Dall’agente sotto copertura all’agente provocatore. Analisi di un’evoluzione criminal-repressiva

Dall’agente sotto copertura all’agente provocatore. Analisi di un’evoluzione criminal-repressiva

Di Adriana Bruzzaniti[1]

Sommario: 1. Un “agente” delineatosi nel tempo, emerso dal particolare contesto sociale e dalle necessità investigative. – 2.1 Fondamenti normativi, dal Codice Penale alle leggi speciali. – 2.2 Teorie alternative sulla natura giuridica. E se non fossero cause di giustificazione? – 3.1 L’agente provocatore, il quid pluris comportamentale. – 3.2 Orientamenti giurisprudenziali, limiti normativi e ripercussioni processuali. – 4. Prospettive future. Il delitto di corruzione.

1. Un “agente” delineatosi nel tempo, emerso dal particolare contesto sociale e dalle necessità investigative.

Negli ultimi decenni gli strumenti a disposizione delle Procure e delle forze dell’ordine, al fine di prevenire e reprimere i reati e perseguirne gli autori, sono qualitativamente e quantitativamente superiori rispetto al passato, grazie anche alle nuove tecnologie e agli attenti e continui adeguamenti legislativi.

Nonostante ciò, la delinquenza non appare in soddisfacente calo[2], rendendo indispensabile individuare nuovi mezzi attraverso cui contrastarla.

Il nuovo quadro sociale, delineatosi negli ultimi venticinque anni (basti pensare all’inchiesta “Mani Pulite” destinata ad aprire un vaso di Pandora mai richiusosi) affianca ai vecchi contesti tipicamente criminali, nei quali primeggiavano delitti di sangue e traffici illegali, nuovi scenari, dove, chi delinque, opera nell’esercizio di funzioni legittimamente attribuite, mettendo il proprio agere non a servizio del bene comune, bensì di interessi personali, propri o di terzi.

I reati commessi nell’ambito dell’amministrazione della cosa pubblica costituiscono una buona parte di questa moderna inclinazione a delinquere, incoraggiati anche da regole di controllo e vigilanza poco soddisfacenti e da un’attitudine sociale sempre meno rispettosa delle norme.

In questo contesto, maggiore interesse suscitano le figure dell’agente sotto copertura e dell’agente provocatore. Delle due, solo la prima riconosciuta nel nostro ordinamento e contemplata in diverse leggi speciali.[3]

Questi soggetti, in qualità di operatori, appartenenti alle forze di polizia e “infiltrati” nella rete criminale palesano un concreto ed indiscutibile apporto alle autorità requirenti, pur evidenziando funzionali caratteristiche differenti, tali da manifestare molteplici criticità, come si vedrà più avanti,  riguardo la previsione degli “agenti provocatori” e la loro compatibilità con l’attuale assetto normativo italiano.[4]

Orbene, l’aver agito “sotto copertura” costituisce una particolare scriminante per il soggetto, che al fine di svolgere indagini legittimamente autorizzate, calatosi ed integratosi nel contesto criminale, abbia assistito e supportato, anche tramite interposta persona, con contributi attivi od omissivi, reali o personali, gli autori del reato.

Non v’è chi non veda come differente apparirebbe il ruolo dell’agente provocatore, qualora si trovasse nella situazione di istigare direttamente taluno a commettere un reato, non limitandosi a fornire così un mero contributo all’attività delittuosa, ma dando direttamente l’input alla stessa.[5]

2.1 Fondamenti normativi, dal Codice Penale alle leggi speciali.

Già il codice Rocco nello stabilire all’art. 51 l’esclusione della punibilità per chi avesse agito nell’adempimento di un dovere imposto da un ordine legittimo della pubblica autorità, fornisce una scriminante generale per il sottoposto che si trova nella condizione di compiere un atto che altrimenti e in assenza di ordine integrerebbe un reato, e, sul quale non può esercitare alcuna signoria in sede di sindacato di legittimità.

