Crediti inesistenti e non spettanti: dubbi di costituzionalità
Introduzione. Le collezioni sono un hobby del nostro tempo. Si colleziona di tutto e ciò che è troppo vecchio si chiama vintage. Ciascuno di noi ha interessi diversi e, talvolta strani. I politici, ad esempio, accumulano strafalcioni normativi e coacervi di indistinti dubbi di legittimità costituzionale, senza distinzione alcuna nel rispetto dell’art. 3 della costituzione.
La distinzione tra crediti inesistenti e crediti non spettanti è stata oggetto di studi per molti anni. I crediti inesistenti sono quelli che non hanno mai avuto una base legale o economica reale. Questi crediti possono derivare da operazioni fittizie o da documentazione falsa. La loro inesistenza può essere rilevata solo attraverso controlli approfonditi e non tramite i controlli automatizzati o formali. La Cassazione ha stabilito che per i crediti inesistenti, il termine di accertamento è di otto anni, poiché la loro natura fraudolenta richiede un periodo lungo per essere scoperta e verificata. I crediti non spettanti, invece, sono quelli che, pur essendo stati originariamente legittimi, non sono più validi al momento del loro utilizzo in compensazione. Questo può accadere, ad esempio, se un’azienda ha diritto a un credito d’imposta per un certo periodo, ma continua a utilizzarlo oltre il termine previsto. La mancanza di validità di questi crediti, quindi, a differenza dei precedenti, può essere rilevata tramite controlli automatizzati. Per i crediti non spettanti, si applicano i termini ordinari di accertamento, che sono generalmente più brevi rispetto a quelli per i crediti inesistenti.
Sul punto la sentenza della Corte Cassazione del 11 dicembre 2023 n. 34419 ha avuto un impatto significativo sulla gestione dei crediti fiscali. La Corte ha chiarito che il termine di otto anni per l’accertamento si applica esclusivamente ai crediti inesistenti, mentre per i crediti non spettanti si applicano i termini ordinari. Questo significa che le autorità fiscali hanno un periodo più lungo per indagare e contestare i crediti inesistenti, rispetto ai crediti non spettanti.
Il precetto costituzionale è soddisfatto quando al legislatore delegato ha fornito direttive vincolanti, che limitano ragionevolmente la discrezionalità e indicazioni in merito al contenuto della disciplina delegata. Al legislatore delegato spetta poi realizzare, secondo modalità tecniche prestabilite, le esigenze, le finalità e gli interessi considerati dal legislatore delegante.
Le direttive, i principi e i criteri servono a circoscrivere il campo della delega per evitare che venga esercitata in modo da discostarsi dalle finalità originarie, ma devono, anche, consentire al legislatore delegato di valutare le situazioni giuridiche specifiche da regolamentare. La delega non deve contenere enunciazioni troppo generiche, applicabili a vasti ambiti normativi, né enunciazioni a finalità inidonee a indirizzare l’attività normativa del legislatore delegato.
Il controllo di costituzionalità della Corte riguarda le difformità della norma delegata rispetto a quella delegante, non le scelte di merito del legislatore.
La Corte ha escluso che possa essere definita delega “in bianco”, quella che attribuirebbe al potere delegato un potere illimitato di scelta delle sanzioni e di classificazione dei fatti. La Corte ha rilevato che il legislatore delegante ha assegnato al potere delegato il compito di adeguare la disciplina delle sanzioni tributarie alla riforma prevista dalla legge delega, indicando criteri e limiti al Governo.
Il legislatore delegato deve commisurare e graduare le sanzioni in base alla gravità delle violazioni per adeguare la disciplina preesistente alla riforma. Le nuove norme tributarie dispongono i vari obblighi sostanziali e formali dei contribuenti, che configurano i precetti da sanzionare, non lasciati all’inventiva del legislatore delegato.
Il sistema tributario vigente, e quindi la legge non delegata, prevede le sanzioni amministrative dirette che il legislatore delegato può applicare per la violazione dei precetti. La discrezionalità del legislatore delegato nella scelta dei precetti da sanzionare e delle sanzioni da adottare non è illimitata, poiché il delegante ha subordinato tale discrezionalità alla necessità di commisurare e graduare le sanzioni in base alla gravità delle violazioni. Si tratta quindi di una discrezionalità minima, che consente al potere delegato di adeguare la disciplina preesistente alla riforma, perfezionando il sistema delle sanzioni come prescritto dalla delega.
Non è valido come principio e criterio direttivo un generico rinvio alla discrezionalità del governo. Come affermato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 68 del 1991 e ribadito nella sentenza n. 340 del 2007, il libero apprezzamento del legislatore delegato non può mai essere considerato un principio o criterio direttivo, poiché è contrario alla natura vincolata della legislazione su delega.
La legge delega n. 111/2023 sulla riforma tributaria. La l. 9/8/2023 n. 111, meglio nota come legge delega di riforma del diritto tributario, ha, tra l’altro, introdotto all’art. 20 comma 1 lett. A, n. 5 il seguente principio: “introdurre, in conformità agli orientamenti giurisprudenziali una più rigorosa distinzione normativa anche sanzionatoria tra le fattispecie di compensazione indebita di credito d’imposta non spettanti e inesistenti.” I principi assolutamente generici introdotti nella legge delega pongono due importanti problemi:
– Il dibattito giurisprudenziale relativo alla disciplina dei crediti inesistenti e non spettanti come, abbiamo già anticipato si è protratto per molti anni; pertanto, diventa arduo o addirittura impossibile stabilire quali sono gli indirizzi giurisprudenziali che debbono fare da guida al governo per l’emanazione del decreto delegato. Inoltre, si potrebbe porre un ulteriore problema: i mutamenti giurisprudenziali intervenuti nel tempo avranno un impatto sulla legittimità costituzionale del decreto delegato promulgato prima dei mutamenti giurisprudenziali? Parrebbe che si possa escludere questa eventualità, ma è una conferma lapalissiana del criterio confusionario con cui è stata predisposta la legge delega.
– La legge delega ordina al Governo di emettere il decreto delegato in conformità agli orientamenti giurisprudenziali creando un ulteriore problema. Nel linguaggio giuridico il significato di orientamento giurisprudenziale è pacifico: si tratta di dare applicazione a principi giurisprudenziali sostanzialmente costanti o addirittura ad orientamenti giurisprudenziali consolidati. Nel caso che stiamo affrontando non è chiaro il concetto di orientamenti giurisprudenziali conformi, perché in tantissimi anni non si è creata né una giurisprudenza prevalente né tanto meno una giurisprudenza conforme, cioè una giurisprudenza consolidata. Sulla vicenda non ci possono che essere dubbi. La controversia è stata trasmessa per ben due volte di fronte alla Corte di Cassazione a sezioni Unite con risultati similari. A questo punto il principio elaborato dalla legge delega non ha neppure una base fragile. Il Governo sceglie liberamente l’indirizzo giurisprudenziale di una delle due sentenze? Il Governo sceglie l’ultima delle due sentenze emesse dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite? Il Governo elabora il decreto delegato facendo un misto dei principi contenuti nelle sentenze della Corte di Cassazione.
