Danni punitivi e ordine pubblico internazionale. La nuova fisionomia della reponsabilità civile
Il tema dell’inquadramento della responsabilità civile nell’ordinamento italiano risente della globalizzazione culturale che ormai da decenni promana lungo la cornice europea ed internazionale.
L’appartenenza dell’Italia alla comunità internazionale e all’Unione europea segna, infatti, una inevitabile contaminazione di idee, principi e valori. Non pochi sono i casi in cui il legislatore nazionale ha accolto i moniti provenienti dall’esterno, adeguando il panorama italiano a standard condivisi. Spesso, tra l’altro, a seguito di condanne provenienti da Strasburgo. Non meno importanti i dibattiti giurisprudenziali; le pronunce delle Corti superiori hanno in numerose occasioni scosso i rigidi e talvolta desueti orientamenti nostrani.
L’incidenza del diritto comunitario ed internazionale sul tessuto interno ha come recente banco di prova il tema della ammissibilità nell’ordinamento italiano dei c.d. danni punitivi.
Con tale espressione si fa riferimento ad un istituto di matrice statunitense (punitive damages) che prevede che l’autore di una condotta illecita, in contesti prevalentemente extracontrattuali, debba corrispondere al danneggiato una somma ulteriore rispetto a quella dovuta sulla base della mera liquidazione del pregiudizio effettivamente patito. Si tratta, precisamente, di una sanzione civile di tipo pecuniario che si aggiunge al quantum strettamente riparatorio del torto, in conseguenza di comportamenti reputati particolarmente riprovevoli.
Il problema pratico posto all’attenzione della giurisprudenza italiana è stato quello del riconoscimento in Italia di sentenze straniere di condanna a danni punitivi, taluni palesando una possibile violazione dei principi di ordine pubblico.
Il contrasto sul punto ha preteso una soluzione chiarificatrice delle Sezioni Unite.
In sintesi, rimandando a breve l’analisi peculiare del tema, si rammenta che, disconoscendo la natura ultracompensativa della responsabilità civile, un’opinione in seno alla Suprema Corte ha negato ingresso nell’ordinamento italiano a pronunce straniere di condanna a punitive damages.
Altra corrente, più recente, ha ammesso la delibazione di sentenze straniere di tal genere aderendo ad una concezione evolutiva di ordine pubblico e valorizzando talune norme di diritto interno a fondamento della plausibilità di una funzione compensativo-punitiva della responsabilità civile.
L’orientamento tradizionale della dottrina e della giurisprudenza ha sempre rimarcato la funzione riparatoria e satisfattiva dell’istituto della responsabilità civile. Ponendo l’accento sulla persona della vittima, si è ritenuto che il rimedio risarcitorio ha lo scopo di ripristinare la situazione giuridica antecedente l’illecito, riparando per equivalente, laddove non sia possibile in forma specifica, la violazione contrattuale o aquiliana subita. La somma di denaro che spetta al danneggiato, pertanto, deve corrispondere alla perdita, non avendo rilevanza alcuna né l’eventuale stato di bisogno del danneggiato medesimo, né le condizioni economiche del responsabile.
Tale corrente giurisprudenziale, affermata per lungo tempo dalla Cassazione (due importanti pronunce al riguardo risalgono al 2007 e al 2012), aggiunge che in definitiva è proprio questa la linea discretiva tra responsabilità civile e responsabilità penale. Il diritto penale, volgendo lo sguardo all’autore del fatto, tende a sanzionarlo per il reato commesso con una pena commisurata alla gravità del fatto stesso. Il diritto civile, al contrario, guarda alla vittima, alla sua perdita patrimoniale o comunque alla sua sofferenza monetizzabile. In ragione di ciò non si vede come potrebbe al danneggiato spettare un surplus economico rispetto al danno subito; una somma superiore sarebbe sintomatica di uno spostamento di ricchezza privo di giustificazione.
Un ordinamento che accorda tutela ai negozi giuridici solo se assistiti da spiegazione causale e che sanziona (civilisticamente parlando) fattispecie come l’ingiustificato arricchimento e il pagamento di indebito non può tollerare che nel patrimonio di un soggetto transiti più ricchezza di quella che legittimamente e a ragione gli spetta.
Di recente la Suprema Corte ha manifestato un indirizzo differente e proprio la non univocità di opinioni è alla base della rimessione alle Sezioni Unite.
La sezione rimettente (ordinanza n. 9978 del 16 maggio 2016) ha ritenuto che non osta ai principi di ordine pubblico la delibazione di pronunce di condanna a punitive damages, sulla base dei seguenti principali argomenti.
Deve essere superata la concezione di ordine pubblico ancorata a profili strettamente interni, per aderire all’innovativa e più ampia concezione di ordine pubblico internazionale. Posto che per “ordine pubblico” si intende l’insieme dei principi e valori che fondano una comunità nazionale in un determinato momento storico e ne delineano la fisionomia, tali canoni non devono essere desunti soltanto dall’ordinamento nazionale di riferimento, ma dall’ordinamento internazionale e comunitario, quali coacervi dei principi comuni agli Stati appartenenti alle medesime tradizioni culturali.
Ciò premesso, la Corte ha ritenuto che non è ravvisabile un principio di ordine pubblico che si opponga all’ingresso nell’ordinamento italiano della categoria del danno punitivo.