Proprio nella normativa speciale si individua il discrimine tra agente sotto copertura e agente provocatore, nelle parti in cui viene esplicitamente sancito che la causa di giustificazione in esame opera nei confronti degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, nel rispetto delle loro attribuzioni, che abbiano agito al solo specifico fine di acquisire elementi di prova in ordine ai delitti tassativamente indicati dalle singole leggi speciali.

In particolare, il terzo comma dell’art. 9 della L. 16 marzo 2006, n. 146, Ratifica ed esecuzione della Convenzione e dei Protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, adottati dall’Assemblea generale il 15 novembre ed il 31 maggio 2001, oltre al sancire quale unico fine delle attività undercover quello di acquisizione probatoria, prevede una rigorosa disciplina sull’esecuzione delle operazioni.

La stessa, infatti, deve esser “disposta dagli organi di vertice o, per loro delega, dai responsabili di livello almeno provinciale”, secondo l’appartenenza del personale di pubblica sicurezza impiegato e di concerto con la Direzione Centrale specifica per il reato per il quale si procede.[6]  L’organo che dispone le operazioni dovrà, inoltre, fornire preventiva comunicazione al Pubblico Ministero competente per le indagini, il quale dovrà essere informato, senza ritardo e per tutta la durata delle operazioni, delle modalità e dei soggetti che partecipano alle attività, nonché dei risultati delle stesse.

Fondamentale risulta dunque il continuo flusso di informazioni all’autorità competente per le indagini, la quale potrà anche ritardare, con proprio decreto od oralmente nei casi straordinari di urgenza, l’applicazione di misure cautelari o di esecuzione di pene detentive o, ancora, del sequestro, qualora ritenga tale procrastinazione utile per il proseguo delle indagini volte ad accertare ulteriori responsabilità.

Appare chiaro come negli anni il legislatore abbia dato rilievo a queste attività e come le abbia collocate nel corpus delle norme del diritto penale, ma altrettanto evidente è il limite tutt’oggi posto dall’ordinamento, mancando una disciplina generale ed unitaria, lacuna che causa la limitazione della disciplina delle operazioni undercover alla ipotesi tassativamente indicate.

2.2 Teorie alternative sulla natura giuridica. E se non fossero cause di giustificazione?

Si potrebbe ragionare per principi generali, azzardando un’ardua riflessione sulla possibilità di applicare in via analogica l’evenienza di eseguire tali operazioni per tutti i tipi di reati, colmando così la citata lacuna normativa. Questa considerazione nulla avrebbe a che vedere con la natura di cause di giustificazione (insuscettibili di applicazione per via analogica in quanto tassative) delle stesse, poiché ciò che l’interprete chiede è estendere un’attività che inconfutabilmente si pone quale mezzo di ricerca della prova, indistintamente, a tutti in reati, senza necessità di specifiche previsioni, proprio in ragion del fatto che la sua funzione principale non è quella di scriminare un comportamento altrimenti integrante reato (al pari delle cause di giustificazione codificate) bensì di assicurare fonti di prova; in questo modo la sua indole di strumento volto a supporto ed incremento del quadro probatorio, prevarrebbe sulla sua pragmatica e sola conseguenza di scriminare la condotta ovvero escludere la punibilità per la stessa.

A parere di chi scrive, dunque, l’attenzione degli operatori del diritto non può esulare dalle finalità delle operazioni svolte dagli agenti sotto copertura; finalità espresse più volte dal legislatore e congiuntesi nella specifica acquisizione di elementi di prova, garantendo l’esclusione della pena qualora l’agente abbia operato nell’ambito di operazioni legittimamente autorizzate per fini probatori.

Si necessiterebbe, così,  disancorare queste attività dalla causa di giustificazione ex art. 51 c.p., differenti per natura e finalità, nonché per ambito operativo, in quanto le prime si ravvisano esclusivamente nel corso di un procedimento penale, nello specifico nella fase delle indagini preliminari, mentre la seconda può anche verificarsi indipendentemente da un filone procedimentale, assolvendo quale unico scopo quello di non punire chi ha dovuto compiere un atto costituente altrimenti reato, perché costretto all’obbedienza di un ordine legittimamente posto.

