Dal lavoratore all’uomo: traiettoria dei diritti in ambito europeo

Dal lavoratore all’uomo: traiettoria dei diritti in ambito europeo

Nell’analisi del Diritto dell’Unione europea si può individuare il lavoratore nel suo apparentemente inedito ruolo di pioniere nella titolarità di diritti e libertà fondamentali dei quali, poi, viene ampliato l’ambito soggettivo dei destinatari, come dimostra l’evoluzione giurisprudenziale della Corte di Giustizia.

L’articolo 21 TFUE riconosce ad ogni cittadino dell’Unione il diritto di libera circolazione e soggiorno nel territorio degli Stati membri.

Esso era già contemplato nel trattato istitutivo della Comunità economica europea, ma effettivamente era riconosciuto soltanto ai soggetti economicamente attivi, cioè ai lavoratori.

Alla base dell’articolo citato si pone invece un mutamento  della prospettiva di tale diritto, che non viene più ricollegato ad una logica meramente economica e di mercato, come nell’originario Trattato di Roma, bensì ad un fondamento politico costituito dallo status di cittadino europeo.

Lo stesso articolo al paragrafo 2 contempla poi espressamente la possibilità di un ulteriore sviluppo del diritto in esame, stabilendo che il Parlamento europeo ed il Consiglio possono adottare disposizioni volte a facilitarne l’esercizio.

Nella medesima prospettiva si colloca la direttiva 2004/38/CE, in base alla quale la titolarità del diritto stesso è ascrivibile ai cittadini dell’Unione ed ai loro familiari.  Un simile cambio di passo nell’individuazione dei titolari del diritto in esame, con conseguente possibilità di trarne l’interconnessione fondamentale alla base del binomio persona-lavoratore, può notarsi analizzando due importanti sentenze della Corte di giustizia.

Essa, nella sentenza del 17 settembre 2002 relativa al caso Baumbast, ha affermato che tale diritto deriva direttamente, pur essendo soggetto alle limitazioni ed alle condizioni previste dai trattati e dalla normativa emanata ad opera delle istituzioni europee, dall’ articolo 21 TFUE, in modo tale che un cittadino, che non benefici più nello Stato membro ospitante del diritto di soggiorno in qualità di lavoratore migrante, può comunque beneficiarne in virtù del suddetto articolo, stante appunto la sua qualità di cittadino.

Tale diritto è stato poi riconosciuto prescindendo totalmente dal collegamento tra lo stesso e la natura di lavoratore nella sentenza del 19 ottobre 2004 relativa al caso Chen, nella quale è stato stabilito che per garantire il diritto di soggiorno di una bambina cittadina dell’Unione e consentirne l’effettivo godimento, il diritto in esame deve essere riconosciuto anche alla madre alla quale spetta la relativa custodia.  Nella medesima prospettiva si colloca ancora un’ulteriore sentenza resa dalla Corte nel 2017, (causa 133-2015), nella quale è stato sottolineato che il riconoscimento del diritto di soggiorno ad un genitore cittadino di un Paese terzo, derivato da quello del figlio cittadino dell’Unione, comporta la considerazione di una serie di elementi utili a verificare se c’è la possibilità che il rifiuto dello stesso privi il figlio del godimento effettivo del contenuto essenziale dei suoi diritti derivanti dallo status di cittadino europeo, affermando la Corte che, nell’ambito di tale valutazione, le autorità competenti devono tenere conto del diritto al rispetto della vita familiare quale enunciato dall’ articolo 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, letto in combinato disposto con l’obbligo di prendere in considerazione l’interesse superiore del minore riconosciuto all’articolo 24 paragrafo 2 della suddetta Carta.

La Corte ha aggiunto che, al fine di compiere tale accertamento, il fatto che l’altro genitore sia realmente capace e disposto ad assumere l’onere quotidiano del figlio minorenne costituisce un elemento pertinente, ma non sufficiente per poter constatare che non esiste tra il genitore cittadino di un Paese terzo ed il minore una relazione di dipendenza tale per cui quest’ultimo sarebbe costretto a lasciare il territorio dell’Unione, qualora al primo fosse rifiutato un diritto di soggiorno.

Una tale affermazione deve essere fondata, infatti, sulla presa in considerazione, nell’interesse superiore del minore, di un insieme di circostanze specifiche quali l’età, il suo livello di crescita, l’intensità della sua relazione affettiva con il genitore cittadino dell’Unione e con il genitore cittadino di un Paese terzo nonché il rischio che la separazione da quest’ultimo comporterebbe per l’equilibrio del minore stesso.

Possiamo notare, alla luce di tali considerazioni, come dal riconoscimento di un diritto fondamentale al lavoratore, considerato nella specifica veste di soggetto economicamente attivo, si perviene a collegare la titolarità del diritto medesimo allo status di cittadino europeo, scostandosi progressivamente le sentenze succedutesi nel tempo, delle quali si è dato conto, dal riferimento a quell’iniziale parametro ed aprendosi addirittura alla benefica influenza che il riconoscimento dei diritti umani è riuscito a produrre nella materia della cittadinanza dell’Unione europea.

Questo passaggio dal lavoratore all’uomo, dai soggetti economicamente attivi alle persone ed alle loro più individuali esigenze conduce ad affermare senza alcuna esitazione che persona e lavoro costituiscono due facce della stessa medaglia, aspetto questo che la disciplina giuslavoristica non tralascia, e, come si auspica, non potrà mai trascurare.


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