Alla luce delle considerazioni esposte, prima di affrontare il problema della determinazione del diritto penale su cui ruota, a nostro avviso, l’intera problematica, ci soffermeremo sul contenuto delle pronunce delle Sezioni Unite del 2023, pur essendo consapevoli che non esiste nel nostro ordinamento il principio del precedente giurisprudenziale. Entrambe le sentenze, la 34419 e la 34452, ironia della sorte, entrambe depositate l’11 dicembre 2023, hanno chiarito la distinzione tra crediti inesistenti e non spettanti, concentrandosi sulla definizione delle due categorie, sulle conseguenze sanzionatorie e sui termini di accertamento. La Legge 9 agosto 2023, n. 111 (nota come legge delega per la riforma fiscale), a causa delle incertezze interpretative legate alla difficile distinzione giuridica tra crediti “non spettanti” e “inesistenti”, ha stabilito, con l’art. 20, comma 1, lett. a), n. 5, che il Governo, nell’ambito della delega per la revisione del sistema sanzionatorio tributario, amministrativo e penale, introducesse una distinzione più rigorosa, in conformità agli orientamenti giurisprudenziali, tra le fattispecie di indebita compensazione di crediti d’imposta non spettanti e inesistenti. «La questione è rilevante non solo ai fini sanzionatori (tributari e penali), ma anche per la procedura di accertamento e per determinare i tempi di accertamento concessi all’Amministrazione finanziaria»[1]. La riforma fiscale in corso ha offerto l’opportunità di rivedere o riordinare le disposizioni sparse in materia. Il legislatore delegato, nell’ambito della riforma fiscale, ha rimodulato la disciplina del recupero del credito d’imposta mediante la generalizzazione del principio del contraddittorio endoprocedimentale, l’estensione delle regole sull’accertamento con adesione all’atto di recupero, e l’introduzione dell’art. 38-bis nel D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, che disciplina il “nuovo” atto di recupero dei crediti d’imposta. La distinzione tra crediti non spettanti e inesistenti affrontata con il decreto legislativo sulla revisione del sistema sanzionatorio sarà esaminato per verificare se l’obiettivo della delega sia stato raggiunto. Prima di esaminare la nuova normativa, è utile ripercorrere brevemente le origini del dibattito interpretativo sulla distinzione tra crediti non spettanti e inesistenti. Questo dibattito è stato importante per determinare i tempi di accertamento concessi all’Amministrazione finanziaria e l’entità delle sanzioni amministrative e penali. La confusione interpretativa è nata dalle disposizioni legislative relative agli atti di recupero dei crediti indebitamente utilizzati in compensazione, che, anche prima della riforma fiscale attuale, erano considerati atti amministrativi aggiuntivi rispetto ai tradizionali avvisi di accertamento e venivano utilizzati per contestare specificamente l’illegittima compensazione del credito. Sebbene l’art. 1, comma 421, della Legge 30 dicembre 2004, n. 311, nel disciplinare l’emissione dell’atto di recupero del credito, non distinguesse tra crediti non spettanti e crediti inesistenti, ma si riferisse semplicemente ai crediti indebitamente utilizzati, l’art. 27, comma 16, del Decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, indicava invece un termine di otto anni per la notifica dell’atto di recupero, citando solo i crediti inesistenti. Questo ha portato a un acceso dibattito giurisprudenziale riguardo ai tempi concessi dal legislatore all’Amministrazione finanziaria per contestare un credito la cui esistenza non fosse controversa, ma fosse in discussione solo il mancato rispetto delle regole per opporlo in compensazione. Recentemente, le Sezioni Unite sono intervenute affermando che, in tema di compensazione di crediti da parte del contribuente, il termine di otto anni per l’azione di accertamento dell’Erario, previsto dall’art. 27, comma 16, del D.L. n. 185/2008, si applica solo quando il credito utilizzato è inesistente. Questa condizione si verifica quando: a) il credito, in tutto o in parte, è il risultato di una rappresentazione artificiosa, è privo dei presupposti previsti dalla legge, o è già estinto al momento del suo utilizzo; b) l’inesistenza non è riscontrabile mediante i controlli automatizzati o formali previsti dagli artt. 36-bis e 36-ter del D.P.R. n. 600/1973 e dall’art. 54-bis del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633. Se il primo requisito è soddisfatto ma l’inesistenza è riscontrabile tramite controlli automatizzati o formali, la compensazione indebita riguarda crediti non spettanti e si applicano i termini ordinari per l’attività di accertamento. Per quanto riguarda il sistema sanzionatorio, il legislatore ha voluto distinguere chiaramente tra la violazione relativa ai crediti non spettanti e quella relativa ai crediti inesistenti, in caso di utilizzo indebito dei crediti in compensazione.
Le Sentenza 11 dicembre 2023 n. 34419 e n. 34452. Le sentenze precedenti, come la sentenza 33568/2022, non facevano una distinzione chiara tra crediti inesistenti e crediti non spettanti. La sentenza 33568/2022, ad esempio, si concentrava sulla deducibilità dei costi e sull’onere della prova, ribadendo che l’onere della prova per la deducibilità dei costi resta in capo al contribuente5. Non affrontava direttamente la distinzione tra crediti inesistenti e non spettanti, né stabiliva termini di accertamento specifici per tali crediti. La Corte Suprema di Cassazione, Sezioni Unite Civili, con le sentenze n. 34419 e n. 34452 ha affrontato la distinzione tra “crediti d’imposta inesistenti” e “crediti d’imposta non spettanti”. La sentenza ha stabilito che, in caso di compensazione indebita di crediti inesistenti, si applica un termine di accertamento più lungo di otto anni. La Corte ha chiarito che un credito è considerato inesistente quando è il risultato di una rappresentazione artificiosa o manca dei presupposti previsti dalla legge, oppure è già estinto al momento del suo utilizzo e si considera non spettante quando emerge dalla disciplina dei controlli formali. Con termine di decadenza di cinque anni. Per comprendere fino in fondo la distinzione tra la disciplina ante 2002 e la successiva ci soffermeremo su una delle sentenze 2023.
La Commissione tributaria regionale di Milano con la sentenza n. 1662/36/14 del 31 marzo 2014, ha respinto l’appello presentato da Grafiche Mazzucchelli Spa avverso la sentenza n. 50/25/13 della Commissione tributaria provinciale, che aveva rigettato il ricorso della società contro gli avvisa di accertamento per gli anni d’imposta 2006 e 2007, relativo al recupero di un’agevolazione per l’acquisto di beni strumentali, indebitamente compensata. L’avviso di accertamento era stato emesso, perché la società, dopo aver acquistato due macchine per la stampa in rotativa da utilizzare esclusivamente per la produzione di prodotti editoriali in lingua italiana, beneficiando così del credito d’imposta previsto dall’art. 8, comma 2, lett. a), della legge 7 marzo 2001, n. 62, aveva utilizzato le rotative anche per altri prodotti editoriali non in lingua italiana, perdendo così il diritto all’agevolazione.
La Commissione tributaria regionale ha respinto l’appello della Mazzucchelli, sottolineando che: «a) Il Ministero dello sviluppo economico aveva disconosciuto l’agevolazione. b) Le rotative acquistate non erano state utilizzate interamente per la produzione editoriale in lingua italiana.
Contro questa decisione, Grafiche Mazzucchelli Spa ha presentato ricorso per cassazione con otto motivi, riproponendo, in particolare, l’eccezione di decadenza della potestà accertativa dell’Amministrazione finanziaria per l’anno 2006». L’Agenzia delle entrate ha risposto con un controricorso.
Con l’ordinanza n. 35536/2022, depositata il 2 dicembre 2022, la Sezione Tributaria ha rimesso la causa al Primo Presidente per valutare l’opportunità di assegnarla alle Sezioni Unite civili, rilevando un contrasto interpretativo interno alla Sezione Tributaria sulla distinzione tra crediti d’imposta inesistenti e crediti d’imposta non spettanti, distinzione rilevante per determinare il termine per l’esercizio della potestà accertativa da parte dell’Amministrazione finanziaria.
Il Presidente ha quindi disposto l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite. In prossimità dell’udienza, la Procura Generale ha depositato una memoria sulla questione di rilievo nomofilattico. La questione esaminata dalle Sezioni Unite aveva a oggetto la natura del credito d’imposta come inesistente ovvero come non spettante. Questo influisce sull’applicabilità del termine di decadenza lungo otto anni nel primo caso, cinque nel secondo caso, decorrente in entrambi i casi dalla data di utilizzo.
La contribuente ha sollevato la questione con due fondamentali motivi di ricorso:
Con il primo motivo, di natura processuale è stata denunciata la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 112 del codice di procedura civile per il fatto che la Commissione Tributaria Regionale (CTR) non si è pronunciata sull’eccezione di decadenza dal recupero per l’anno d’imposta 2006. Il secondo motivo ha denunciato la violazione, tra l’altro, 25 della Costituzione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, del codice di procedura civile, per il fatto che la CTR ha erroneamente ritenuto che l’Amministrazione finanziaria non fosse decaduta dai poteri di accertamento per l’anno d’imposta 2006.
La prima censura è stata respinta. «Come correttamente prospettato nell’ordinanza di rimessione, la sentenza impugnata ha espressamente fatto riferimento alla contestazione formulata dalla ricorrente riguardo l’inapplicabilità del termine lungo di decadenza, per poi concludere per il rigetto “in diritto” del ricorso. Pertanto, si deve ritenere che la sentenza abbia preso in considerazione il rilievo della società contribuente, rigettandolo e decidendo la controversia nel merito.
