità, si dà per accertato il profilo colposo della condotta informativa mentre ci si soffermerà solo in seguito sulle ragioni che lo motivano.
2. Elemento oggettivo: la causalità psichica e il relativo criterio di accertamento
Nella pronuncia Grandi Rischi, la causalità psichica viene descritta come il “rapporto qualificabile alla stregua di un nesso di derivazione causale tra la condotta determinativa o induttiva dell’agente e la successiva condotta del soggetto asseritamente determinato o indotto ad agire a seguito del condizionamento subito sul piano psicologico.”. In altri termini, la causalità psichica sussiste quando la condotta induttiva di un soggetto si riveli capace di influenzare le scelte di un altro soggetto, determinandolo ad agire in un modo piuttosto che in un altro.
Trattasi di una categoria giuridica -precisa la Corte- presente in molteplici istituti del codice penale. Si pensi al concorso di persone nel reato, nella accezione del concorso morale, ma anche ai diversi reati che si integrano per mezzo di una condotta di induzione, determinazione o istigazione, come avviene nelle ipotesi delittuose di truffa, circonvenzione di incapace, concussione e in altre fattispecie di parte speciale.
Inoltre, la categoria in parola è nota anche al diritto vivente e, sul punto, la pronuncia riporta taluni precedenti che chiariscono le modalità con cui avviene il condizionamento dei comportamenti altrui.
Tra questi vi è la vicenda dell’usuraio chiamato a rispondere del fatto del soggetto usurato, consistito nella decisione di uccidere i propri familiari e, successivamente, di suicidarsi, per effetto della condizione psicologica in cui l’imputato l’aveva indotto.
Emerge una influenza psicologica anche nel caso del guaritore naturopata, a cui è stata attribuita la decisione di una donna di sottrarsi alle terapie tradizionali contro il cancro, per sottoporsi invece alle indicazioni di cura della medicina alternativa suggerita dall’imputato; decisione rivelatasi poi fatale per la donna, deceduta a causa della patologia tumorale non adeguatamente trattata.
Stabilito che l’istituto della causalità psichica appartiene all’ordinamento penale, la Corte illustra il criterio per accertarlo. In merito, si precisa che il metodo di accertamento si basa su modelli di ragionamento inferenziale non dissimili da quelli propri della causazione di eventi naturalistici.
Tale soluzione è imposta dai principi costituzionali della imputazione penale, giacché mediante il suddetto criterio l’agente viene chiamato a rispondere del fatto tipico esclusivamente se risulta, oltre ogni ragionevole dubbio, che è stata proprio la sua condotta induttiva a causarlo.
In ordine alle regole su cui fondare la verifica della sussistenza del nesso causale, trattandosi di spiegare comportamenti umani, si deve ricorrere a massime di esperienza, giacché non risultano ancora disponibili spiegazioni scientifiche capaci di illustrare i meccanismi mentali che inducono un soggetto ad operare una scelta piuttosto che un’altra. Infatti, la Corte ha constatato che i problemi legati alla mente umana sono così complessi, e coinvolgono un così alto numero di fattori, che appare poco realistica la formulazione di generalizzazioni esplicative paragonabili a quelle delle scienze fisiche.
Ne discende che l’utilizzo di regole esperienziali diventa la soluzione obbligata per l’accertamento della causalità psichica. Soluzione che del resto è compatibile con quanto affermato dalla sentenza Franzese, nella parte in cui dispone che l’accertamento della causalità richiede “almeno” il ricorso a massime di esperienza.
Sotto il profilo del loro contenuto, le massime, definite anche in termini di “senso comune” e di “norme di esperienza”, devono rispecchiare l’id quod plerumque accidit, essere riconosciute come tali da chiunque ed essere generalmente accettate.
Sulla base di queste premesse, nella vicenda del terremoto aquilano, la Corte ha ravvisato l’esistenza di una massima di esperienza secondo cui l’elevata credibilità del messaggio proveniente da una fonte particolarmente attendibile e qualificata assume una “potente” attitudine di condizionamento del comportamento dei destinatari. Risulta dunque che l’individuo è sì in grado di autodeterminarsi ma che al contempo l’autodeterminazione può essere condizionata da comportamenti induttivi altrui, tra i quali è possibile ricondurre anche i messaggi rassicuranti.
