Corte Costituzionale, no alla sanzione amministrativa per il mancato pagamento dell’assegno di mantenimento dei figli
Nel Teeteto Platone fa dire a Socrate che gli oratori sono schiavi, incalzati dalla clessidra, mentre i filosofi sono liberi perché possono parlare quanto vogliono.
Ciò detto, avuto riguardo alle questioni sollevate, la motivazione della recentissima sentenza n. 145/20 della Corte Costituzionale è significativamente articolata.
“Non è incluso nel novero delle condotte inadempienti per le quali può essere applicata anche la sanzione pecuniaria amministrativa, il mancato pagamento dell’assegno di mantenimento disposto in favore della prole, già sanzionato penalmente”.
Questo, in estrema sintesi, il principio enunciato dalla Corte Costituzionale nella sentenza in commento.
Il fatto. Il giudice rimettente, nell’ambito di un giudizio per la cessazione degli effetti civili del matrimonio, rilevava che la ricorrente, oltre alla domanda principale sullo status e a quelle sulle questioni economiche, aveva chiesto la condanna del coniuge separato al pagamento di una sanzione pecuniaria in favore della Cassa delle ammende ai sensi dell’art. 709-ter, secondo comma, numero 4), cod. proc. civ., per l’inadempimento dello stesso rispetto all’obbligo di mantenimento della figlia minore sancito nella sentenza di separazione.
All’udienza di precisazione delle conclusioni, peraltro, il resistente produceva la sentenza della sezione penale del Tribunale ordinario di Treviso n. 651 del 2017, depositata in data 30 maggio 2017, mediante la quale ne era stata accertata la responsabilità penale per aver omesso di versare il contributo al mantenimento della figlia nella misura di cui alla pronuncia di separazione, con l’applicazione della pena di cui all’art. 570 cod. pen.
Per tale ragione, il resistente chiedeva negli scritti conclusivi il rigetto della domanda avente ad oggetto la condanna dello stesso al pagamento della sanzione pecuniaria in favore della Cassa delle ammende ex art. 709-ter, secondo comma, numero 4), cod. proc. civ., in quanto sui medesimi fatti era già intervenuta la predetta sentenza di condanna, n. 651 del 2017, divenuta irrevocabile.
Il giudice rimettente evidenziava, in primo luogo, che la domanda proposta dalla ricorrente volta alla condanna del coniuge separato al pagamento della sanzione pecuniaria ex art. 709-ter, secondo comma, numero 4), cod. proc. civ., avrebbe dovuto trovare accoglimento a fronte del pacifico e reiterato inadempimento del padre agli obblighi di mantenimento sanciti in favore della figlia nella sentenza di separazione, condotta che integrerebbe la fattispecie prevista dal medesimo secondo comma di tale disposizione normativa nella parte in cui sanziona gli «atti che comunque arrechino pregiudizio al minore».
Il quadro normativo di riferimento richiamato dalla Corte Costituzionale. L’art. 709-ter, secondo comma, cod. proc. civ., stabilisce: «A seguito del ricorso, il giudice convoca le parti e adotta i provvedimenti opportuni. In caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento, può modificare i provvedimenti in vigore e può, anche congiuntamente: 1) ammonire il genitore inadempiente; 2) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore; 3) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti dell’altro; 4) condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75 euro a un massimo di 5.000 euro a favore della Cassa delle ammende».
Tale disposizione è stata inserita, nelle norme del codice di procedura civile dedicate alla separazione coniugale, dall’art. 2 della legge n. 54 del 2006, che ha contestualmente introdotto la regola generale dell’affidamento condiviso della prole della coppia parentale in regime di separazione.
La collocazione della norma nell’ambito della disciplina processuale della separazione coniugale non ne limita l’operatività a questo solo àmbito, in quanto l’art. 4, comma 2, della stessa legge n. 54 del 2006 stabilisce espressamente che le nuove disposizioni dettate per la separazione giudiziale si applicano anche ai casi di «scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati».
Proprio dai poteri demandati all’autorità giudiziaria dal secondo comma dell’art. 709-ter cod. proc. civ. si evince che lo scopo principale della norma è quello di superare le difficoltà da lungo tempo emerse nella prassi applicativa rispetto alla possibilità di assicurare l’effettività del diritto della prole ad un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori – in linea con le finalità generali della stessa legge n. 54 del 2006 sull’affidamento condiviso – anche ove tale diritto sia riconosciuto in un provvedimento di carattere giurisdizionale che disciplina le modalità di affidamento, per tutti gli aspetti diversi da quelli economici, e il diritto/dovere di visita del genitore non collocatario, ossia profili afferenti a obbligazioni complesse di carattere infungibile, incidenti su diritti di carattere non patrimoniale.
Le evidenziate difficoltà si correlavano soprattutto alla sostanziale inidoneità del modello dell’esecuzione forzata delineato dal Terzo libro del codice di procedura civile per l’attuazione delle decisioni giudiziarie in tema di affidamento e responsabilità genitoriale nei confronti dei figli minori (o maggiorenni portatori di handicap) – inidoneità riconosciuta, pur incidentalmente, dalla Corte Costituzionale (ordinanza n. 68 del 1987) – almeno per tutti gli aspetti diversi dalle questioni di carattere economico.
