Dai da mangiare ai randagi? Se mordono, potresti risponderne penalmente
Secondo quanto statuito dalla IV sez. penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 17145/2017, il soggetto che nutre un cane randagio è da ritenersi responsabile del reato di lesioni personali colpose ed è altresì tenuto al risarcimento del danno in favore della parte civile, qualora l’animale morda qualcuno.
Nel caso di specie, G.F. dava da mangiare in maniera occasionale a due randagi sprovvisti di micro-chip che stazionavano nella zona in cui risiedeva. Un giorno i due cani, normalmente mansueti, mordevano il passante I.V. che, pertanto, decideva di adire le vie giudiziarie.
G.F. si difendeva sostenendo che persino la polizia municipale aveva accertato la condizione di randagismo degli animali e l’assenza negli stessi del micro-chip identificativo obbligatorio; per tale ragione i quadrupedi erano da considerarsi di proprietà del Comune, che avrebbe dovuto provvedere alla custodia degli stessi.
La Corte di Cassazione, però, non ha avallato la tesi sopra esposta.
Secondo gli Ermellini, infatti, “l’insorgere della posizione di garanzia relativa alla custodia di un animale prescinde dalla nozione di appartenenza, di talché risulta irrilevante il dato della registrazione all’anagrafe canina ovvero della apposizione di un micro-chip di identificazione, atteso che l’obbligo di custodia sorge ogni qualvolta sussista una relazione anche di semplice detenzione tra l’animale e una data persona[…]”
In altre parole, ad avviso della Suprema Corte, chi si occupa dei cani vaganti (nutrendoli o acconsentendo a che entrino, seppur saltuariamente, all’interno della propria villetta) diventerebbe destinatario degli stessi obblighi di custodia che incombono sui proprietari di animali ex art. 2052 c.c.
Come può, dunque, tutelarsi dagli effetti nefasti di pronunce di questo tipo il cittadino che alimenti sul territorio cani di indole docile?
Non si può, infatti, non rilevare come sentenze del genere possano fungere da deterrente per tutti quei cittadini che, quotidianamente, trovano un po’ di tempo per occuparsi degli animali sprovvisti di proprietario. Paradossalmente, in questo modo vengono sanzionati e condannati a risarcire i danni coloro che si attivano per tentare di arginare il problema ma non l’ente legislativamente preposto a risolverlo.
Prima di passare all’esame degli accorgimenti da seguire qualora si avessero a cuore le sorti di un randagio per il quale non si trova un “adottante” disponibile, bisogna evidenziare che nel lontano 1991 il Legislatore ha emanato la legge quadro n. 281 avente ad oggetto norme in materia di prevenzione del randagismo. Tale provvedimento obbligava le Regioni a recepire, con propri atti ed entro 6 mesi dall’entrata in vigore, il contenuto della normativa all’uopo predisposta.
Le autorità territoriali hanno, però, provveduto alla regolamentazione della materia con una certa lentezza ed in molte Regioni nel corso di quegli anni si è assistito, addirittura, a un incremento del fenomeno che si intendeva contrastare.
La proliferazione incontrollata della popolazione canina, accompagnata dalla scarsità delle risorse investite dagli enti territoriali nel contrasto al randagismo, ha fatto sì che si dovesse ricorrere a una soluzione che da un lato presentasse il carattere della “temporaneità” e dall’altro garantisse la tutela dell’animale.
Pertanto nel 2001 il Prof. Umberto Veronesi, a quel tempo a capo del Ministero della Salute, ha emanato la circolare n. 5 con la quale è stata introdotta ufficialmente la figura del “cane di quartiere”.
Secondo quanto riportato dello stesso Ministro nel citato provvedimento “si tratta di catturare i cani randagi, sterilizzarli e reimmetterli nello stesso territorio dal quale sono stati prelevati; con l’obiettivo che detti cani hanno la possibilità di sopravvivere, in relazione alla loro notevole capacità di adattamento e considerato che la gente del quartiere, non dovendosi attribuire l’onere della responsabilità della proprietà del cane, si adopererà per procurare al tradizionale amico dell’uomo i parametri minimi di convivenza: alimenti e alloggio di fortuna.”
Non esiste una normativa nazionale sul cane di quartiere e, pertanto, è necessario fare riferimento ai provvedimenti vigenti all’interno di ogni singolo Comune.