Da quanto osservato può ricavarsi una prima conclusione in punto di rilevanza penale delle informazioni rassicuranti.
Queste, specie se provenienti da autori qualificati, possono condizionare il comportamento dei destinatari. Nel contesto dell’emergenza contro il coronavirus, risulta quindi che un messaggio tranquillizzante è in grado di incidere sui comportamenti auto-protettivi dei consociati, inducendoli ad adottare un minore numero di cautele idonee ad evitare il contagio, rendendo così più probabile l’insorgenza della nuova malattia.
Se il contagio si verifica, la condotta informativa può dirsi causalmente legata alla manifestazione della patologia ogni qual volta si accerti che il virus sia stato contratto a seguito di una riduzione di cautele che, a sua volta, sia dipesa dalla ricezione del messaggio rassicurante.
La sussistenza del nesso di causa, ad ogni modo, può ritenersi accertata solo qualora venga raggiunto il livello dell’elevato grado di probabilità logica (alias credibilità razionale) predicato dalla sentenza Franzese, il quale richiede che nel caso concreto si possa escludere la presenza di decorsi causali alternativi, ossia di fattori diversi dalla condotta dell’imputato che possano aver autonomamente determinato l’evento. Ed è proprio la esclusione dei fattori causali alternativi che appare di difficile verificazione nel caso che ci occupa. Invero, se per un verso è certo che un messaggio rassicurante può determinare i destinatari nel senso di ridurre le cautele anti-contagio, al contempo tale decisione può discendere da molteplici processi causali che si pongono come alternativi all’informazione tranquillizzante. Il destinatario del messaggio, difatti, potrebbe aver deciso di non utilizzare i dispositivi personali di protezione -o le altre cautele- non già a causa della rassicurazione ricevuta bensì a seguito di una scelta motivata da ragioni diverse. Così, ad esempio, la decisione di non adottare le suddette cautele potrebbe essere discesa dall’incomodo di indossare presidi a diretto contatto con il volto, dal convincimento di venire a contatto con soggetti sani (convincimento eventualmente fondato sull’assenza di sintomatologia evidente), dal ritenere che la nuova patologia non sia pericolosa per la propria salute, dal reputare che i sistemi di protezione non siano idonei ad evitare il contagio, da un approccio alla pandemia di tipo fatalista, e via dicendo. Ebbene, in tutte le ipotesi appena esposte, la manifestazione della patologia non risulta causalmente legata alla condotta rassicurante bensì discendente da un’altra causa.
Da quanto osservato emerge, dunque, che l’aspetto più problematico nell’accertamento del nesso causale risiede nella difficoltà di escludere che nel caso concreto siano intervenuti fattori causali alternativi al messaggio rassicurante.
2.1. Concorso di cause: il contagio può essere derivato da una causa sopravvenuta alla condotta informativa che sia stata da sola sufficiente a determinarlo
Appurato che l’informazione rassicurante può integrare la causa della riduzione delle cautele, dalla quale poi possa discendere la malattia o la morte, deve tuttavia considerarsi l’eventualità che il contagio sia in realtà dipeso da una causa sopravvenuta alla condotta informativa, che sia stata da sola in grado di determinarlo. Se così fosse, infatti, il nesso causale tra la condotta informativa e la contrazione del virus dovrebbe ritenersi interrotto ai sensi dell’art. 41, comma 2, c.p..
Anche questo aspetto è stato preso in considerazione dalla Corte nel caso C.G.R., la quale ha delineato l’evoluzione giurisprudenziale sul tema del concorso di cause sopravvenute da sole sufficienti a determinare l’evento.
Il Collegio ha dapprima illustrato la tesi giurisprudenziale tradizionale, secondo cui le cause sopravvenute idonee a recidere il rapporto di causalità consistono in due tipologie di condizioni, tra loro alternative.
Le prime sono le condizioni che innescano un percorso causale completamente autonomo rispetto a quello determinato dall’agente.