Passando all’esame del secondo motivo e della questione in discussione, la contribuente sostiene che le due categorie di crediti sono oggettivamente diverse. La contestazione dell’Agenzia delle Entrate ha sempre riguardato solo la spettanza del credito e non la sua esistenza: l’acquisto dei macchinari che avevano dato origine al diritto e le spese sostenute non sono mai stati messi in discussione, né era dubbia la veridicità della documentazione relativa agli investimenti».
L’ordinanza di rimessione evidenzia che esiste un persistente contrasto all’interno della Sezione Tributaria riguardo alla questione specifica.
Di seguito un breve riepilogo delle alterne vicende giudiziarie che hanno interessato i crediti inesistenti e non spettanti (soprattutto in considerazione della scelta del legislatore delegato di indicare come criterio guida della riforma la giurisprudenza dominante).
Primo Orientamento (Maggioritario e Risalente):
Secondo questo orientamento, non vi è alcuna differenza tra le nozioni di “credito inesistente” e “credito non spettante”.
«L’art. 27, comma 16, del D.L. 185/2008, convertito con modifiche dalla l. 2/2009, non intende elevare l’inesistenza del credito a categoria distinta dalla non spettanza, ma garantire un margine di tempo adeguato alle verifiche riguardanti l’investimento generatore del credito d’imposta». Questo margine di tempo è fissato in otto anni, senza applicare il termine più breve stabilito dall’art. 43 del d.P.R. 600/1973 per il comune avviso di accertamento.
Ogniqualvolta il credito derivante dall’investimento non sussiste, deve ritenersi inesistente nel senso precisato dalla norma (Cass. n. 10112 del 21/04/2017, Cass. n. 19237 del 02/08/2017, Cass. n. 24093 del 30/10/2020, Cass. n. 354 del 13/01/2021, Cass. n. 31859 del 05/11/2021).
Secondo Orientamento (Sentenze “Gemelle” del 2021):
Le sentenze n. 34443, 34444 e 34445 del 16/11/2021 si sono poste in dissenso rispetto al primo orientamento.
Le sentenze n. 34444 e n. 34445 del 2021 hanno rilevato che la nozione di credito inesistente è stata positivamente dettata con il “nuovo” art. 13, comma 5, terzo periodo, del d.lgs. n. 471/1997, come introdotto dall’art. 15 del d.lgs. n. 158/2015.
Hanno concluso che il precedente orientamento debba essere superato anche per effetto della citata novella, poiché nella definizione positiva di “credito inesistente” si può rinvenire la conferma della distinzione delle due categorie, già sulla base dell’originario impianto normativo concernente la riscossione dei crediti d’imposta indebitamente utilizzati.
Considerazioni Finali
L’art. 27, comma 16, del D.L. n. 185/2008, concerne la sola “riscossione di crediti inesistenti utilizzati in compensazione ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241”.
«La novella del 2015 si innesta nella riscrittura della norma già contenuta nel contestualmente abrogato art. 27, comma 18, del D.L. citato, e mira a specificare il contenuto del precetto originario, ancorando la nozione di “credito inesistente” a una dimensione “non reale” o “non vera”, priva di elementi giustificativi fenomenicamente apprezzabili, se non anche con connotazioni di fraudolenza» [2].
il primo orientamento è stato ripreso con l’ordinanza Cass. n. 25436 del 29/08/2022.
Il nuovo approccio ermeneutico è stato da ultimo condiviso da Cass. n. 5243 del 20/02/2023 e da 34419 del 11/12/2023.
Al fine di semplificare la lettura degli orientamenti giurisprudenziali e delle novità della riforma si riportano alcuni esempi di crediti inesistenti:
Crediti fittizi: Crediti creati artificialmente senza alcuna transazione reale sottostante. Ad esempio, un’azienda potrebbe dichiarare di aver effettuato acquisti inesistenti per ottenere un credito d’imposta.
Crediti duplicati: Crediti dichiarati più volte per la stessa spesa o transazione. Ad esempio, un contribuente potrebbe dichiarare lo stesso credito d’imposta in più dichiarazioni fiscali.
Crediti estinti: Crediti che sono già stati utilizzati o compensati in precedenza, ma che vengono nuovamente dichiarati come disponibili. Ad esempio, un credito d’imposta già utilizzato in un anno fiscale precedente viene dichiarato nuovamente in un anno successivo.
Crediti derivanti da documentazione falsa: Crediti basati su fatture o documenti falsi. Ad esempio, un’azienda potrebbe presentare fatture false per ottenere un credito d’imposta.
Nonostante un’attenta lettura della legge delega n. 111/2023 e del decreto legislativo n. 74/2000 in relazione alla sentenza sopra menzionata, non si può affermare che il legislatore abbia definitivamente risolto il problema dei crediti inesistenti e dei crediti non spettanti. Di questi temi faremo cenno in questa sede, per poi approfondirli nel paragrafo successivo alla luce del principio della riserva di legge e della determinatezza.
Il principio di determinatezza, strettamente legato al principio di legalità, riguarda la formulazione precisa delle norme giuridiche. Questo principio garantisce che le norme siano chiare e applicabili con certezza, evitando arbitrii da parte dei giudici. È essenziale per la certezza giuridica e rappresenta il nucleo del principio di legalità, poiché il legislatore deve non solo definire i reati, ma anche delineare con precisione il contenuto delle norme. Ciò permette ai cittadini di conoscere con certezza ciò che è vietato e di evitare interpretazioni arbitrarie da parte dei giudici.
Le norme penali devono essere formulate in termini chiari e precisi per consentire ai cittadini di comprendere le conseguenze delle loro azioni e per impedire l’arbitrio giudiziario. Talvolta, il termine “determinatezza” è usato come sinonimo di “tassatività”, ma può anche essere suddiviso in precisione, determinatezza e tassatività. La precisione è un obbligo per il legislatore di disciplinare con chiarezza i reati e le sanzioni, mentre la determinatezza richiede la descrizione di fatti accertabili e provabili nel processo.
Il principio di determinatezza è fondamentale per garantire che le norme penali siano chiare e precise, evitando così arbitri giudiziari e assicurando la prevenzione generale della pena. Inoltre, assicura ai cittadini una percezione chiara e immediata dei profili illeciti delle loro condotte, permettendo loro di autodeterminarsi nelle loro scelte.
Nel nostro ordinamento, il principio di determinatezza non è esplicitamente menzionato nella Costituzione o nelle leggi ordinarie, ma è ricavabile dalle norme che enunciano il principio di legalità, come l’art. 1 c.p. e l’art. 199 c.p. Inoltre, l’art. 25 Cost. e l’art. 14 delle preleggi contribuiscono a delineare questo principio, vietando l’applicazione analogica delle norme penali.
Il principio di determinatezza garantisce la certezza del diritto, la conoscibilità delle norme e la prevedibilità delle conseguenze giuridiche delle azioni dei cittadini. È anche strumentale per garantire l’uguaglianza di trattamento e per evitare arbitri da parte dei giudici, assicurando che le scelte di politica criminale siano affidate esclusivamente al legislatore.
Determinatezza: la definizione di crediti non spettanti e inesistenti alla luce della riforma. Il decreto delegato, che riforma le sanzioni, introduce una nuova distinzione tra crediti d’imposta inesistenti e non spettanti, rilevante sia dal punto di vista amministrativo che penale.
Crediti d’imposta inesistenti:
Sono considerati inesistenti quei crediti per i quali mancano, in tutto o in parte, i requisiti oggettivi o soggettivi, specificamente indicati nella normativa di riferimento.
Sono anche considerati inesistenti quei crediti i cui requisiti oggettivi e soggettivi sono rappresentati in modo fraudolento, utilizzando documenti falsi, simulazioni o artifici.
Crediti d’imposta non spettanti:
Sono considerati non spettanti quei crediti utilizzati in violazione delle modalità di utilizzo previste dalle leggi vigenti o, per l’eccedenza, quelli utilizzati in misura superiore a quella stabilita dalle norme di riferimento.
Sono anche considerati non spettanti quei crediti che, pur avendo i requisiti soggettivi e oggettivi indicati nella normativa di riferimento, sono basati su fatti che non rientrano nella disciplina del credito a causa della mancanza di ulteriori elementi o qualità particolari richiesti per il riconoscimento del credito.
