Cosa si intende per “cluster epidemico”? I limiti applicativi del reato di epidemia nel caso Talluto
Cass. Pen., Sez. I, sent. 48014/2019
Con la dichiarazione dello stato emergenziale sorto a seguito del rapido propagarsi del virus SARS-CoV-2, originatosi dal focolaio di Wuhan, Cina, e le conseguenti misure di distanziamento sociale (de facto, di quarantena), torna alla luce nell’applicazione giurisprudenziale il reato di epidemia di cui all’art. 438 c.p., in base al quale è punito con la pena detentiva perpetua “chiunque cagiona una epidemia mediante la diffusione di germi patogeni”. La fattispecie è strutturata, a prima analisi, come reato comune (“chiunque”) e di evento (“cagioni”) ed è collocata, a livello sistematico, nella categoria dei delitti contro l’incolumità pubblica. Sebbene la maggior parte delle notizie fornite dalle fonti giornalistiche faccia impropriamente riferimento al reato di epidemia, ma nella sua variante colposa – cioè risultante dal combinato disposto dell’art. 438 c.p. e dell’art. 352 c.p. –, recentemente una sentenza della Suprema Corte di Cassazione ha dato nuova linfa vitale alla fattispecie prevista dall’art. 438 c.p.
Il caso di riferimento è il cosiddetto “caso Talluto”. Al condannato, Valentino Talluto, il pubblico ministero aveva davanti alla Corte di Assise di Roma contestati ben 37 fatti di contagio da HIV posti in essere dallo stesso: nello specifico, dal quadro emerso a conclusione delle indagini preliminari, i casi di infezione diretta erano stati quantificati in ben 28 (tutti relativi a donne con cui il Talluto aveva intrattenuto rapporti sessuali non protetti), i casi di infezione indiretta 8 (relativi a uomini che, a loro volta, avevano trattenuti rapporti sessuali non protetti con le donne contagiate dal Talluto) e un caso di infezione da HIV a danno di un soggetto minore d’età, nato da una delle donne contagiate. I giudici di prime cure condannavano il Talluto a 24 anni di reclusione per i reati di lesioni personali gravissime – trattandosi, sinteticamente, l’HIV di una malattia a decorso lentissimo ma, allo stato della scienza medica, non suscettibile di guarigione con le attuali terapie antiretrovirali[1] – e falso materiale, per aver il Talluto negato la propria sieropositività mediante la produzione di un certificato medico falso, a semplice richiesta di una delle parti offese.
In sede di appello, la Corte di Assise di Appello di Roma riduceva la pena a 22 anni, ma sostanzialmente confermava l’intera architettura probatoria utilizzata dai giudici di primo grado. La diminuzione della pena complessiva derivava dall’assoluzione per non aver commesso il fatto nei confronti di quattro parti offese, a causa dell’incompatibilità temporale tra la probabile data dei contagi e il periodo in cui le stesse avevano intrattenuti rapporti con l’imputato – relativo all’analisi del periodo cosiddetto di “sieroconversione”. Nella sentenza di condanna in fase d’appello, efficacemente riportata dai giudici di legittimità, il collegio aveva giudicato provato il nesso causale, ritenendo accertato oltre ogni ragionevole dubbio il fatto di contagio doloso, sulla base di due fondamentali elementi.
Il primo consisteva nell’appartenenza del virus di tutte le parti coinvolte (imputato e parti offese) al medesimo cluster nomofiletico: dalle analisi cliniche svolte, si era accertato ed acquisito agli atti del processo che tutti i soggetti sieropositivi coinvolti presentavano lo stesso virus, rendendo plausibile la tesi della catena dei contagi originatasi dal Talluto. Identità del virus intesa, scientificamente, come “minima distanza filogenetica tra imputato e contagiati” in relazione alle dinamiche di replicazione imperfetta del virus.
Il secondo elemento utile ad affermare la sussistenza del nesso causale nel reato di lesioni era quello della assenza di ragionevoli ipotesi di decorsi causali alternativi, percorso ben noto agli studiosi della causalità penale. Il contagio doloso da HIV pone, sul piano causale, un problema che scuote le fondamenta stesse del concetto di nesso causale: secondo la scienza medica, infatti, la probabilità di contagio mediante un singolo rapporto sessuale non protetto è bassissima, mediamente dello 0,3%. Perciò, la considerazione delle sole regole di probabilità statistica condurrebbe ad escludere la sussistenza del nesso causale, o quantomeno ad affermare l’intrinseca debolezza degli argomenti a favore della sussistenza: come riaffermato dalla Cassazione, il contagio doloso mediante trasmissione del virus HIV è un caso paradigmatico in cui le leggi di probabilità statistica cedono il passo alle regole di probabilità logica, verificata rigorosamente l’inesistenza di possibili decorsi causali alternativi.
I giudici di legittimità confermano[2], con la sentenza n. 48014 del 2019, tale ricostruzione fornita dal giudici di appello: così come confermano anche la reiterata scelta in entrambi i gradi di merito di non sussumere il fatto commesso dall’imputato nella fattispecie di epidemia dolosa, reato originariamente contestato dal pubblico ministero.
La Suprema Corte, pur non escludendo in assoluto che tra il reato di epidemia e il reato di lesioni possa configurarsi una ipotesi di concorso apparente di norme, da risolversi alla luce dei principi in materia (specialità, consunzione e sussidiarietà), nega che i fatti contestati al Talluto siano sussumibili nel reato di epidemia, per le notevoli differenze strutturali del caso concreto.