Le seconde invece sono quelle che, pur inserite in un percorso causale ricollegato alla condotta dell’agente, si rivelano assolutamente anomale ed eccezionali, sì da risultare imprevedibili in astratto e imprevedibili per l’agente. In merito, è noto l’esempio del soggetto che, a seguito di una ferita cagionatagli da un terzo, venga ricoverato in ospedale e ivi muoia non a causa della ferita stessa bensì per il crollo dell’edificio. In questa ipotesi, nonostante il ferimento abbia certamente condotto al ricovero che poi si sarebbe rivelato fatale, il nesso di causa tra la condotta di ferimento e la morte è interrotto, poiché il decesso dovuto al crollo dell’ospedale è una conseguenza anomala ed eccezionale rispetto all’azione di ferimento.
Tuttavia, la Corte ha pure rilevato che il suesposto approccio è evoluto a seguito della pronuncia intervenuta nel caso Thyssenkrupp, la quale ha aderito alla c.d. teoria del rischio. Secondo la teoria citata, l’effetto interruttivo della causalità può essere dovuto a qualunque circostanza che introduca un rischio nuovo o comunque radicalmente esorbitante rispetto a quelli che un determinato garante è chiamato a governare.
La figura del garante, si precisa, è riferibile tanto a condotte omissive, quanto a condotte attive, ossia non assume rilievo nelle sole ipotesi in cui venga contestata una condotta omissiva bensì anche quando l’agente abbia tenuto una condotta attiva.
Inoltre, trattasi di una qualifica che può essere assunta anche in via di fatto, cioè in assenza di formale investitura, qualora il soggetto tenga spontaneamente una condotta che implichi il rischio di verificazione di eventi dannosi o pericolosi. A tale conclusione la giurisprudenza è giunta anche argomentando dall’art. 299 del d,lgs n.81 del 2008, ove si prevede l’estensione della posizione di garanzia verso colui che sia sprovvisto di investitura e che tuttavia eserciti in concreto i poteri giuridici del garante.
In sostanza, la ricostruzione in parola individua nel garante il soggetto preposto alla gestione di una determinata area di rischio. Si occupa poi di verificare se l’evento dannoso o pericoloso intervenuto ricada o meno tra quelli che il garante avrebbe dovuto gestire. Se risulta che l’evento è stato determinato da una condizione che fuoriesce dall’area di rischio del garante, può quindi affermarsi l’eccezionalità dell’evento, ex art. 41, comma 2, cp, in quanto eccentrico rispetto alla sfera di competenza del garante medesimo.
Volendo riprendere il suesposto esempio alla luce della teoria del rischio, si può affermare che la interruzione del nesso di causa discende dal fatto che il crollo dell’ospedale fuoriesce dall’area di rischio dell’autore del ferimento, giacché integra una condizione da costui ingovernabile.
Dalle osservazioni svolte emerge dunque che in giurisprudenza si è passati dal verificare l’eccezionalità e l’imprevedibilità dell’evento a verificarne l’eccentricità rispetto all’area di rischio a cui il garante è preposto. Si tratta di un cambiamento non meramente terminologico ma che risulta finalizzato a rendere più certa l’individuazione delle condizioni interruttive del nesso causale, soprattutto nel contesto della gestione di rischi leciti, quali l’attività medica, gli infortuni sul lavoro, la circolazione di veicoli e via dicendo.
Calando le suesposte osservazioni nel contesto pandemico in corso, si deve stabilire se in concreto la manifestazione della patologia COVID-19, o la morte in conseguenza di questa, possano essere derivati da una causa, da un lato, diversa dal messaggio rassicurante e, dall’altro lato, da sola sufficiente a determinare tali eventi.
Per rispondere al quesito è necessario tratteggiare l’area di rischio dell’autore del messaggio tranquillizzante e, sul punto, in premessa si è visto che il campo di analisi è stato ristretto agli appartenenti alle istituzioni o al settore medico, quali principali protagonisti dell’attività mediatica.
In primo luogo, la natura qualificata dell’autore del messaggio conferisce alla comunicazione una elevata credibilità.
Secondariamente, la sua diffusione tramite i mass-media implica che questa raggiunga numerosi destinatari.
In terzo luogo, il carattere tranquillizzante del messaggio, che cioè non si risolva in una mera manifestazione di pensiero, ma che sia invece idoneo e proteso ad infondere una rassicurazione, esprime la idoneità del medesimo a influenzare i comportamenti dei destinatari.