Infine, sono considerati non spettanti quei crediti utilizzati senza aver adempiuto agli obblighi amministrativi prescritti, la cui mancata osservanza comporta la decadenza del diritto al credito.
Il contributo fornito affronta la distinzione tra crediti di imposta inesistenti e non spettanti, alla luce delle recenti sentenze delle Sezioni Unite della Cassazione del dicembre 2023 e delle modifiche al regime sanzionatorio penale ed amministrativo previste dalla riforma fiscale.
La Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha risolto un contrasto interpretativo, affermando che il termine di otto anni per il recupero dei crediti di imposta utilizzati in compensazione si applica solo ai crediti di imposta inesistenti. «Il legislatore delegato ha coordinato la durata dei termini di controllo dei crediti di imposta utilizzati in compensazione, prevedendo un termine differenziato, ma con unico termine iniziale coincidente con la data di utilizzo del credito di imposta»[3]. Inoltre, ha riscritto il regime sanzionatorio dell’indebito utilizzo di crediti di imposta.
L’origine della distinzione tra crediti di imposta inesistenti e non spettanti risale alla previsione di crediti d’imposta agevolativi utilizzabili in compensazione. L’utilizzo di questi crediti ha avuto un effetto imprevisto sulla riduzione del gettito erariale, giustificando un periodo di sospensione. Tuttavia, l’utilizzo dei crediti non si è arrestato, portando l’Amministrazione finanziaria a selezionare i contribuenti da controllare e a emettere atti di recupero dei crediti indebitamente utilizzati.
Nonostante gli interventi legislativi, dal 2017 al 2021 si era consolidato un orientamento della Corte di Cassazione secondo cui il maggior termine di controllo si applicava a ogni ipotesi di utilizzo di crediti di imposta agevolativi. Tuttavia, un altro filone della Corte ha sostenuto che i crediti di imposta inesistenti richiedono due presupposti: assenza del presupposto costitutivo e mancato riscontro dai controlli automatizzati. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno chiarito l’ambito applicativo del termine speciale di decadenza e gli effetti sanzionatori previsti per le due tipologie di credito di imposta.
Le sentenze 34419/2023 e 34452/2023della Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha chiarito la distinzione tra crediti di imposta inesistenti e non spettanti. La Corte ha confermato che il termine di otto per il recupero dei crediti di imposta utilizzati in compensazione si applica solo ai crediti di imposta inesistenti, basandosi sui presupposti stabiliti dalle sentenze del 16 novembre 2021.
Punti chiave della sentenza:
Crediti di imposta inesistenti: Sono quelli creati artificialmente, senza riscontro documentale, o mediante attività fraudolente. Questi crediti sono rilevabili solo attraverso controlli contabili approfonditi.
Crediti di imposta non spettanti: Sono quelli che mancano di alcuni presupposti costitutivi, ma non sono creati fraudolentemente. La loro non spettanza può essere riscontrata tramite controlli formali o automatizzati.
Principio di diritto stabilito:
Il termine di otto anni per l’azione di accertamento si applica quando il credito è inesistente, caratterizzato da una rappresentazione artificiosa o mancanza dei presupposti costitutivi previsti dalla legge. Se la non spettanza del credito è riscontrabile tramite controlli formali, si applicano i termini ordinari per l’accertamento. Cioè, data di utilizzo del credito di imposta.
Il decreto legislativo 12 febbraio 2024, n. 13, ha introdotto l’art. 38-bis del d.P.R. 600 del 1973, uniformando i termini di accertamento dei crediti di imposta indebitamente utilizzati. Questo decreto ha abrogato gli articoli 1, comma 421 della legge n. 311 del 2004 e 27, comma 16 del decreto-legge n. 185 del 2008, stabilendo che il termine per l’attività di accertamento per i crediti di imposta non spettanti o inesistenti è il 31 dicembre del quinto o dell’ottavo anno successivo a quello di utilizzo.
Modifiche principali:
definizione dei crediti di imposta: il credito di imposta non spettante è definibile, mentre il credito di imposta inesistente continua ad essere identificato dalla mancanza del presupposto costitutivo, in tutto o in parte.
violazioni amministrative: se il credito di imposta è utilizzato correttamente ma ci sono violazioni di adempimenti amministrativi, il credito è considerato spettante, con una sanzione di 250 euro, se tali adempimenti non sono essenziali al riconoscimento del credito e la violazione è rimossa entro un anno.
riduzione delle sanzioni: la sanzione per l’indebito utilizzo del credito di imposta non spettante si riduce dal 30% al 25%, mentre quella per il credito di imposta inesistente si riduce al 70%, aumentando in caso di frodi.
Considerazioni:
La nuova normativa separa nettamente le ipotesi di indebito utilizzo del credito di imposta, prevedendo un differente regime sanzionatorio.
Sono stati eliminati i controlli automatizzati per legittimare l’inesistenza dei crediti di imposta.
Applicazione retroattiva: La nuova disciplina non si applica retroattivamente, trovando applicazione solo per violazioni commesse successivamente all’entrata in vigore della norma.
Criticità:
Equità delle sanzioni: La sentenza n. 34419/2023 della Corte di Cassazione equipara condotte fraudolente a quelle con un grado di offensività inferiore, creando possibili iniquità.
Avevamo anticipato che occupandoci dei crediti inesistenti e non spettanti saremo dedicati all’istituto in generale, ma con una particolare attenzione al problema della legittimità costituzionale della riforma per la quale nutriamo particolari perplessità con particolare riferimento alle soluzioni di diritto penale adottato. Abbiamo, già, esposto per grandi linee dubbi sulla legge delega, per la mancanza di criteri precisi ai quali avrebbe dovuto attenersi il Governo nella emanazione del decreto delegato.
L’art. 1 comma 1 della legge 74/2000. La situazione è ancora più controversa leggendo lettera g-quater e g-quinquies.
Per “crediti inesistenti” si intendono:
1) i crediti per i quali mancano, in tutto o in parte, i requisiti oggettivi o soggettivi specificamente indicati nella disciplina normativa di riferimento;
2) i crediti per i quali i requisiti oggettivi e soggettivi di cui al numero 1) sono oggetto di rappresentazioni fraudolente, attuate con documenti materialmente o ideologicamente falsi, simulazioni o artifici;
Per “crediti non spettanti” si intendono:
1) i crediti che siano fruiti in violazione delle modalità di utilizzo previste dalle leggi vigenti ovvero, per la relativa eccedenza, quelli fruiti in misura superiore a quella stabilita dalle norme di riferimento;
2) i crediti che, pur in presenza dei requisiti soggettivi e oggettivi specificamente indicati nella disciplina normativa di riferimento, sono fondati su fatti non rientranti nella disciplina attributiva del credito per difetto di ulteriori elementi o particolari qualità richiesti ai fini del riconoscimento del credito;
3) i crediti utilizzati in difetto dei prescritti adempimenti amministrativi espressamente previsti a pena di decadenza.
La lettura dell’art. 1 del d. lgs. 74/2000, lett. g-quater, è un coacervo di dubbi di legittimità costituzionale e probabilmente questo giudizio deve considerarsi assolutamente ottimistico. Invero, il testo appare come il meglio delle violazioni costituzionali, soprattutto con riferimento a quelle di natura penale. Alla lettera g-quater si legge che per crediti inesistenti si intendono “i crediti per i quali mancano in tutto o in parte i requisiti oggettivi o soggettivi specificatamente indicati nella disciplina di riferimmo”. Non è affatto chiaro cosa s’intenda con requisiti oggettivi e soggettivi “specificamente indicati”: il requisito oggettivo o soggettivo è specificatamente indicato, qualora chiaramente individuato, ab origine, dal legislatore nella formulazione della disciplina di riferimento. È superfluo ai fini della dichiarazione di inesistenza del credito la richiesta di “requisiti specificamente indicati”, poiché, se questi non vi fossero, la normativa non potrebbe considerarsi idonea, né dal punto di vista oggettivo né soggettivo, per qualificare i crediti come esistenti o meno.
Il ragionamento del legislatore, quindi, è meramente tautologico, poiché ai fini accertativi e sanzionatori richiede requisiti che devono necessariamente sussistere per l’esistenza stessa del credito.