Orbene, in epilogo a questa considerazione che potrebbe fornire svariati spunti di riflessione, si conviene che le attività undercover sicuramente costituiscono un fenomeno giuridico dalle molteplici sfaccettature, e a riprova di ciò, perché mai, de jure condendo, non le si potrebbero considerare sotto il profilo principale che sono chiamate a connotare, integrare e garantire? Il profilo probatorio.

3.1 L’agente provocatore, il quid pluris comportamentale.

La dicotomia agente sotto copertura ed agente provocatore è stata, ed è tutt’oggi, oggetto di interesse da parte dei poteri dello Stato, legislativo e giurisdizionale, attraverso i citati interventi normativi e le copiose pronunce giurisprudenziali di cui, in seguito, si darà conto.

Il discrimine tra queste diverse facce della stessa medaglia si ravvisa nell’apporto che l’agente infiltrato fornisce attraverso la sua condotta; condotta che qualora si spingesse oltre i limiti legalmente posti, non verrebbe scriminata e non consentirebbe l’utilizzazione degli elementi di prova così individuati.

La normativa speciale[7] gia nel disciplinare le attività undercover prevede e legittima un apporto di tipo attivo dell’agente e non meramente osservatorio, nelle parti in cui viene data la possibilità di compiere ogni atto prodromico e strumentale all’acquisto, ricezione, sostituzione od occultazione di denaro, armi, documenti, sostanze stupefacenti o psicotrope nell’ambito dei delitti previsti dagli artt. 473, 474, 629, 630, 644, 648 bis e ter c.p., nonché nei delitti  di cui al D.P.R. 309/90.

Non è dunque soltanto una mera attività di controllo e osservazione degli agenti, il loro è un contributo attivo all’operosità delittuosa, contributo che si connota per la sua essenziale e naturale prestazione al fine di poter permanere nel contesto criminale senza destare dubbi nell’animo dei delinquenti.

Non v’è chi non veda come qualora gli “infiltrati” non partecipassero attivamente, potrebbero sorgere anche pericoli per l’incolumità degli stessi, in quanto non ritenuti affidabili.

Questo margine di azione attribuito dalla legge all’agente ha appianato le differenze comportamentali e reso discutibili i limiti tra agente “infiltrato” sotto copertura e agente provocatore o istigatore – basata sul graduale aumento dell’apporto del soggetto infiltrato nel contesto criminale – facendo cadere in desuetudine l’uso differenziato della qualificazione di provocatore ed istigatore.[8]

A questo punto è essenziale domandarsi cos’abbia in più la discussa figura dell’agente provocatore, come oggi è stato concepito ed auspicato anche attualmente da diverse forze politiche.

In questi termini l’agente provocatore appare non differente, come si diceva, dall’istigatore in quanto agisce al fine di “incitare” una determinazione a delinquere originaria, rendendosi così, indispensabile per la commissione dell’illecito, dissimilmente dal contributo materiale o morale apportato dall’infiltrato sotto copertura ad un proposito altrui già autonomamente maturato circa la perpetrazione del reato.

3.2 Orientamenti giurisprudenziali, limiti normativi e ripercussioni processuali.

Sull’ammissibilità o meno della figura si necessita ricostruire il percorso giurisprudenziale delineatosi assegnando la dovuta rilevanza alle pronunce della Corte di Strasburgo in ossequio al contenuto della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

Non stupisce che, più volte, la Corte Europea, affrontando la tematica dell’agente provocatore e discernendolo necessariamente dall’infiltrato o sotto copertura, abbia sancito che tale figura palesi manifeste violazioni della Convenzione, in quanto, senza il suo intervento di incitamento, il reato non sarebbe stato commesso.