Ciò posto, in base alle osservazioni della Corte, risulta che gli eventi di contagio e insorgenza della patologia o di morte in conseguenza di questa, che siano scaturiti da un abbassamento delle cautele dovuto alla rassicurazione ricevuta, ricadono nell’area di rischio dell’autore della rassicurazione.
I tre profili appena esposti sono infatti tutti dominabili dall’agente, che -in primis– conosce la propria qualifica e la relativa capacità di convincimento che questa implica, e ciò gli consente di soppesare le parole che compongono il messaggio.
Inoltre, anche il veicolo informativo utilizzato -radiotelevisione, stampa o internet- rende la diffusione del messaggio in larga scala una conseguenza fisiologica della condotta e giammai eccezionale o anomala.
Pure il grado di rassicurazione che l’autore vuole trasmettere è, infine, riconducibile ad una propria scelta comunicativa, come tale, controllabile.
Delineata così la sfera di rischio dell’agente, nel caso concreto, si deve verificare se alla condotta informativa siano seguiti altri fattori che risultino da soli idonei a determinate l’evento. Si tratta, per l’appunto, di un accertamento che presuppone l’analisi di tutte le sfumature della fattispecie concreta, ciononostante, risulta possibile ipotizzare alcune cause sopravvenute in grado di determinare l’interruzione del nesso causale. In merito, si pensi alle operazioni che seguono il rilascio della dichiarazione, come la sua trascrizione o il montaggio video, le quali possono determinare la diffusione di un messaggio diverso da quello originale. Se infatti il messaggio rassicurante dovesse subire delle modifiche che lo rendano sensibilmente difforme dall’originale, perché privato di certe sue parti, perché montato riportando le dichiarazioni secondo un diverso ordine, oppure perché diffuso senza indicazione del contesto in cui è stato rilasciato e altre ipotesi equiparabili, l’evento tipico non potrebbe più ricondursi all’autore della dichiarazione rassicurante bensì alla condotta del soggetto che abbia alterato e diffuso la versione del messaggio manipolata.
3. Elemento soggettivo: l’accertamento della colpa
Appurata la sussistenza del profilo oggettivo dei reati di lesioni personali colpose o di omicidio colposo si deve proseguire con l’indagine sull’elemento soggettivo.
Stando alle osservazioni contenute nella pronuncia Grandi Rischi, in linea con quelle fornite dalla sentenza Thyssenkrupp, emerge che la colpa può ritenersi sussistente in presenza dei seguenti cinque requisiti.
Il primo, espressamente previsto all’art. 43 c.p., è dato dalla mancanza di volontà dell’evento.
Il secondo, parimenti espresso nella norma citata, consiste in una condotta violativa di una regola cautelare, descritta in termini di negligenza, imprudenza o imperizia, oppure di inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.
Il terzo, desunto in via interpretativa, è denominato “concretizzazione del rischio” e mira ad accertare se l’evento discendente dalla condotta colposa rientri tra i tipi di evento che la norma cautelare violata si prefigge di prevenire.
Il quarto -anch’esso dedotto interpretativamente- riguarda la verifica della prevedibilità dell’evento, non tanto dal punto di vista dell’agente concreto quanto piuttosto da quello del c.d. agente modello.
Infine, il quinto, ugualmente di origine interpretativa, è conosciuto come “causalità della colpa” e riguarda la evitabilità dell’evento mediante l’adozione del c.d. comportamento alternativo lecito.
3.1. Il 1° requisito: la mancanza di volontà dell’evento
In ordine alla mancanza di volontà dell’evento, mediante l’analisi di tutte le circostanze del caso concreto, si deve accertare che l’agente non abbia voluto l’evento come conseguenza della propria condotta.
Per effettuare tale controllo, la sentenza Thyssenkrupp ha stilato un elenco non tassativo di indicatori in grado di far emergere la volontarietà o meno dell’evento. Trattasi di una elencazione esemplificativa che ricomprende molteplici aspetti del fatto capaci di far emergere l’elemento volitivo, utili soprattutto nelle ipotesi di confine tra colpa cosciente e dolo eventuale. Ad esempio, si misura lo scostamento della condotta dalla regola cautelare, la personalità e le precedenti esperienze dell’agente, la condotta successiva al fatto, il fine della condotta, la probabilità di verificazione dell’evento, le conseguenze negative o positive per il reo, il contesto lecito o illecito della condotta e via dicendo.