Al punto due si legge che i crediti per i quali “i requisiti oggettivi e soggettivi di cui al n. 1, sono oggetto di rappresentazioni fraudolente, attuate con documenti materialmente o ideologicamente falsi, simulazioni o artifici” sono inesistenti. I requisiti oggettivi e soggettivi di cui parla il legislatore non sono inesistenti in assoluto, ma sono, piuttosto, di fatto e di diritto pseudo requisiti mai venuti alla luce, poiché sorti da rappresentazioni fraudolente. La presenza di documenti materialmente o ideologicamente falsi, simulazioni o artifici, non crea neppure un simulacro dei requisiti richiesti per la compensazione. I criteri in questione, di fatto, non esistono.
Il legislatore ha previsto le sanzioni penali per i crediti inesistenti in genere, ma non che siano specificatamente frutto di attività documentale fraudolenta o di simulazioni, contravvenendo così con gli artt. 25 e 3 della Cost. La Corte Costituzionale, d’altronde, ha sempre ritenuto illegittimi i precetti dotati di una sanzione unica, cioè privi di sanzioni comprese tra il minimo e il massimo, perché privano il giudice della capacità di graduare, nella sua valutazione, la severità della sanzione in rapporto alla concreta situazione di fatto che deve essere decisa.
In conclusione, non è dato stabilire quali sanzioni debbono essere applicate ai crediti inesistenti fraudolenti, a fronte dei crediti inesistenti per mancanza assoluta dei requisiti oggettivi e soggettivi.
Con la lettera g-quinquies n. 1 il legislatore ha disciplinato i crediti non spettanti, ovverosia quelli “fruiti in violazione delle modalità di utilizzo previste dalle leggi vigenti ovvero, per la relativa eccedenza, quelli fruiti in misura superiore a quella stabilita dalle norme di riferimento”. Anche in questo caso la definizione fornita dal legislatore appare, sotto molti aspetti, più conforme alla figura degli inesistenti, che a quella dei non spettanti.
Il credito fruito in misura superiore a quello della norma di riferimento non può essere considerato non spettante, ma deve essere considerato senz’altro inesistente, a meno che il legislatore non voglia fare riferimento al concetto espresso dalla giurisprudenza che il credito, deve considerarsi superiore perché va utilizzato in un periodo fiscale successivo. Questa interpretazione è senz’altro forzata, poiché il contenuto della disposizione normativa deve essere ricavato dalla legge e non dai principi delle sentenze gemelle del 2023 della Corte di cassazione. Se il termine per l’utilizzo del credito è scaduto, non possiamo parlare di crediti non spettanti, ma occorre, più correttamente parlare di inesistenti.
L’articolo prosegue alla lettera g-quinques n. 2, definendo come non spettanti anche i crediti che “pur in presenza dei requisiti soggettivi e oggettivi specificamente indicati nella disciplina normativa di riferimento, sono fondati su fatti non rientranti nella disciplina attributiva del credito per difetto di ulteriori elementi o particolari qualità richiesti ai fini del riconoscimento del credito”. Questa definizione viola apertamente il principio penalistico della determinazione. Non si comprende quali sarebbero gli ulteriori elementi o particolari qualità richieste al fine del riconoscimento del credito; soprattutto non si comprende come dovrebbe fare il cittadino comune a capire il significato di una disposizione così arzigogolata. Quali sono queste qualità al fine del riconoscimento del credito? Chi dovrebbe stabilirle, l’Agenzia delle Entrate? Ritengo che bisognerà rimettere la questione alla Corte Costituzionale.
Infine, il legislatore, ancora non pago della confusione sin qui generata in tema di crediti non esistenti e non spettanti, ritiene di aggiungere alla lettera g-quinquies, n. 3 stabilendo che si definiscono non spettanti anche i “crediti utilizzati in difetto dei prescritti adempimenti amministrativi espressamente previsti a pena di decadenza”. Quindi, pur mutando la terminologia, sorge il problema che si rinviene già al numero 2 del comma in questione: l’indeterminatezza dei “prescritti adempimenti amministrativi”. Pertanto, la definizione di cui al numero tre appare assolutamente sovrabbondante e, anzi, ostativa a qualificare correttamente i crediti come non spettanti, o inesistenti. Il problema è particolarmente delicato, perché la normativa sul procedimento amministrativo ha dato la definizione di revoca, nullità, annullabilità e sanzione, ma non ha dato la definizione del concetto di decadenza, che è stato elaborato in modo non sempre omogeneo dalla dottrina amministrativistica.
La lettura dell’articolo 1 del decreto legislativo 74/2000, lettera g-quater, solleva numerosi dubbi di legittimità costituzionale, e questa valutazione potrebbe essere persino ottimistica. Infatti, il testo sembra rappresentare un coacervo di violazioni costituzionali, soprattutto in ambito penale. La lettera g-quater definisce i crediti inesistenti come quelli per i quali mancano, in tutto o in parte, i requisiti oggettivi o soggettivi specificamente indicati nella normativa di riferimento. Tuttavia, non è chiaro cosa si intenda per requisiti oggettivi e soggettivi “specificamente indicati”: tali requisiti dovrebbero essere chiaramente individuati dal legislatore nella formulazione della normativa di riferimento. Richiedere “requisiti specificamente indicati” per dichiarare l’inesistenza di un credito è superfluo, poiché se tali requisiti non esistessero, la normativa non sarebbe idonea a qualificare i crediti come esistenti o meno.
Il ragionamento del legislatore è quindi tautologico, poiché richiede requisiti che devono necessariamente esistere per l’esistenza stessa del credito. Al punto due si afferma che i crediti per i quali i requisiti oggettivi e soggettivi sono oggetto di rappresentazioni fraudolente, attuate con documenti falsi, simulazioni o artifici, sono inesistenti. I requisiti oggettivi e soggettivi di cui parla il legislatore non sono prerogative, ma spettri mai venuti alla luce, poiché derivano da rappresentazioni fraudolente. La presenza di documenti falsi, simulazioni o artifici non crea neppure un simulacro dei requisiti richiesti per la compensazione. Di fatto, tali requisiti non esistono.
Il legislatore ha previsto sanzioni penali per i crediti inesistenti in generale, ma non specificamente per quello frutto di attività fraudolenta o simulazioni, contravvenendo così agli articoli 25 e 3 della Costituzione. La Corte Costituzionale ha sempre ritenuto illegittimi i precetti dotati di una sanzione unica, poiché privano il giudice della capacità di graduare la severità della sanzione in base alla situazione concreta. In conclusione, non è chiaro quali sanzioni debbano essere applicate ai crediti inesistenti fraudolenti rispetto a quelli inesistenti per mancanza assoluta dei requisiti oggettivi e soggettivi. Si pone quindi il problema dell’intervento della Corte Costituzionale in malam partem.
Le sentenze della Corte Costituzionale in malam partem. Ci si è chiesti se la Corte Costituzionale abbia un ruolo nell’ambito penale, in particolare riguardo all’ammissibilità delle sentenze cosiddette “in malam partem”. Ma cosa sono queste sentenze? Sono decisioni che producono effetti sfavorevoli perché:
Estendono l’applicazione della norma incriminatrice a casi non previsti.
Aggravano le sanzioni previste dalla norma incriminatrice.
La compatibilità delle sentenze in malam partem con il principio di riserva di legge e le esigenze ad esso sottese è stata oggetto di discussione. La Corte Costituzionale ha ripetutamente affermato che è necessario distinguere tra diverse tipologie di sentenze in malam partem:
Sentenze Manipolative o Additive: Queste sentenze non dichiarano l’incostituzionalità della norma incriminatrice, ma la manipolano estendendone l’applicazione o aggravando le sanzioni. Ad esempio, una norma è illegittima nella parte in cui non prevede la punizione di un altro caso o una pena più grave. Le questioni di incostituzionalità sollevate dai giudici che richiedono tali sentenze devono essere dichiarate inammissibili, poiché la Corte violerebbe il principio di riserva di legge, riservato esclusivamente alla legge.
Sentenze Limitative: Queste sentenze producono effetti sfavorevoli ma non violano il principio di riserva di legge, poiché non sono il risultato di una scelta di politica criminale della Corte. Si riferiscono a casi in cui una norma incostituzionale di favore (che introduce un trattamento penale più favorevole rispetto alla norma comune) viene dichiarata incostituzionale, ripristinando la norma comune più sfavorevole. In questi casi, l’effetto sfavorevole non è il risultato di una scelta della Corte, ma di una verifica di incostituzionalità della norma di favore.