Questo perché l’ipotesi del cane che vive per strada, sopravvivendo grazie al buon cuore dei cittadini più volonterosi, rappresenta comunque il fallimento delle strategie poste in essere dagli enti locali (gli animali sono, infatti, tutelati fino a un certo punto, essendo sempre a rischio incidente stradale, avvelenamento e altre crudeltà simili). Non è un caso che il “cane di quartiere” sia contemplato perlopiù dalle norme predisposte in materia di randagismo dagli enti territoriali situati nelle regioni meridionali, nelle quali il problema assume proporzioni maggiori.
Nel caso di ritrovamento di cani vaganti che stazionano prevalentemente nel medesimo territorio è’ opportuno, pertanto, rivolgersi agli Uffici del Servizio Ecologia e Sanità del proprio Comune e chiedere lumi in ordine alla procedura da seguire. Se contatterete direttamente le associazioni a tutela degli animali operanti nel territorio di riferimento, otterrete tali informazioni con molta più velocità (trattandosi di volontari, almeno loro saranno ben lieti di aiutarvi!).
Il cane, successivamente, dovrà essere segnalato al Comune, chippato a nome di quest’ultimo o del tutore che se ne occupa (meglio se a nome del Comune), vaccinato, sterilizzato e immesso nuovamente nel territorio di stazionamento, previa valutazione della sua docilità fatta da un medico veterinario ASP. La procedura può perfezionarsi solo qualora uno o più soggetti si dichiarino disponibili ad accudire l’animale (tutor), fornendogli quotidianamente cibo e monitorandolo nel territorio (ad esempio, se il cane stesse male, il Comune, previa segnalazione del tutor, deve provvedere alle cure dello stesso. E’ il Comune, inoltre, che deve provvedere a sue spese alla vaccinazione e alla sterilizzazione dei quadrupedi).
Si evidenzia, comunque, che gli esemplari appartenenti alle razze ritenute pericolose (compresi i relativi incroci), non possono essere reimmessi nel territorio come cani di quartiere.
Perché è importante questa procedura?
Perché in questo modo il cittadino si mette al riparo da situazioni paradossali come quella di cui è stato protagonista il signor G.F., a cui la volontà di compiere una buona azione è costata una condanna per lesioni personali colpose, con l’aggiunta del risarcimento del danno in favore della parte civile.
Quando il cane viene dichiarato “di quartiere” è il Comune, infatti, che risponde degli eventuali danni provocati dall’animale. Esaminiamo, in merito, e solo a titolo esemplificativo, l’art. 4 della delibera n. 241/2005 del Comune di Siracusa: “I cani collettivi e/o di quartiere devono possedere un carattere pacifico ed essere abituati alla convivenza con gli uomini nonché in buono stato di salute ed iscritti all’Anagrafe canina a nome del Tutore Responsabile ovvero a nome del Comune. In entrambi i casi, il Comune si farà carico di copertura assicurativa per eventuali danni che il cane arrecasse a terzi. Il tutore del cane di quartiere deve solo provvedere al cibo quotidiano e segnalare all’Asp sez. veterinaria se il cane sta male per ricevere le cure necessarie, segnalare al Comune se il cane di quartiere si è allontanato dall’area di stazionamento o è deceduto.”
E’ il Comune, quindi, che deve provvedere a munirsi di copertura assicurativa per gli eventuali danni e, pertanto, in caso di omissione del prescritto adempimento è sempre il Comune che si troverebbe costretto a risarcire integralmente il pregiudizio cagionato dal cane formalmente di sua proprietà.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
Listed in ROAD, con patrocinio UNESCO
Copyrights © 2015 - ISSN 2464-9775
Ufficio Redazione: redazione@salvisjuribus.it
Ufficio Risorse Umane: recruitment@salvisjuribus.it
Ufficio Commerciale: info@salvisjuribus.it
***
Metti una stella e seguici anche su Google News
The following two tabs change content below.
Emanuela Calabro
Laureata in Giurisprudenza nel 2012 presso l'Università degli studi di Catania con una tesi in diritto costituzionale comparato dal titolo: "L'inviolabilità parlamentare: analisi comparata."
Abilitata all'esercizio della professione forense dall'ottobre 2014.