Nel caso di diffusione di messaggi tranquillizzanti inerenti il nuovo virus, l’applicazione dei suddetti indici appare in grado di far emergere agevolmente, analizzando tutte le circostanze del caso concreto, la mancanza di volontà da parte dell’autore del messaggio.
3.2. Il 2° requisito: la violazione della regola cautelare
La successiva verifica mira ad accertare se la condotta dell’agente sia violativa di una regola cautelare.
Come accennato in premessa, questo accertamento precede quello relativo al nesso causale.
Infatti, prima è necessario appurare che l’agente abbia effettivamente violato una norma cautelare e solo in caso di risposta positiva si pone il problema di accertare il nesso tra la condotta e l’evento.
Anche nel caso Grandi Rischi, la Corte ha precisato che l’accertamento della violazione delle cautele attiene al piano della tipicità. Si tratta, invero, di un profilo della colpa di tipo oggettivo, poiché inerente un aspetto della condotta e non lo stato mentale dell’agente.
Nella vicenda aquilana, il Collegio ha ritenuto che la diffusione di un messaggio eccessivamente rassicurante per il tramite di un’intervista televisiva integra una condotta negligente e imprudente.
I profili di negligenza e imprudenza sono stati rinvenuti, in primo luogo, nella parte dell’intervista in cui l’imputato afferma l’assenza di pericoli quando, al contrario, gli sviluppi concreti e specifici dei fenomeni tellurici in un territorio sismico sono in realtà oggettivamente imprevedibili, cosicché non risulta possibile affermare l’assenza di un pericolo.
Il secondo profilo colposo riferito al medesimo messaggio rassicurante è stato rinvenuto nell’aver attribuito una valenza positiva alla pluralità di scosse di terremoto -c.d. sciame sismico- che si stavano verificando in quel periodo nel territorio aquilano. Il rimprovero mosso all’imputato è stato di fornire una lettura rassicurante dello sciame sismico, qualificandolo in termini di “scarico di energia” e ritenendolo un effetto favorevole, nonché sinonimo di assenza di pericolo. Al contrario, sul punto non è stata riscontrata alcuna evidenza scientifica che giustifichi tali affermazioni.
Mutando le suesposte osservazioni ad un messaggio rassicurante nel contesto dell’emergenza contro il coronavirus, si deve ritenere affetta da colpa generica la diffusione di una informazione rassicurante che predichi l’inesistenza di un pericolo per la salute che, sulla base delle conoscenze scientifiche disponibili, è imprevedibile.
Inoltre, risulta del pari affetta da colpa generica anche la valutazione in termini positivi o comunque rassicuranti di aspetti della patologia che, sempre secondo le evidenze scientifiche del momento, non siano ancora passibili di essere valutati favorevolmente.
Dalle osservazioni della Corte si può dunque evincere che la diffusione di una informazione rassicurante è affetta da colpa generica ogni qual volta non sia scientificamente corretta. Ciò, perché risulti certamente errata oppure perché sul punto non si siano ancora formate risultanze scientifiche stabili.
3.3. Il 3° requisito: la concretizzazione del rischio
Accertata la violazione di una regola cautelare e che è stata proprio tale violazione a determinare l’evento, si deve verificare la sussistenza del terzo requisito sopra citato, ossia la concretizzazione del rischio.
Si tratta di un altro aspetto della colpa che riveste carattere oggettivo poiché attiene esclusivamente ad aspetti del fatto tipico e, per questo, si discorre di profilo causale della colpa.
Quello che infatti deve essere accertato è se l’evento concretamente verificatosi ricade nel “catalogo” di eventi che la regola cautelare mira a prevenire. Nella vicenda Thyssenkrupp, invero, è stato affermato che la responsabilità colposa non si estende a tutti gli eventi che comunque siano derivati dalla violazione della norma, ma è limitata ai risultati che la norma stessa mira a prevenire. In altri termini, l’accadimento da impedire deve essere proprio tra quelli che la regola di condotta si prefigge di evitare, deve cioè costituire la concretizzazione del rischio.