Tuttavia, ci si chiede quali siano i rapporti tra queste sentenze e i principi che governano l’efficacia nel tempo delle norme penali (irretroattività e retroattività favorevole). Occorre distinguere due ipotesi:
Quando il fatto è stato commesso durante la vigenza della norma di favore poi dichiarata incostituzionale, con conseguente ripristino della norma comune più sfavorevole. In questo caso, la sentenza della Corte Costituzionale, pur coerente con il principio di riserva di legge, non può produrre effetti nel caso specifico, per evitare di sacrificare il principio di irretroattività sfavorevole.
Quando il fatto è stato commesso durante la vigenza della norma comune, cui è poi sopravvenuta una norma di favore dichiarata incostituzionale. In questo caso, il soggetto avrebbe diritto alla retroazione favorevole della norma più favorevole. La questione riguarda l’ammissibilità di una sentenza in malam partem che preclude l’operatività del principio di retroattività favorevole.
La disamina di questa questione richiede l’esame del rango e della cogenza del principio di retroattività favorevole, chiedendosi se esista nel nostro ordinamento costituzionale e se sia un principio assoluto o relativo.
Con la lettera g-quinquies, il legislatore ha disciplinato i crediti non spettanti, ovvero quelli fruiti in violazione delle modalità di utilizzo previste dalle leggi vigenti o in misura superiore a quella stabilita dalle norme di riferimento. Anche in questo caso, la definizione fornita dal legislatore appare più conforme alla figura dei crediti inesistenti che a quella dei crediti non spettanti. Il credito fruito in misura superiore a quella prevista dalla norma di riferimento non può essere considerato non spettante, ma deve essere considerato inesistente, a meno che il legislatore non faccia riferimento al concetto espresso dalla giurisprudenza secondo cui il credito deve essere considerato superiore perché va utilizzato in un periodo fiscale successivo. Questa interpretazione è forzata, poiché il contenuto della disposizione normativa deve essere ricavato dalla legge e non dai principi delle sentenze della Corte di Cassazione del 2023. Se il termine per l’utilizzo del credito è scaduto, non possiamo parlare di crediti non spettanti, ma di crediti inesistenti.
L’articolo prosegue alla lettera g-quinquies n. 2, definendo come non spettanti anche i crediti che, pur in presenza dei requisiti soggettivi e oggettivi specificamente indicati nella normativa di riferimento, sono fondati su fatti non rientranti nella disciplina attributiva del credito per mancanza di ulteriori elementi o particolari qualità richiesti per il riconoscimento del credito. Questa definizione viola il principio penalistico della determinazione. Non è chiaro quali siano gli ulteriori elementi o particolari qualità richiesti per il riconoscimento del credito, né come un cittadino comune possa comprendere una disposizione così complessa. Chi dovrebbe stabilire queste qualità, l’Agenzia delle Entrate? Ritengo che la questione debba essere rimessa alla Corte Costituzionale.
Infine, il legislatore, non soddisfatto della confusione generata in tema di crediti inesistenti e non spettanti, aggiunge il n. 3 alla lettera g-quinquies, stabilendo che sono non spettanti anche i crediti utilizzati in difetto dei prescritti adempimenti amministrativi espressamente previsti a pena di decadenza. Anche in questo caso, sorge il problema dell’indeterminatezza dei “prescritti adempimenti amministrativi”. Pertanto, la definizione di cui al numero tre appare sovrabbondante e ostativa a qualificare correttamente i crediti come non spettanti o inesistenti. Il problema è particolarmente delicato, poiché la normativa sul procedimento amministrativo ha definito revoca, nullità, annullabilità e sanzione, ma non ha definito il concetto di decadenza, che è stato elaborato in modo non sempre omogeneo dalla dottrina amministrativistica.
Il principio di determinatezza è un corollario del principio di legalità e riguarda la formulazione precisa delle norme giuridiche. Questo principio è fondamentale per garantire la certezza del diritto e prevenire l’arbitrarietà nell’applicazione delle norme da parte dei giudici.
In particolare, il principio di determinatezza richiede che le norme penali siano formulate in modo chiaro e preciso, permettendo ai cittadini di comprendere esattamente quali comportamenti sono vietati e quali sono le conseguenze delle loro azioni. Questo aiuta a evitare interpretazioni arbitrarie da parte dei giudici e garantisce che i cittadini possano autodeterminarsi nelle loro scelte di azione.
Il principio di determinatezza è strettamente legato alla certezza giuridica, poiché norme chiare e precise sono essenziali per far comprendere ai cittadini cosa è vietato e cosa no. Senza questo principio, le garanzie offerte ai cittadini dalle fonti del diritto penale perderebbero di efficacia, con ripercussioni negative sulla prevenzione generale della pena e sul principio di colpevolezza.
In sintesi, il principio di determinatezza assicura che i cittadini abbiano una percezione chiara e immediata dei profili illeciti delle loro condotte, permettendo loro di agire in conformità con le norme giuridiche e prevenendo l’arbitrarietà nell’applicazione delle leggi.
Nel nostro ordinamento giuridico, il principio di determinatezza non è esplicitamente menzionato né nella Costituzione né nelle leggi ordinarie. Tuttavia, può essere dedotto dalle norme che enunciano il principio di legalità, in particolare dall’art. 1 del codice penale, dove l’uso dell’avverbio “espressamente” è generalmente interpretato come un divieto di interpretazione analogica delle norme penali. Simili conclusioni si possono trarre dall’art. 199 del codice penale, che tratta del principio di legalità e delle misure di sicurezza, utilizzando l’avverbio “espressamente” e facendo riferimento ai “casi” previsti dalla legge, sottolineando così la necessità di previsioni determinate e il divieto di applicazione analogica.
Se si considera il principio di determinatezza insieme a quello di tassatività, un’ulteriore fonte è l’art. 14 delle preleggi, che stabilisce che le leggi penali e quelle eccezionali non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati.
Il recepimento costituzionale del principio di determinatezza è desunto dall’interpretazione dell’art. 25 della Costituzione, che utilizza una formulazione simile a quella dell’art. 199 del codice penale per quanto riguarda le misure di sicurezza, affermando che “nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge”. Per quanto riguarda l’incriminazione e la sanzione, l’art. 25 si concentra principalmente sulla riserva di legge e sull’irretroattività. Tuttavia, l’interpretazione sistematica della norma ha portato a ritenere costituzionalizzato il principio di determinatezza nella sua duplice accezione di formulazione determinata della legge e divieto di analogia.
Alcuni hanno anche dedotto la costituzionalizzazione del principio di determinatezza dall’art. 13, comma 2 della Costituzione, che prevede che “non è ammessa forma alcuna di detenzione […] se non per atto motivato dall’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”, e dagli artt. 24, comma 2 e 112 della Costituzione, ritenendo che i principi di inviolabilità della difesa e dell’obbligatorietà dell’azione penale sarebbero vanificati in presenza di norme generiche e indeterminate.
La formulazione precisa delle leggi penali è fondamentale per garantire la certezza del diritto, prevenire l’arbitrio giudiziario e assicurare l’uguaglianza di trattamento per situazioni simili. La certezza del diritto implica che le norme siano conoscibili dai destinatari, permettendo loro di prevedere le conseguenze giuridiche delle proprie azioni e di orientare liberamente la propria condotta.
La connessione tra determinatezza, certezza del diritto, conoscibilità delle norme e prevedibilità delle conseguenze giuridiche richiama anche il principio di colpevolezza. Solo chi è libero di autodeterminarsi e consapevole che la propria condotta costituisce un illecito penalmente rilevante può essere rimproverato.
La determinatezza garantisce anche l’uguaglianza di trattamento, poiché una norma chiara e precisa riduce il rischio di diseguaglianza nell’applicazione concreta. Pertanto, il principio di determinatezza e il divieto di analogia assicurano che fatti simili siano trattati in modo uguale.
Inoltre, la determinatezza è una garanzia contro l’arbitrio del giudice, che può essere vincolato solo se il legislatore individua chiaramente le condotte vietate. In caso contrario, vi è il rischio di attribuire al giudice scelte di politica criminale. Il principio di determinatezza garantisce il rispetto del principio democratico, secondo cui le scelte di politica criminale devono essere affidate esclusivamente all’organo legislativo, ribadendo così la separazione dei poteri legislativo e giudiziario.