Per queste ultime, invece, oltre all’esecuzione per espropriazione forzata, sono previsti vari meccanismi volti ad assicurare una adeguata tutela del diritto di credito quali, ad esempio, il sequestro o il pagamento diretto da parte di terzi ai sensi dell’art. 156 del codice civile, e la possibilità ex art. 545 cod. proc. civ. di pignorare il trattamento stipendiale anche al di là del limite generale del cosiddetto quinto, oltre alla tutela penale di cui, attualmente, agli artt. 570 e 570-bis cod. pen.
In particolare, si è consentito al giudice della cognizione – adito con il ricorso di cui all’art. 709-ter cod. proc. civ., a fronte di violazioni dei provvedimenti concernenti le modalità di esercizio della responsabilità genitoriale ovvero di quelle di affidamento – di modificare o integrare il contenuto di tali provvedimenti.
Il legislatore, quindi, al fine di superare il problema derivante dall’inidoneità dell’esecuzione forzata, ha per un verso demandato al giudice di merito una nuova competenza, che si svincola da moduli rigidi come quelli esecutivi, per sfruttare pienamente la maggiore flessibilità della tutela giurisdizionale di cognizione, e risponde alla finalità di individuare l’autorità più adatta a risolvere le questioni che possono sorgere nella fase di attuazione della misura; per un altro, ha attribuito a tale giudice, accertato l’inadempimento alle statuizioni contenute nei provvedimenti già emanati nei confronti della coppia parentale, il potere di comminare, ove richiesto con ricorso ai sensi del secondo comma della stessa disposizione, le misure sanzionatorie ivi contemplate.
Quanto alla «sanzione amministrativa pecuniaria», dell’importo ricompreso tra un minimo di 75 euro ed un massimo di 5.000 euro in favore della Cassa delle ammende, prevista dalla disposizione censurata, la stessa realizza innanzi tutto – sul modello di altri sistemi processuali – una forma di indiretto rafforzamento dell’esecuzione delle obbligazioni di carattere infungibile. Si tratta di obbligazioni il cui adempimento dipende in via esclusiva dalla volontà dell’obbligato e l’esecuzione indiretta si realizza, previa necessaria istanza di parte, attraverso un sistema di compulsione all’adempimento spontaneo prevedendo, in mancanza dello stesso, l’obbligo di corrispondere una somma in favore dello Stato.
Le questioni sollevate. Ciò premesso, il Tribunale ordinario di Treviso, con ordinanza del 16 luglio 2019, iscritta al n. 219 del registro ordinanze 2019, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, tre distinte questioni di legittimità costituzionale dell’art. 709-ter, secondo comma, numero 4), del codice di procedura civile, nella parte in cui prevede che “nell’ambito di un giudizio di cessazione degli effetti civili del matrimonio, il genitore che abbia posto in essere atti che arrechino pregiudizio al minore sia passibile della «sanzione amministrativa pecuniaria» da un minimo di 75 euro a un massimo di 5.000 euro, in favore della Cassa delle ammende, per l’inadempimento all’obbligo di corrispondere l’assegno di mantenimento, previsto, nel caso di specie, dalla sentenza di separazione coniugale, in favore della figlia minorenne”.
In primo luogo, il giudice rimettente ha assunto la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione al parametro interposto di cui all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con legge 9 aprile 1990, n. 98, sul divieto di bis in idem, poiché la sanzione pecuniaria contemplata dalla previsione censurata avrebbe, in virtù dei canoni enunciati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo sin dalla sentenza 8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi Bassi, natura sostanzialmente penale, e dovrebbe essere comminata per il medesimo fatto, ossia per l’omesso pagamento dell’assegno di mantenimento disposto nella pronuncia di separazione coniugale in favore della figlia minore, per il quale il convenuto era stato già condannato in sede penale.
Il giudice a quo ha sostenuto, inoltre, che lo stesso art. 709-ter, secondo comma, numero 4), cod. proc. civ., nella parte in cui consente di comminare una «sanzione amministrativa pecuniaria» in favore della Cassa delle ammende per «atti che comunque arrechino pregiudizio al minore», violi anche l’art. 25, secondo comma, Cost., in ragione dell’indeterminatezza delle condotte censurabili con una sanzione di carattere sostanzialmente penale.
Il Tribunale rimettente ha ritenuto, poi, violato anche l’art. 3, primo comma, Cost., in riferimento al tertium comparationis costituito dal trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 570 del codice penale, ritenendo irragionevole che la sanzione pecuniaria per un identico fatto sia determinata dalla disposizione censurata nella misura massima di euro 5.000, di gran lunga superiore alla multa prevista dall’art. 570, primo comma, cod. pen., pari, nel massimo, ad euro 1.032.
Precisa sempre la Corte Costituzionale che benché il giudice rimettente non si sia confrontato con il più ampio quadro normativo di riferimento, è ben chiaro che il “fatto” penalmente rilevante e per il quale il genitore resistente è già stato condannato con l’applicazione delle pene di cui all’art. 570 cod. pen., consiste nell’inadempimento dell’obbligo di natura economica fissato dal giudice per il mantenimento della prole. Ed è lo stesso “fatto” che il giudice rimettente assume a possibile presupposto della sanzione amministrativa pecuniaria prevista dalla disposizione censurata.
Di qui la rilevanza delle questioni.
La Corte Costituzionale ha, tuttavia, ritenuto le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dal giudice rimettente con riferimento all’art. 709-ter, secondo comma, numero 4), cod. proc. civ., tutte infondate, conformemente a quanto statuito dalla normativa vigente arricchita dai principi scaturenti dalla complessa evoluzione del quadro giurisprudenziale di riferimento attentamente richiamato in sentenza.
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