L’imputato, sebbene da considerarsi “elemento unificante di tutte le sequenze virali analizzate”, ha posto in essere una condotta di diffusione dolosa di agenti patogeni nei confronti di singoli soggetti passivi, senza realizzare quella condotta di “spargimento” che la giurisprudenza richiede perché si configuri il reato di epidemia. In base alle risultanze dottrinali e alla (scarna) giurisprudenza in materia, il concetto di epidemia presenta un quid pluris rispetto a tanti, rilevanti ma singoli episodi di diffusione di agenti virali: perché si abbia un fatto di epidemia è infatti necessario che il predetto spargimento di patogeni avvenga “in modo rapido e incontrollabile”, e che colpisca una “pluralità indeterminata di soggetti”. Il fatto che l’art. 438 c.p. intende reprimere è pertanto un fatto di diffusione rapida, incontrollata e pericolosa per l’incolumità “pubblica” (cioè di un indeterminata collettività) di germi: un fatto, pertanto, che produce causalmente una “agevole propagazione del contagio”, idoneo a svilupparsi autonomamente e senza particolari difficoltà a livello causale tra i soggetti esposti – come avverrebbe nel caso di contagio dal virus SARS-CoV-2.
Nel caso Talluto, sebbene vi sia stata una rilevante diffusione di agenti patogeni, tale diffusione non è avvenuta nei termini di cui all’art. 438 c.p.: fattispecie, questa, che contrariamente a quanto ritenuto dai giudici di merito non è costruita secondo il modello del reato a forma vincolata – perché “non seleziona le condotte diffusive rilevanti”, secondo i giudici della Prima Sezione –, ma richiede che la condotta del soggetto agente abbia prodotto la pericolosa evoluzione di un rilevante “cluster epidemico”[3].
Il concetto di “cluster epidemico” costituisce infatti uno dei punti salienti della pronuncia della Cassazione. Per cluster epidemico, a livello scientifico, si intende una aggregazione di plurimi casi di infezione, geograficamente raccolti, collocati in un circoscritto lasso temporale e idonei a diffondersi con una certa rapidità. Da tali elementi è possibile trarre argomenti utili a rafforzare la mancata qualificazione del fatto come fatto di epidemia: l’infezione genera un cluster epidemico quando presenta, a livello genetico, una diffusività relativamente incontrollabile[4] all’interno di un gruppo indeterminato di soggetti passivi e in un circoscritto lasso temporale. Nel caso del Talluto, la Prima Sezione della Corte di Cassazione non nega la rilevanza numerica dei soggetti infettati, ma ritiene che nonostante il “cospicuo” numero di persone infettate, questo non possa definirsi “ingente”, così da corrispondere a quella collettività indeterminata che emerge quale elemento costitutivo del reato di epidemia. Anche sul lasso temporale di diffusione, la Cassazione puntualizza che i fatti contestati al Talluto si snodano temporalmente su un periodo di nove anni, difficilmente definibile come circoscritto. In ultimo, la bassa probabilità statistica che caratterizza il nesso causale nel contagio da HIV è, da sola, sufficiente ad escludere che il virus in questione possa, nel caso concreto (!), caratterizzarsi per una rilevante e incontrollabile diffusività.
“Nel caso concreto”, perché non è possibile escludere che in altri casi il contagio da HIV possa assurgere al rango di una epidemia, così da integrare la fattispecie di cui all’art. 438 c.p.: e, difatti, come già riportato, la Cassazione non esclude del tutto un caso di concorso apparente tra le diverse fattispecie coinvolte.
Dalla pronuncia della Cassazione emerge che il concetto di cluster epidemico, caratterizzante il reato di epidemia, funge al contempo da controlimite all’estensione casistica della fattispecie: ogni epidemia deriva da un contagio, ma non ogni episodio di contagio che riguardi un notevole numero di persone infettate è epidemia. È epidemia, ai sensi dell’art. 438 c.p., solo il contagio derivante dalla diffusione degli agenti patogeni di facile propagazione, nei confronti di una collettività relativamente indeterminata, avvenuto in un lasso temporale ristretto – tale, quindi, da generare un cosiddetto “focolaio” epidemico idoneo a porre in pericolo l’incolumità pubblica.
Il discrimine tra il reato di lesioni, nel caso specifico nella sua variante delle lesioni gravissime, e il reato di epidemia è pertanto segnato dal concetto stesso di cluster epidemico, puntualizzato dai giudici di legittimità nella sentenza analizzata, che indubbiamente costituisce un importante arresto chiarificatore di un reato, quello di epidemia, dalle sporadiche applicazioni giurisprudenziali al di fuori di un contesto di emergenza sanitaria.
[1] Le terapie antiretrovirali attualmente conosciute permettono infatti di condurre la quantità di virus circolante nell’organismo ad un livello non rilevabile, ma non di eradicare il virus dall’organismo – fatti salvi alcuni rarissimi casi di guarigione dal virus HIV.
[2] Pur ordinando un processo di appello “bis” per le quattro assoluzioni decise dalla Corte di Assise di Appello di Roma, che potrebbe rideterminare in peius la pena complessiva irrogata.
[3] Sul dibattito tra reato a forma libera o a forma vincolata nel caso dell’art. 438 c.p.: Cass. Pen., Sez. IV, sentenza n. 9133/2018.
[4] “Quel che difetta nel caso in esame è proprio l’evento tipico dell’epidemia, che si connota, come hanno precisato le Sezioni unite civili della Corte di cassazione, per diffusività incontrollabile all’interno di un numero rilevante di soggetti e quindi per una malattia contagiosa dal rapido sviluppo ed autonomo entro un numero indeterminato di soggetti e per una durata cronologicamente limitata – Sez. U, Sentenza n. 576 del 11/01/2008” (Cass. Pen., Sez. I, sentenza n. 48014/2019).
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