Tanto premesso, sopra è emerso che la condotta di diffusione di messaggi tranquillizzanti può dirsi diligente e prudente solo quando è scientificamente corretta, ossia quando la rassicurazione corrisponde all’effettiva entità del pericolo. Tale regola cautelare risulta finalizzata ad evitare una sottostima del pericolo che possa poi tradursi in una riduzione delle cautele anti-contagio, sulla premessa dell’esistenza di una massima di esperienza che riconosce alle informazioni rassicuranti -provenienti da fonti qualificate- la capacità di determinare i comportamenti dei destinatari.
Dunque, nel contesto dell’emergenza sanitaria in corso, qualora la diffusione di una informazione eccessivamente rassicurante dovesse causare una riduzione delle cautele anti-contagio, determinando così il manifestarsi della patologia, si dovrebbe concludere nel senso che il rischio che la norma mira a prevenire si è concretizzato.
3.4. Il 4° requisito: la prevedibilità dell’evento
Accertati la mancanza di volontà dell’evento e i due profili oggettivi della colpa appena esposti, l’indagine deve spostarsi sui profili soggettivi, consistenti nella prevedibilità e nella evitabilità dell’evento.
La verifica del versante soggettivo è finalizzata ad evitare che la colpa sia ritenuta sussistente in presenza di meri elementi oggettivi, dati dalla violazione della regola cautelare e dalla concretizzazione del rischio. Una forma di responsabilità colposa di questo tipo, infatti, diverrebbe una ipotesi di responsabilità oggettiva, come tale in contrasto con il principio di responsabilità penale personale. Stabilendo, invece, se l’evento sia prevedibile ed evitabile, si riesce a rimproverare l’agente sul versante soggettivo, per aver determinato un fatto che -per l’appunto- era in grado di predire ed evitare.
Iniziando dal requisito della prevedibilità, deve comprendersi se la contrazione della nuova patologia, o la morte da essa causata, fossero prevedibili come conseguenza della condotta di diffusione di informazioni rassicuranti.
Nella vicenda aquilana, la Suprema Corte ha affermato che la prevedibilità sussiste ogni qual volta l’evento può essere previsto come conseguenza “possibile”, e non necessariamente certa, della propria condotta. Tale assunto discende dalla considerazione che le regole cautelari vengono forgiate già in presenza delle prime evidenze di un rischio, senza che sia necessario attendere dati scientifici certi. Infatti, se ad esempio risulta che i lavoratori esposti ad una certa sostanza sviluppano determinate patologie, si genera una regola cautelare che consenta la riduzione della esposizione, sulla base di questo dato meramente esperienziale.
Compreso che l’evento prevedibile è quello di possibile verificazione, occorre capire quale evento deve essere oggetto della previsione. Il Collegio ha precisato che la prevedibilità riguarda un evento del genere di quello concretamente verificatosi o, in altre parole, appartenente alla classe di eventi a cui è riferibile quello verificatosi. Inoltre, devono essere parimenti prevedibili anche i tratti essenziali del nesso di causa che hanno determinato l’evento e, precisamente, si deve verificare se lo svolgimento causale è tra quelli presi in considerazione dalla regola violata.
Come emerso nella sentenza Thyssenkrupp, non è invece accoglibile l’orientamento secondo cui l’oggetto della previsione consiste nell’evento così come concretamente verificatosi. Tale approccio infatti determinerebbe una eccessiva riduzione dell’area della prevedibilità, poiché è inverosimile che un soggetto sia in grado di prevedere tutte le sfaccettature concrete di un dato evento futuro.