Una volta chiarito il significato del principio di determinatezza, è necessario stabilire quale grado di precisione sia sufficiente affinché una norma penale sia conforme a tale principio e possa limitare l’interpretazione del giudice durante la sua applicazione.
La determinatezza della legge penale riguarda principalmente la tecnica di formulazione delle fattispecie. Esistono tre tecniche di normazione per descrivere i fatti di reato: clausole generali, casistica e sintetica:
Clausole generali: Questa tecnica, rappresentata dall’art. 110 del codice penale, lascia ampio spazio all’interprete per individuare le condotte punibili, ma risponde meno alle esigenze di precisione e determinatezza.
Casistica: Prevede l’individuazione precisa dei casi che costituiscono reato, risultando perfettamente in linea con il principio di determinatezza, ma rischia di generare un eccesso di norme penali.
Sintetica: Utilizza vocaboli che racchiudono diversi modi di realizzazione della condotta, coniugando precisione e limitando la produzione legislativa eccessiva. La Corte Costituzionale ha affermato che una norma incriminatrice sintetica non è indeterminata se, attraverso l’interpretazione, è possibile attribuirle un significato chiaro e preciso.
La determinatezza deve essere valutata anche in relazione ai singoli elementi del fatto di reato, distinguendo tra elementi quantitativi, descrittivi e normativi. Un’ulteriore categorizzazione distingue tra elementi rigidi, elastici e vaghi o indeterminati:
Elementi rigidi: Sono espressi in modo chiaro e consentono all’interprete di individuarne facilmente la sussistenza, come elementi numerici o descrittivi di tipo naturalistico.
Elementi elastici: Lasciano un margine di apprezzamento all’interprete, ma in misura ridotta e adeguata al principio di determinatezza. La Corte Costituzionale ha confermato la compatibilità costituzionale di questi elementi.
Elementi vaghi o (indeterminati): Esprimono concetti indefiniti che lasciano totale libertà al giudice, come il “totale stato di soggezione al proprio potere” previsto dall’abrogato reato di plagio.
In sintesi, la determinatezza della legge penale è essenziale per garantire la certezza del diritto, limitare l’arbitrio giudiziario e assicurare l’uguaglianza di trattamento.
La sufficiente determinatezza della legge penale nella giurisprudenza della Corte Costituzionale.
La Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima la fattispecie di plagio prevista dall’art. 603 c.p. per mancanza di determinatezza. In questa occasione, la Corte ha sottolineato che il principio di determinatezza è soddisfatto quando le norme penali fanno riferimento a fenomeni la cui possibilità di realizzazione è verificabile secondo criteri basati sulle conoscenze attuali (C. Cast., 8 giugno 1981, n. 96).
La Corte Costituzionale ha riconosciuto il principio di determinatezza come un principio costituzionale, basandosi in particolare sull’art. 25, comma 2 della Costituzione (C. Cost., 23 marzo 1961, n. 27). Tuttavia, per molto tempo, la Corte non ha valorizzato adeguatamente questo principio, adottando un atteggiamento restrittivo che ha portato a sentenze che hanno salvato norme caratterizzate da notevole imprecisione e indeterminatezza. In dottrina, si è parlato del criterio di “variabilità dello standard” (F. PALAZZO, Corso di diritto penale, 144), secondo cui il giudizio della Corte varia in base all’importanza del bene giuridico tutelato e alle esigenze di tutela, con la conseguenza che, in presenza di un bene di elevato rango, la soglia di determinatezza richiesta si abbassa.
Un esempio dell’atteggiamento restrittivo della Corte è l’affermazione secondo cui “le norme penali si limitano a una descrizione sommaria, o all’uso di espressioni meramente indicative, realizzando nel miglior modo possibile l’esigenza di una previsione tipica dei fatti costituenti reato” (C. Cast., 8 luglio 1975, n. 188).
Non sono mancate sentenze in cui la Corte ha fatto esplicito riferimento al diritto vivente, avallando così l’intervento dei giudici nella definizione di fattispecie che mancavano di precisione. In questo modo, la Corte ha affidato alla giurisprudenza il compito di precisare le fattispecie penali che non potevano essere applicate senza una previa interpretazione estensiva o una precisazione da parte del giudice, alterando così l’equilibrio tra potere giudiziario e potere legislativo.
Recentemente, però, i giudici della Corte hanno chiarito che “l’ausilio interpretativo del giudice penale non è che un posterius incaricato di scrutare nelle eventuali zone d’ombra, individuando il significato corretto della disposizione nell’arco delle sole opzioni che il testo autorizza e che la persona può raffigurarsi leggendolo” (C. Cast., 31 maggio 2018, n. 115 e 28 aprile 2021, n. 98).
In altre occasioni, attraverso le cosiddette sentenze interpretative di rigetto, la Corte si è di fatto sostituita al legislatore, vincolando il giudice all’interpretazione della norma da essa stessa offerta. Anche in questo caso, risulta evidente che se la fattispecie fosse stata chiara e precisa, non sarebbe stato necessario un intervento interpretativo della Corte, salvando così norme che non erano conformi al principio costituzionale.
A partire dagli anni ’80, la Corte ha adottato un atteggiamento più aperto nei confronti del principio di determinatezza, arrivando, ad esempio, a dichiarare illegittima, in tema di misure di prevenzione, la categoria di pericolosità dei “proclivi a delinquere” in quanto caratterizzata da un grado di indeterminatezza che lasciava agli operatori uno spazio di discrezionalità incontrollata (C. Cast., 22 dicembre 1980, n. 177).
In una sentenza significativa, la Corte ha collegato il principio di determinatezza al principio di colpevolezza, affermando che per poter rimproverare un soggetto, è necessario che questo sia effettivamente in grado di conoscere la legge penale. Di conseguenza, il legislatore deve formulare le norme in modo chiaro e preciso, affinché contengano direttive di comportamento riconoscibili (C. Cast., 24 marzo 1988, n. 364).
In alcuni casi, la Corte ha basato il proprio giudizio sul “tipo criminoso”, valutando la determinatezza su un piano contenutistico e valutativo. Ad esempio, in due sentenze riguardanti la frode fiscale, la Corte ha ritenuto che le modalità fraudolente della condotta fossero sufficienti a caratterizzare il disvalore del fatto tipico, permettendo di individuare chiaramente la fattispecie criminosa (C. Cast., 15 maggio 1989, n. 247 e 28 gennaio 1991, n. 35).
In una delle pronunce più note, la Corte ha salvato dalla dichiarazione di illegittimità il cosiddetto disastro innominato di cui all’art. 434 c.p., valorizzando l’interpretazione “da contesto” e le finalità dell’incriminazione. La Corte ha ribadito che l’uso di vocaboli polisensi, clausole generali o concetti elastici non compromette la determinatezza se la descrizione complessiva del fatto consente al giudice di stabilire il significato dell’elemento attraverso un’interpretazione non eccessiva (C. Cast., 30 luglio 2008, n. 327).
La Corte ha mostrato cautela nel dichiarare illegittima una norma per difetto di determinatezza anche in tema di atti persecutori, preferendo fornire canoni interpretativi che il giudice deve seguire nell’applicazione della fattispecie. In questo caso, la Corte ha ritenuto che il giudice non debba considerare isolatamente gli elementi sospettati di indeterminatezza, ma deve collegarli agli altri elementi costitutivi della fattispecie, valorizzando il contesto (C. Cast., 11 giugno 2014, n. 172).
Recentemente, la Corte Costituzionale ha ampliato il significato del principio di determinatezza, affermando che esso deve applicarsi non solo alle disposizioni incriminatrici in senso stretto, ma anche a quelle che prevedono sanzioni amministrative di natura sostanzialmente penale, in quanto dotate di elevata carica afflittiva (C. Cast., 5 dicembre 2018, n. 223 e 10 luglio 2020, n. 145).
La Corte Costituzionale ha preso una posizione decisa nel valorizzare il principio di determinatezza, soprattutto grazie a influenze sovranazionali. Ad esempio, nella sentenza che ha concluso la “saga Taricco”, la Corte ha affermato che una norma può essere considerata determinata e accessibile ai cittadini solo se il suo significato corretto è rintracciabile nelle opzioni autorizzate dal testo e comprensibili per chi lo legge (C. Cost., 31 maggio 2018, n. 115).