La Corte, in primo luogo, si è preoccupata di specificare che la condotta dell’agente undercover non può e non deve sfociare nella mera induzione, trasformandolo, così, in un agent provocateur.[9] Tale orientamento emerge chiaramente  anche nella recente sentenza Pătraṣku c. Romania[10], nella quale si ribadisce la responsabilità penale dell’agente infiltrato e la conseguente inutilizzabilità della prova da lui acquisita, per tutte quelle operazioni sotto copertura consistenti nell’incitamento o nell’istigazione alla commissione di un reato da parte del soggetto indagato. Ne consegue che, all’agente infiltrato non è, dunque, consentito di commettere azioni illecite diverse da quelle dichiarate non punibili.

In Italia i giudici di legittimità, conformandosi alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, e in ossequio all’art. 9, L. 146/2006, hanno enunciato il principio di diritto secondo cui “non sono lecite le operazioni sotto copertura consistenti nell’incitamento o nell’induzione alla commissione di un reato da parte soggetto indagato, in quanto all’agente infiltrato non è consentito commettere azioni illecite diverse da quelle dichiarate non punibili e di quelle strettamente e strumentalmente connesse. Una simile condotta, oltre a determinare responsabilità penale dell’infiltrato, produce, quale ulteriore conseguenza, l’inutilizzabilità della prova acquisita e rende l’intero procedimento suscettibile di un giudizio di non equità ai sensi dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Sez. II, n. 38488 del 9 ottobre 2008; Sez. III, n. 26763 del 3 luglio 2008; Sez. III, n. 17199 del 7.4.2011, Ediale). Per potersi ritenere esistente la figura dell’agente provocatore, occorre che la condotta del provocatore assuma una rilevanza causale nel fatto commesso dal provocato nel quale venga suscitato un intento delittuoso prima inesistente.”[11]

Orbene, alla stregua di questi autorevoli orientamenti, appare evidente che priorità  dell’ordinamento è rispettare i principi in materia di giusto processo; giustizia che non sussisterebbe qualora la scelta a delinquere non fosse frutto di una libera determinazione del reo. La Corte ha così distinto nettamente l’agente sotto copertura, ipotesi legislativamente delineata, dall’agente provocatore, che non ha mai trovato precisazione esplicita nella legge e che si caratterizza per “l’incitamento o l’induzione” al crimine del soggetto sottoposto a indagini.[12]

Ancora, si necessita chiarire sotto il profilo strettamente processuale il regime di utilizzabilità delle prove scovate a seguito delle attività oundercover. Sul punto, lapalissiana è la netta differente interpretazione dell’art. 6 CEDU, da parte della Corte di Strasburgo e dai giudici italiani. La Corte Edu, infatti, a seguito di un ricorso di Adrianus Van Wesenbeeck nel 2010 contro il Belgio[13], sull’utilizzabilità delle prove raccolte e delle dichiarazioni rese dagli agenti infiltrati – le cui generalità erano state secretate in un fascicolo separato da quello processuale – ha asserito come la stessa non possa esser negata poiché non in contraddizione con l’art. 6 della CEDU, in quanto il rivelare l’identità degli operatori sotto copertura avrebbe potuto mettere a rischio la vita degli stessi e vanificato la possibilità di ulteriori operazioni per gli stessi agenti qualora la loro identità fosse stata palesata. Non ha riscontato, la Corte, così, alcuna violazione dell’articolo 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo.

La situazione italiana evidenzia una discrasia con siffatta impostazione, poiché sarebbe incomprensibile sostenere, nel nostro Paese, che garanzie difensive costituzionalmente riconosciute, quali quella del contraddittorio, possano essere sacrificate in nome dell’anonimato.

A tal proposito, la normativa italiana, realizza un equo bilanciamento tra dette esigenze, tale da non indebolire il principio del giusto processo. L’497 c.p.p., comma 2 bis[14], infatti, prevede che nel caso in cui a deporre sia un ufficiale ovvero un agente di polizia che ha svolto le operazioni sotto copertura, può omettere le proprie reali generalità, indicando invece quelle di copertura utilizzate nel corso delle indagini, riconoscendo, anche, una serie di cautele da adottare nel corso dell’esame per tutelare la sicurezza e la riservatezza delle persone coinvolte, basti pensare ai sistemi di videoconferenza e con oscuramento del volto.