Ciò posto, rimane da stabilire secondo la prospettiva di quale soggetto valutare la prevedibilità, posto che il medesimo evento può essere prevedibile per “l’uomo più esperto” ma non esserlo per “l’uomo normale” e lo stesso dicasi per l’agente concreto. Nella pronuncia in esame, in linea alla tesi prevalente in giurisprudenza, la prevedibilità dell’evento è stata accertata secondo il criterio del c.d. agente modello, ossia un soggetto teorizzato in grado di svolgere al meglio, anche in base all’esperienza collettiva, il compito assunto, evitando i rischi prevedibili e le conseguenze evitabili. Quindi, il requisito della prevedibilità sussiste non già se l’evento sia prevedibile dall’agente concreto bensì se sia prevedibile da un agente modello appartenente ad un circuito di persone omologhe all’agente reale, tenendo conto anche delle conoscenze specifiche e particolari di cui sia dotato quest’ultimo.
Vanno invece rifiutate le figure dell’agente concreto, poiché si finirebbe per premiare l’ignoranza pericolosa, quella dell’uomo più esperto, perché vi è il rischio di oggettivare la responsabilità, così come va infine rifiutata pure la figura dell’uomo normale, la quale potrebbe avallare il ricorso a prassi scorrette.
Calando le suesposte osservazioni nella emergenza contro il coronavirus, sul piano teorico, l’evento di contagio risulta prevedibile.
In primis, può affermarsi che l’insorgenza della nuova patologia o la morte integra una conseguenza possibile di una informativa eccessivamente rassicurante, attesa la capacità di tale informativa di incidere sulle scelte auto-protettive dei destinatari.
In secondo luogo, il contagio -incluse le relative conseguenze- appartiene alla classe di eventi che possono verificarsi a seguito di una condotta informativa dalla quale possa scaturire un abbassamento delle cautele anti-infezione. Così come risultano prevedibili i lineamenti essenziali del nesso di causa tra condotta ed evento, consistenti nella ricezione del messaggio rassicurante, nella relativa modifica dei comportamenti auto-protettivi e, da ultimo, nel sorgere della patologia o nella morte.
La prevedibilità così come appena descritta risulta accertata alla luce della figura dell’agente modello, che nel caso di specie deve essere riferito alle categorie di soggetti di cui ci si occupa. Si tratta, quindi, del soggetto istituzionale modello (distinguendo le diverse istituzioni) o del sanitario modello (anche qui, distinguendo a seconda della qualifica ricoperta). Entrambe le categorie, infatti, risultano in grado di prevedere le conseguenze della condotta informativa tranquillizzante. Ciò, tanto più se si considera che -come visto sopra- la diffusione di una informazione eccessivamente rassicurante è stata valutata dalla Corte in termini di colpa generica, ossia espressiva di un grado di colpa che non attiene a conoscenze specifiche bensì a regole di esperienza conoscibili ai più.
3.5. Il 5° requisito: la evitabilità dell’evento
Infine, appurata la prevedibilità dell’evento inteso come accadimento appartenente alla classe di eventi che possono discendere da una certa condotta, l’analisi deve proseguire nell’accertamento dell’ultimo requisito: la causalità della colpa.
Questa sussiste quando risulta che il comportamento alternativo lecito, ossia rispettoso della regola cautelare, avrebbe scongiurato l’evento. Solo così può essere mosso un rimprovero all’agente per non aver rispettato la norma cautelare. Se infatti dovesse risultare che l’evento si sarebbe verificato comunque, nonostante l’osservanza della regola cautelare, il soggetto non potrebbe essere rimproverato.
Nella pronuncia sul caso Thyssenkrupp è stato precisato che la causalità della colpa si configura non solo quando il comportamento diligente avrebbe certamente evitato l’esito antigiuridico, ma anche quando una condotta appropriata aveva apprezzabili e significative probabilità di scongiurare il danno.
Anche nel processo Grandi Rischi la Corte ha valutato la causalità della colpa verificando se l’ipotetica osservanza del comportamento alternativo lecito avrebbe scongiurato l’evento. Sul punto, si è osservato che “ove l’imputato non avesse detto ciò che invece disse, e se, in sostanza, avesse diligentemente informato il proprio messaggio a uno standard d’indiscutibile correttezza scientifica e di più accorta prudenza, circa la ragionevole valutazione (non spregiudicatamente favorevole) degli eventi e di assenza di pericolosità, le morti non si sarebbero verificate, perché quei cittadini aquilani avrebbero continuato ad adottare, nel corso della notte tra il 5 e il 6 aprile 2009, le precauzioni conosciute”.