La versione “forte” del principio di determinatezza è stata ribadita nelle sentenze 24 e 25 del 2019 riguardanti le misure di prevenzione, entrambe originate dalla sentenza della Corte EDU nel caso de Tommaso c. Italia (Corte EDU, Grande Camera, 23 febbraio 2017). La sentenza 24 del 2019 (C. Cost., 27 febbraio 2019, n. 24) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’applicazione della sorveglianza speciale e delle misure patrimoniali di sequestro e confisca nei confronti di coloro che, sulla base di elementi di fatto, sono abitualmente dediti a traffici delittuosi. La Corte ha rilevato che il diritto vivente non è stato in grado di precisare il dato normativo, rendendo impossibile fornire un significato certo e prevedibile ex ante per l’interessato, come dimostrato dalla persistenza di due indirizzi interpretativi.
La sentenza 25/2019, condividendo il giudizio di indeterminatezza già espresso dai giudici di Strasburgo e dalle Sezioni Unite (Sez. Un., 27 aprile 2017, n. 40076), ha dichiarato parzialmente illegittimo l’art. 75, comma 2 del d.lgs. 159/2011 nella parte in cui prevede come delitto la violazione degli obblighi e delle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, quando consiste nell’inosservanza delle prescrizioni di “vivere onestamente” e “rispettare le leggi”. Ha inoltre dichiarato illegittimo l’art. 75, comma 1 nella parte in cui prevede come reato contravvenzionale la violazione delle medesime prescrizioni (C. Cost., 27 febbraio 2019, n. 25).
Recentemente, la Corte ha dichiarato illegittimo l’art. 83, comma 9 del D.L. 18/2020, convertito con modifiche nella legge 27/2020, in tema di prescrizione, a causa della sua radicale imprecisione. La disciplina censurata legava la sospensione della prescrizione ai provvedimenti eventualmente disposti dal capo dell’ufficio giudiziario nell’ambito delle misure di contrasto all’emergenza epidemiologica da Covid-19, connettendo così la sospensione della prescrizione a una facoltà solo genericamente delimitata dalla legge sia quanto ai presupposti che alle finalità da perseguire (C. Cost., 6 luglio 2021, n. 140).
La determinatezza europea della Corte lo riconduce all’art. 7 CEDU che, come noto, sancisce letteralmente solo l’irretroattività della legge, declinandolo come accessibilità del precetto e prevedibilità delle conseguenze giuridiche di un dete11ninato comportamento (Corte EDU, 6 ottobre 2011, Soros c. Francia; 25 maggio 1993, Kokkinakis c. Grecia) in cui rientra non solo la qualificazione giuridica del fatto, ma anche la pena applicabile (Corte EDU, 21 ottobre 2013, Del Rio Prada c. Spagna).
Anzitutto occorre evidenziare come sia opinione condivisa che il principio di prevedibilità implica tre corollari e, in particolare, è necessario che il consociato sia in grado di prevedere, prima di compiere la propria azione od omissione:
se la condotta stessa sarà considerata illecita;
se, oltre che genericamente illecita, sarà considerata anche penalmente rilevante;
quale pena egli dovrà scontare nell’ipotesi in cui venga sottoposto a processo.
In un sistema di civil law come il nostro la prevedibilità delle conseguenze giuridiche della propria condotta può essere garantita in presenza di leggi precise e determinate che non lascino spazio a dubbi interpretativi.
Negli ultimi anni, la Corte di Strasburgo ha pronunciato alcune sentenze di condanna nei confronti dell’Italia per violazione dell’art. 7 CEDU. Tra le pronunce che hanno avuto più eco nel nostro ordinamento vi è la sentenza emessa nel c.d. caso Contrada in tema di concorso esten10 in associazione cli tipo mafioso (Corte EDU, 14 aprile 2015, Contrada c. Italia), con la quale la Corte EDU, dopo aver chiarito il significato dell’art. 7 CEDU, ha precisato che «la legge deve definire chiaramente i reati e le pene che li reprimono» essendo tale requisito soddisfatto se «la persona sottoposta a giudizio può sapere, a partire dal testo della disposizione pertinente, se necessario con l’assistenza dell’interpretazione che ne viene data dai tribunali e, se del caso, dopo aver avuto ricorso a consulenti illuminati, per quali atti e omissioni le viene attribuita una responsabilità penale e di quale pena è passibile per tali atti».
Di particolare rilievo anche per le conseguenze che ha determinato nel nostro ordinamento è la sentenza de Tommaso c. Italia in cui la Corte di Strasburgo ha ritenuto che né la legge né la giurisprudenza della Corte Costituzionale avessero << chiaramente identificato gli elementi fattuali né le specifiche tipologie di con dotta che devono essere prese in considerazione per valutare la pericolosità sociale dell’individuo>> conducendo che la legge in questione (la 1. 1423/1956) non contenesse previsioni sufficientemente dettagliate su quale tipo di condotta fosse da considerare espressiva di pericolosità sociale e, dunque, idonea ad applicare la misura di prevenzione (Corte EDU, Grande Camera, 23 febbraio 2017, de Tommaso c. Italia).
L’errore sulla legge extra-penale. L’errore su una legge extra penale si riferisce a un errore che riguarda una legge diversa da quella penale. Secondo l’articolo 47, comma 3 del codice penale italiano, “l’errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità, quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce reato”.
In altre parole, se una persona commette un reato a causa di un errore su una legge extra penale, e questo errore ha causato un errore sul fatto che costituisce il reato, la persona non è punibile. Questo principio è stato oggetto di dibattito dottrinale e giurisprudenziale, con diverse interpretazioni su come applicarlo correttamente.
Con la sentenza numero 33590, la sesta sezione penale ha ribadito il prevalente orientamento della giurisprudenza di legittimità riguardo all’applicabilità della disciplina dell’errore su legge diversa da quella penale, come previsto dall’articolo 47, comma 3, del codice penale. Questo articolo stabilisce che “l’errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità, quando ha causato un errore sul fatto che costituisce il reato”.
Questa disposizione ha sempre posto il problema di distinguere tra l’errore su legge extra penale e l’errore sul precetto penale. In altre parole, si tratta di individuare i criteri per identificare l’errore su legge extra-penale che si traduce in un errore sul fatto che costituisce reato (che esclude la punibilità ai sensi dell’articolo 47, comma 3) e l’errore sul precetto penale (che ha una limitata efficacia scusante ai sensi dell’articolo 5 del codice penale, come interpretato dalla Corte Costituzionale nel 1988).
La sentenza in esame riguarda l’obbligo di comunicazione alla polizia tributaria delle variazioni patrimoniali da parte dei condannati per reati di criminalità organizzata, come previsto dall’articolo 30 della legge 13 settembre 1982, n. 646. La Cassazione ha nuovamente aderito al prevalente orientamento della giurisprudenza di legittimità, noto come “tesi dell’incorporazione”, che distingue tra “norme extra-penali integratrici del precetto penale” e “norme extra-penali non integratrici del precetto penale”.
Secondo la motivazione della sentenza, la giurisprudenza ha tradizionalmente operato una distinzione tra norme extra penali integratrici del precetto (che, essendo incorporate nel precetto penale, sono considerate parte della legge penale, e quindi l’errore su di esse non è scusabile ai sensi dell’articolo 5 del codice penale) e norme extra penali non integratrici del precetto (ossia disposizioni destinate a regolare rapporti giuridici di carattere non penale, non richiamate dalla norma penale). L’errore su queste ultime esclude il dolo, configurando un errore sul fatto ai sensi dell’articolo 47, comma 3, del codice penale.
[1] G. GIRELLI, Riflessioni sulla disciplina dei crediti d’imposta non spettanti ed inesistenti nello schema di decreto sulle sanzioni, Rivista di diritto tributario (2024).
[2] L. LETIZIA, Crediti d’imposta “inesistenti” o “non spettanti”: la Corte di Cassazione precisa le differenze qualificatorie, Rivista Telematica di Diritto tributario, Pacini giuridica (2021)
[3] G. MANGUSO e M. CHIONCHIO, Crediti di imposta inesistenti e non spettanti, da dirittobancario.it
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