Attraverso questi strumenti è, dunque, possibile assicurare in maniera efficace l’anonimato dell’agente rispettando il giusto processo e permanendo la possibilità, per la difesa dell’imputato, di procedere comunque all’esame del soggetto che rende le dichiarazioni.

4. Prospettive future. Il delitto di corruzione.

Se già risulta meritevole di particolare attenzione a livello europeo e internazionale la novera dei reati contro la P.A. ed in particolare la corruzione, ancora più delicato si pone l’argomento all’interno dei confini nazionali, per l’incremento degli episodi delittuosi e per (come si diceva in precedenza) le metamorfosi subite dai principali contesti criminali, eleggendosi, così, la corruzione quale maggiore piaga social-culturale, oltre che naturalmente delinquenziale, della moderna realtà italiana.

Essendo disciplinate dalla legislazione speciale, per le operazioni undercover, affinché possano trovare riscontro anche nel settore anticorruzione, prodromico e necessario si pone un intervento legislativo che le autorizzi espressamente per tali fattispecie delittuose.

La lacuna normativa in questione potrebbe tuttavia venire colmata rapidamente dando piena attuazione alla Convenzione ONU contro la corruzione, sottoscritta a Merida nel 2003. Al riguardo, infatti, il primo comma dell’art. 50 della Convenzione, dedicato alle tecniche investigative speciali, prevede al fine di contrastare la corruzione, che ogni Stato, conformemente al proprio diritto interno e nei limiti stabiliti dai principi fondamentali dello stesso, possa adottare speciali tecniche di investigazione, tra le quali proprio le operazioni sotto copertura.

Esulerebbe comunque, da siffatto intervento attuativo, la disciplina dell’agente provocatore.

Ai fini di completezza argomentativa, è doveroso precisare che la stessa viene prevista all’interno di ordinamenti giuridici differenti da quelli europei.

Epico è il caso americano, in cui un agente dell’FBI, nel 1992, volle mettere alla prova un amministratore dello stato della Georgia, fingendosi immobiliarista tentò diverse volte di far prendere soldi in cambio di un voto favorevole per la riqualificazione dei piani di edificazione di un’area urbanistica. La tangente offerta dall’operatore sotto copertura fu rifiutata per ben trentuno volte dall’onesto amministratore comunale, il quale alla trentaduesima volta cedette alla sua onestà, forse anche vessato dalle continue richieste del provocatore[15]. Appare inconcepibile nel nostro ordinamento la condanna successivamente inflittagli dalla Suprema Corte, segno di evidenti assetti giuridici differenti, tra i due ordinamenti, che posizionano il bilanciamento tra le necessità di giustizia e di tutela del principio accusatorio su gradini discrepanti.[16]

Non v’è chi non veda come non lasci alcun segno di apertura l’odierno quadro normativo italiano – discostandosi dagli orientamenti provenienti d’oltre oceano – ad ogni ingerenza dell’agente che opera undercover, tale da poter influenzare la libera determinazione del reo, causando così l’evento costituente reato. Ma nei delitti di corruzione v’è di più.

Il punto focale da considerare nei reati previsti e puniti dagli artt. 318 e ss. c.p., attiene proprio alla natura del delitto ed alla sua composizione strutturale. A prescindere dai dibattiti tecnico-pratici sulla legittimità o meno della figura dell’agente provocatore, per ragioni insite alla fattispecie in esame, la stessa non ne sarebbe mai comunque compatibile.

Trattasi infatti, secondo autorevole, pacifica e consolidata dottrina, di reato a concorso necessario (plurisoggettivo) di natura bilaterale, in cui l’evento delittuoso è dato dall’incontrarsi delle condotte del pubblico funzionario e del privato, le quali si integrano reciprocamente in una compartecipazione necessaria, facendo nascere il reato a condizione che sussistano entrambe.

