Covid-19: compliance aziendale e responsabilità degli enti
La famigerata emergenza pandemica da Covid-19, purtroppo nota alle cronache per la sua eccezionale velocità di trasmissione e per l’elevato numero di decessi provocati, non soltanto ha sconvolto la quotidianità di ciascuno, cambiandone drasticamente le abitudini di vita e di relazione, ma con impetuosa ferocia ha generato importanti ripercussioni anche su molteplici branche del diritto, e in particolare, sulla disciplina della responsabilità degli enti disciplinata dal noto D.lgs. 231 del 2001.
Con il superamento del vetusto principio secondo cui “societas delinquere non potest” desunto dall’articolo 27 Cost, si è finalmente ammessa la possibilità di considerare l’ente quale vero e proprio soggetto attivo del diritto penale.
In estrema sintesi, il decreto legislativo n. 231 del 2001 denominato “Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300” prevede, quale criterio oggettivo di imputazione della responsabilità, che l’autore del reato rivesta una determinata posizione all’interno dell’organizzazione (posizione apicale o subordinata) e che il fatto illecito venga compiuto nell’interesse o vantaggio dell’ente.
In particolare, l’articolo 5 del decreto prevede testualmente che: “L’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio: a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso; b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a). L’ente non risponde se le persone indicate nel comma 1 hanno agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi”.
Dal dato letterale si desume che il primo requisito oggettivo è rappresentato dalla realizzazione, ad opera di una persona fisica, di un reato c.d. presupposto, ovverosia di un reato consumato o di un delitto tentato tra quelli che per il legislatore possono fondare una responsabilità dell’ente (attualmente quelli di cui agli articoli 24 e ss nonché art 10 della legge 146 del 2006).
A tal proposito, occorre evidenziare che i reati di cui agli artt. 589 e 590 cp con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, rientrano tra i reati presupposto, dai quali scaturisce, dunque, la responsabilità amministrativa dell’ente ex art 25 septies del suddetto decreto.
Appare inoltre necessaria la sussistenza di un rapporto qualificato tra l’autore del reato e l’ente, da rinvenire o in una posizione apicale (formale o di fatto) di direzione, gestione o amministrazione, ovvero in una relazione di dipendenza dai soggetti che ricoprono le suddette cariche.
É interessante rilevare che tale norma, in chiave antielusiva, fa riferimento alla qualifica soggettiva di fatto, ricomprendendo così anche i soggetti che esercitano, anche di fatto, la gestione o il controllo dell’ente.
A titolo esemplificativo, si pensi alla figura dell’amministrazione di fatto, cioè a colui che gestisce la società, esercitando poteri corrispondenti a quelli dell’amministratore di diritto, pur non disponendo alcun valido titolo (c.d. testa di legno).
La legge inoltre richiede che la commissione del reato risponda ad un “interesse” o “vantaggio”, laddove il primo descrive l’obiettiva preordinazione del reato agli scopi sociali e va valutato ex ante; il secondo invece dà rilevanza al risultato concretamente conseguito, da accertare con una verifica ex post.
I criteri soggettivi invece si fondano, diversamente, sulla c.d. colpa di organizzazione dell’ente, desunta dalla mancata o inidonea adozione di modelli di organizzazione e gestione del rischio, la cui rilevanza varia a seconda della qualifica dell’autore del reato.
Ciò premesso, occorre chiarire che l’analisi delle conseguenze che l’emergenza sanitaria in esame può determinare, non può assolutamente prescindere dal richiamo all’articolo 2087 cc, pietra miliare del sistema prevenzionistico italiano, secondo il quale “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa, le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Ebbene, tra i rischi richiamati dalla disposizione de qua, vi rientra senz’altro anche il Covid-19, possibile danno biologico, al quale sono potenzialmente esposti i prestatori di lavoro.
L’articolo 2087 cc non è l’unica disposizione a rilevare, dal momento che, in detto ambito, eguale valore acquisisce il d.lgs 81 del 2008 noto come “Testo unico in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro” la violazione delle cui norme potrebbe esporre, in presenza di determinate condizioni, la società a responsabilità alla luce del richiamato d.lgs n. 231 del 2001.
Occorre poi volgere lo sguardo sulla normativa emergenziale richiamata dal Governo, in specie, sull’articolo 42 del c.d. Decreto Cura Italia, il quale ha stabilito che il contagio da Covid 19 in occasione dell’esercizio di attività lavorativa costituisce un infortunio sul lavoro, con la inevitabile conseguenza che, laddove un siffatto evento dovesse verificarsi, ricorrerebbero, verosimilmente, gli estremi per procedere all’imputazione nei confronti della persona giuridica ex art. 25 septies D.lgs n. 231 del 2001, dei reati di omicidio colposo e lesione colpose (a seconda che si realizzi o meno l’evento morte), commesse con violazione delle norme scolpite nel TU sulla sicurezza sul lavoro, con la possibilità per l’ente giuridico di incorrere in elevate sanzioni pecuniarie, in altre severe misure interdittive, nonché nel danno c.d. “reputazionale”.
In altre parole, nell’ipotesi in cui un dipendente o un terzo venisse contagiato all’interno dei luoghi di lavoro, potrebbe insorgere una responsabilità sia del datore di lavoro per i reati di lesioni colpose e omicidio colposo, commessi in violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, sia della società per violazione del d.lgs n. 231 del 2001.
Le predette fattispecie incriminatrici potranno essere tuttavia concretamente ascritte in presenza dei seguenti presupposti: il contagio sia avvenuto durante l’attività lavorativa, la violazione della normativa emergenziale e/o del d.lgs n.81 del 2008 e la sussistenza di un nesso causale tra l’evento dannoso e la violazione della predetta normativa.
Orbene, l’adozione di modelli di organizzazione efficaci funge da criterio di esclusione della responsabilità dell’ente ex art 6 comma 1 e art 7 comma 2 del d.lgs n. 231 del 2001 e, in particolare, per evitare di rispondere penalmente, l’ente, pur dotato di un Modello di Organizzazione, Gestione e Controllo (c.d. modello 231) che individui i rischi sanitari e di sicurezza, deve aver altresì adottato tutti i presidi di prevenzione idonei per ridurre al minimo il rischio contagio.
Un ruolo parimenti importante acquista l’Organismo di Vigilanza il quale sarà chiamato ad assicurare un’attività di monitoraggio costante sulle iniziative intraprese e sulle misure di prevenzione adottate, stimolando all’occorrenza, eventuali misure di adeguamento e segnalando possibili proposte di interventi correttivi sul piano organizzativo e informativo.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
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Alessandra Medici
Ha conseguito nel 2016 la laurea magistrale in Giurisprudenza presso la Luiss Guido Carli di Roma, discutendo una tesi in Diritto Penale delle Scienze Mediche e delle Biotecnologie sulla "Responsabilità penale dello psichiatra".
Abilitata all'esercizio della professione forense nel 2019, attualmente collabora con un noto studio legale molisano occupandosi prevalentemente di diritto penale e diritto civile. Per la preparazione teorica, ha frequentato a Roma corsi di formazione giuridica avanzata approfondendo, in particolare, il diritto civile, penale e amministrativo.