Riferendo le suddette osservazioni ad ipotetici messaggi tranquillizzanti inerenti la pandemia in corso, in primo luogo, si deve accertare se colui che ha pronunciato il messaggio eccessivamente rassicurante avrebbe potuto parametrarlo al reale grado di rischio. Eventualmente, anche desistendo dal rilascio di qualsivoglia rassicurazione, qualora le evidenze scientifiche del momento non consentissero ancora di formulare una rassicurazione certa.
In caso di risposta affermativa, deve poi stabilirsi se la diffusione di un messaggio corretto avrebbe evitato l’abbassamento di cautele che ha condotto alla contrazione del virus.
Se anche a quest’ultimo quesito si fornisce risposta positiva, deve concludersi nel senso che l’evento era evitabile. Invero, se il soggetto avesse diffuso un messaggio rassicurante nella giusta misura oppure non avesse rassicurato affatto, non vi sarebbe stata quella riduzione di cautele che invece, essendovi stata, ha portato alla contrazione della patologia.
4. Conclusioni
Dall’analisi sin qui svolta si ricava che la diffusione di un messaggio eccessivamente rassicurante in merito ai possibili pericoli discendenti dal nuovo coronavirus, proveniente da una fonte qualificata, può assumere rilevanza penale per i delitti di lesioni personali colpose o di omicidio colposo.
Dalla giurisprudenza di legittimità, infatti, è emerso che un messaggio di questo tipo può incidere sulle scelte dei destinatari, sino ad indurli a trascurare l’adozione delle cautele anti-contagio, determinando così la possibile contrazione del virus.
Il nesso di condizionamento tra la condotta di rassicurazione e l’evento di contagio è quello della “causalità psichica”, la quale, nonostante attenga gli stati mentali dei destinatari del messaggio, va accertata con il medesimo criterio utilizzato per la causalità materiale. Con la precisazione che tale accertamento deve avvenire necessariamente per mezzo di massime di esperienza, a causa dell’assenza di regole scientifiche in grado di spiegare i condizionamenti psichici.
Sempre in tema di nesso causale, deve tuttavia considerarsi l’eventualità che gli eventi tipici di lesione o morte siano discesi da una causa sopravvenuta alla condotta rassicurante da sola in grado di determinarli.
Stabilita la sussistenza dell’elemento oggettivo del reato deve verificarsi anche la presenza dell’elemento soggettivo. Sul punto, si è osservato che astrattamente ricorrono tutti è cinque i requisiti necessari per affermare la colpa dell’autore del messaggio rassicurante.
Sussiste, in primis, la mancanza di volontà dell’evento, se ciò risulta da tutte le circostanze del caso concreto, da valutarsi con l’ausilio degli indicatori elaborati dalla sentenza Thyssenkrupp.
Secondariamente, risulta pure che il rilascio di un messaggio tranquillizzante scientificamente errato costituisce una violazione delle cautele, per imprudenza e negligenza.
Del pari, ricorre anche il requisito della c.d. concretizzazione del rischio, atteso che i doveri di prudenza e diligenza da osservare durante la diffusione di rassicurazioni mirano proprio ad evitare una sottovalutazione del rischio di contagio e, quindi, gli eventi lesivi o mortali discendenti dalla insorgenza della patologia.
L’evento lesivo o mortale, poi, risulta prevedibile dalla figura dell’agente modello entro cui è riconducibile l’agente concreto, sia questo un soggetto istituzionale o un operatore sanitario. Entrambi, infatti, sono in grado di prevedere che un messaggio rassicurante possa indurre i destinatari ad abbassare le cautele anti-contagio, conducendoli così a contrarre il virus.
Infine, l’evento appare pure evitabile mediante l’adozione della condotta alternativa lecita, in quanto la diffusione di un messaggio scientificamente corretto o l’astensione da qualsivoglia rassicurazione, evitando la riduzione delle precauzioni, avrebbero consentito di scongiurare l’evento.
1Informazioni reperibili su www.salute.gov.it/nuovocoronavirus
2Lo afferma uno studio effettuato da Observa, science in society, “Gli italiani e il Coronavirus: uno su cinque sottovaluta il problema”, pubblicato anche su www.corriereinnovazione.corriere.it