Orbene, a parere di chi scrive, appare inconfutabile la circostanza che qualora il probabile agente provocatore, istigasse taluno alla corruzione e qualora costui accettasse cedendo alla provocazione, potrebbe non esser punito poiché il nostro sistema penale non prevede alcuna tipologia delittuosa cui ricondurre tale condotta. Verrebbe così assolto “perché il fatto non costituisce reato” avendo voluto il legislatore prevedere un necessario concorso tra corruttore e corrotto.

Si vuole così, semplicemente, spingere a riflettere – a chi attualmente auspica l’introduzione degli agenti provocatori per combattere la corruzione – sulla imprescindibilità dell’agere dell’istigatore rispetto al reato; agere che conseguentemente deve esser sorretto dall’elemento soggettivo del dolo, che, invece, difetta nelle ipotesi  in cui il corruttore sia un appartenente alle forze di polizia che svolge il suo lavoro nelle vesti di  fictus emptor, e, dunque, non può e non ha mai avuto la coscienza e volontà di pagare realmente il corrotto per ottenere qualsivoglia prestazione in cambio.

In conclusione si rende doveroso asserire come nell’attuale stallo normativo, poco spazio ha l’interprete in cui muoversi e si auspica una riforma organica della materia, che tenga conto della struttura delle singole fattispecie delittuose – come nell’esaminato caso della corruzione – ma che soprattutto non trascuri il profilo della libera autodeterminazione della persona, considerato quale intrasmutabile principio del moderno stato di diritto, onde scongiurare una scellerata “caccia alle streghe” qualora si desse troppo potere all’istigazione perpetrabile dagli operatori undercover.