Non può, infatti, considerarsi principio di ordine pubblico quello secondo il quale la tecnica risarcitoria avrebbe la sola finalità di ristorare del danno patito dalla vittima del torto o dell’inadempimento. A testimonianza, la Cassazione cita norme codicistiche e di legislazione speciale che sembrano ammettere anche una componente sanzionatoria-deterrente del rimedio risarcitorio per equivalente.
Senza pretesa di esaustività, si pensi alla responsabilità aggravata, alla normativa sul diritto d’autore e sulla proprietà industriale, ai provvedimenti del giudice nei casi di controversie tra genitori per l’esercizio della potestà genitoriale o per le modalità di affidamento della prole.
L’art. 96, comma 3, c.p.c. dispone, nel caso di lite temeraria, che il giudice, quando pronuncia sulle spese, può condannare la parte soccombente al pagamento di una somma equitativamente determinata in favore della controparte.
La legislazione speciale sul diritto d’autore e sulla tutela della proprietà industriale prevede che al danneggiato spetti una somma pari agli utili illecitamente percepiti dal danneggiante. Se la perdita subita dalla vittima è inferiore agli utili ingiustamente percepiti dall’autore della violazione, il surplus comunque corrisposto al danneggiato è evidentemente previsto a mo’ di sanzione.
L’art. 709 ter c.p.c. dispone che se le inadempienze recano pregiudizio al minore, il giudice può ammonire il genitore inadempiente, condannare quello dei due che abbia danneggiato l’altro oppure il minore a risarcire il danno e/o al pagamento di una sanzione amministrativa.
Queste ed altre norme sono l’appiglio cui la tesi giurisprudenziale in commento si è ancorata per sostenere l’ammissibilità di una funzione anche punitiva della responsabilità civile.
In attesa del responso delle Sezioni Unite, è utile considerare che il Supremo Collegio ha altrove negato sussistere una componente sanzionatoria nell’ambito della responsabilità civile.
Il riferimento è alla pronuncia in tema di risarcibilità del c.d. danno tanatologico (SS.UU., sentenza n. 15350/2015).
Quando l’evento morte segue immediatamente il fatto illecito altrui o si verifica a brevissima distanza di tempo, nel patrimonio della vittima non matura il credito risarcitorio e pertanto non è ammessa la trasmissibilità dello stesso jure successionis. La Corte riflette sul dato che o esiste il titolare del diritto, o esiste il diritto risarcitorio, ma non entrambi congiuntamente: il diritto al risarcimento, cioè, nasce con la lesione del bene giuridico “vita”, ossia con l’evento morte, ma questo è anche il momento in cui la vittima, titolare del diritto, non esiste più. Non essendo plausibile ammettere la riparazione di un pregiudizio in assenza del legittimo titolare, si conclude per la non risarcibilità e quindi non trasmissibilità jure hereditatis del danno tanatologico.
Le Sezioni Unite approdano a tale esito proprio disconoscendo la funzione sanzionatoria della responsabilità civile. Se con il meccanismo del risarcimento del danno per equivalente si vuole ristorare il danneggiato della lesione subita, tentando di ripristinare nei limiti del possibile la sua sfera giuridica con riferimento al periodo anteriore all’illecito, allora la mancata percezione del pregiudizio per perdita immediata del bene vita determina che non può esserci risarcimento alcuno.
Se, viceversa, la responsabilità civile avesse avuto anche scopo punitivo, sarebbe stato previsto che a prescindere dalla consapevolezza o meno, da parte della vittima, della imminente fine della propria esistenza, il danneggiante avrebbe dovuto adempiere all’obbligazione risarcitoria, evidentemente in favore degli eredi del de cuius.
È evidente la delicatezza della tematica, che coinvolge una pluralità di argomentazioni condivisibili.
La globalizzazione degli istituti giuridici e l’esigenza che essi circolino rapidamente al di là del territorio di produzione indurrebbe a riconoscere nell’ordinamento interno sentenze di condanna a punitive damages.
Tra l’altro, come sottolineato anche dalla Cassazione che ha abbracciato questa tesi, in tal modo non entrerebbe nello Stato italiano una norma di legge straniera, generale ed astratta, ma una pronuncia giurisdizionale, che è atto destinato per sua natura a regolare uno specifico rapporto.
In ultimo, dalle norme citate (artt. 96, comma 3, c.p.c., 709 ter c.p.c…) pare potersi evincere la poliedricità della responsabilità civile.
Viceversa, le tracciate differenze tra diritto civile e diritto penale e l’attenzione del primo più alla vittima che all’autore del fatto dannoso, inducono a concludere per il ripudio di una concezione sanzionatoria della responsabilità civile.
In ambito contrattuale è stata richiamata a sostegno di questo orientamento la figura della clausola penale, disciplinata dagli artt. 1382 e ss c.c. Vero che le parti possono stabilire l’entità del risarcimento dovuto nel caso di inadempimento o ritardo nell’adempimento, limitandolo ad un quantum da esse deciso e da corrispondere pur in assenza della prova del danno; si è argomentato, però, che la previsione della riduzione di tale entità in caso di manifesta eccessività (art. 1384 c.c.) sta a significare negazione di qualsiasi fine punitivo nei confronti dell’inadempiente.
Sotto il versante extracontrattuale, l’art. 2043 c.c. riferisce il predicato dell’ingiustizia al danno, non al fatto doloso o colposo causativo di esso. Anche in tal caso, pertanto, l’attenzione è concentrata sul danneggiato.
La parola finale delle Sezioni Unite aiuterà a mettere ordine in un territorio tanto complesso.
DALILA DELL’ITALIA
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