[1] Avvocato presso il foro di Vibo Valentia, specializzata in professioni legali.
[2] Dai dati ISTAT emerge prendendo come riferimento l’anno 2015, che i reati denunciati alle forze di polizia sono stati inferiori del 4,5% rispetto l’anno precedente; in calo sono risultati essere gli omicidi (-1.3%), le violenze sessuali (-6%), le rapine (-105%), i furti (-7%), seppur permane un senso comune di insicurezza e una maggiore percezione del rischio di criminalità.
[3]  V. artt. 17-27, L. 3 agosto 2007, n. 124, in Leggi Penali, Sicurezza della Repubblica e Segreto di Stato; art. 9, L. 16 marzo 2006, n. 146, in Leggi Penali, Attività sotto copertura;  art, 14, L 3 agosto 1998 n. 269 in Leggi Penali, Prostituzione, pornografia, turismo sessuale;  art. 7 D. L. 15 gennaio 1991, n. 8, convertito in L. 15 marzo 1991, n. 82 in Leggi Panali, Sequestri di persona; art. 97, D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, in Leggi Penali, Stupefacenti, quali primi riferimenti normativi nei quali viene dato rilievo alla figura degli agenti sotto copertura.
[4] Sul punto, V. DE MAGLIE, L’agente provocatore. Un’indagine dogmatica e politico-criminale, Milano, 1991, 241 ss.
[5] Sul punto V. FIANDACA, MUSCO, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2007, 503-504; ROMANO-GRASSO, Comm. sist. c.p., Milano, 1990, 166-169.
[6] Così sarà necessaria l’intesa con la Direzione Centrale dell’Immigrazione e della polizia delle frontiere, per i delitti previsti e puniti dall’art. 12, commi 1, 3, 3bis e 3 ter, T.U. D.lgs. 25 luglio 1998, n. 286; con la Direzione Centrale per i servizi antidroga in relazione ai reati previsti dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309.
Differente è invece l’iposi delittuosa di cui agli artt. 17- 27, L. 3 agosto 2007, n. 124, dove si richiede una specifica autorizzazione (art. 18) del Presidente del Consiglio dei ministri, o dell’autorità da lui delegata, per il compimento delle attività previste dalla legge come reato e per le operazioni di cui esse fanno parte, ciò in ragione della peculiare e delicata tematica relativa al segreto di Stato e posta in tutela degli interessi della Nazione.
[7] V. art. 9 L. n. 146/2006.
[8] In periodo antecedente all’emanazione della legislazione speciale, la dottrina soleva distinguere l’agente, tradizionalmente definito “infiltrato”, dall’agente “provocatore” e dall’ulteriore figura dell’agente “istigatore”. Il primo individuato nell’appartenente alle forze di polizia che svolgesse indagini osservando, conoscendo e monitorando l’attività delittuosa, in quanto inseritosi stabilmente nel contesto criminale fingendosi partecipe, ma che non fornisse alcun contributo attivo; il secondo indicato in colui che si adoperava attivamente nella rete delittuosa offrendo contributi alle attività dei rei, allo scopo di continuare le indagini e fornire ulteriori elementi di prova; il terzo ravvisato nel soggetto che, invece, istigava concretamente chi si trovasse nelle condizioni e possibilità di commettere un reato, affinché lo portasse in esecuzione.
Orbene, le prime due figure sono state ormai accorpate nell’unica categoria degli agenti “sotto copertura” onnicomprensiva dei tipi di condotta originari dell’una e dell’altra, nei limiti posti dalle leggi speciali, e l’ultima figura ha preso il posto della “vecchia” tipologia di agente provocatore, facendo così cadere in desuetudine, per ragioni pratiche, la tripartizione originaria.
[9] Sul punto tra le diverse pronunce, V. Corte Eur. Dir. Uomo, Sez. I, 21 marzo 2002, Calabrò c. Italia, n. 51151/99; Corte Eur. Dir. Uomo, Sez. III, 09 giugno 1998, Texeira de Castro c. Portogallo, n. 25829/94; Corte Eur. Dir. Uomo, Sez. III, 23/06/2015, Opriṣ c, Romania, n. 15251/07; Corte Eur. Dir. Uomo, Sez. III, 26/10/2006, Khudobin c. Russia, n. 59696/00.
[10] Corte Eur. Dir. Uomo, Sez. IV, 14/02/2017, Pătraṣku c. Romania, n. 7600/ 09.
[11] Cass., Sez. III, 10 gennaio 2013, Leka, in Mass. Uff., n. 254174.
[12] Sul punto V. TAMIETTI, Agenti provocatori e diritto all’equo processo nella giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo, in Cass. pen., 2002, 2920 ss.; BALSAMO, Operazioni sotto copertura ed equo processo: la valenza innovativa della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Cass. pen., 2008, 2640 e ss.
[13] Corte Eur. Dir. Uomo, Sez. III, 23/5/2012, Van Wesenbeeck c. Belgio, n. 67496/10 e 52936/12.
[14] Comma aggiunto dalla legge 136/2010 e convertito dalla legge 43/2015.
[15] Sentenza Evans Vs Usa, giudice Stevens, 1992, in Corruzione, l’inchiesta di Napoli riapre il caso dell’agente provocatore, di Raffaella Calandra, in http://www.ilsole24ore.com, del 18 febbraio 2018.
[16] GIAN LUIGI GATTA, La repressione della corruzione negli Stati Uniti, strategie politico-giudiziarie e crisi del principio di legalità, in Rivista italiana di Diritto e Procedura Penale, 3/2016.

Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
Listed in ROAD, con patrocinio UNESCO
Copyrights © 2015 - ISSN 2464-9775
Ufficio Redazione: redazione@salvisjuribus.it
Ufficio Risorse Umane: recruitment@salvisjuribus.it
Ufficio Commerciale: info@salvisjuribus.it
***
Metti una stella e seguici anche su Google News
The following two tabs change content below.

Adriana Bruzzaniti

Avvocato presso il foro di Vibo Valentia. Specializzata in professioni legali.

Articoli inerenti