Danno ambientale e legittimazione ad agire

Danno ambientale e legittimazione ad agire

Corte Costituzionale, sentenza 1 giugno 2016 n. 126

E’ stata sollevata questione di legittimità costituzionale con riferimento agli artt. 2, 3, 9, 24 e 32 Cost., nonché al principio di ragionevolezza, avente ad oggetto l’art. 311, comma 1 d. lgs. 152 del 2006 (Codice dell’ambiente), nella parte in cui attribuisce al Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare, e per esso allo Stato, la legittimazione all’esercizio dell’azione per il risarcimento del danno ambientale.

In questa interessante pronuncia la Corte Costituzionale ripercorre la disciplina del danno ambientale, evidenziando la mutata prospettiva imposta dalle direttive europee, che hanno condotto alla  collocazione del profilo risarcitorio in una posizione subordinata rispetto alla riparazione.

  1. DANNO AMBIENTALE

L’ambiente e la protezione dell’ecosistema è stato da sempre oggetto di interesse per la Corte Costituzionale, che aveva riconosciuto la «preminente rilevanza accordata nella Costituzione alla salvaguardia della salute dell’uomo (art. 32) e alla protezione dell’ambiente in cui questi vive (art. 9, secondo comma)», quali valori costituzionali primari (sentenze n.247 del 1974 e n. 210 del 1987), sebbene il testo originario della Costituzione non fosse esplicito in tal senso. La giurisprudenza successiva aveva poi superato la ricostruzione in termini solo finalistici, giungendo a definire l’ambiente: «un bene immateriale unitario sebbene a varie componenti, ciascuna delle quali può anche costituire, isolatamente e separatamente, oggetto di cura e di tutela; ma tutte, nell’insieme, sono riconducibili ad unità. Il fatto che l’ambiente possa essere fruibile in varie forme e differenti modi, così come possa essere oggetto di varie norme che assicurano la tutela dei vari profili in cui si estrinseca, non fa venir meno e non intacca la sua natura e la sua sostanza di bene unitario che l’ordinamento prende in considerazione» (sentenza n. 641 del 1987).

Il riconoscimento dell’esistenza di un «bene immateriale unitario» ha condotto all’affermazione della esigenza sempre più avvertita della uniformità della tutela, garantita dallo Stato, senza peraltro escludere che anche altre istituzioni potessero e dovessero farsi carico degli indubbi interessi delle comunità che direttamente fruiscono del bene.

Con la riforma del Titolo V è sta introdotta la materia «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema», all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., quale competenza esclusiva dello Stato, coerentemente alla pregressa giurisprudenza.

Nel successivo terzo comma dell’art. 117 Cost. viene riconosciuta la rilevanza dei numerosi e diversificati interessi che fanno capo alle Regioni e quindi ai relativi enti territoriali. Così confermando il punto fermo del sistema elaborato dalla giurisprudenza circa la pluralità dei profili soggettivi del bene ambientale (sentenza n. 378 del 2007).

La prima disciplina organica della materia (la legge 8 luglio 1986, n. 349 “Istituzione del Ministero dell’ambiente e norme in materia di danno ambientale”) rispecchiava tale pluralità, prevedendo (art. 18, comma 3) che l’azione di risarcimento del danno ambientale potesse essere promossa «dallo Stato, nonché dagli enti territoriali sui quali incidano i beni oggetto del fatto lesivo».

Ciò era coerente con una visione che privilegiava una peculiare responsabilità di tipo extracontrattuale connessa a fatti, dolosi o colposi, cagionanti un danno ingiusto all’ambiente. In questa prospettiva civilistica non era illogico collegare l’azione ad ogni interesse giuridicamente rilevante.

Il quadro normativo è, tuttavia, profondamente mutato con la direttiva 21 aprile 2004, n. 2004/35/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale) secondo cui la prevenzione e la riparazione di tale danno nella misura del possibile «[contribuiscono] a realizzare gli obiettivi ed i principi della politica ambientale comunitaria, stabiliti nel trattato»; tenendo fermo, peraltro, il principio «chi inquina paga», pure stabilito nel Trattato istitutivo della Comunità europea (n. 1 e n. 2 del “considerando”).

In particolare, nell’Allegato II della direttiva, relativa alla «Riparazione del danno ambientale», si pone in luce come tale riparazione è conseguita riportando l’ambiente danneggiato alle condizioni originarie tramite misure di riparazione primaria, che sono costituite da «qualsiasi misura di riparazione che riporta le risorse e/o i servizi naturali danneggiati alle o verso le condizioni originarie». Solo qualora la riparazione primaria non dia luogo a un ritorno dell’ambiente alle condizioni originarie, si intraprenderà la riparazione complementare e quella compensativa.

Il cambiamento di prospettiva, con la conseguente collocazione del profilo risarcitorio in una posizione accessoria rispetto alla riparazione, è stato fatto proprio dal legislatore, che in sede di attuazione della direttiva, con il d.lgs. n. 152 del 2006, ha statuito la priorità delle misure di “riparazione” rispetto al risarcimento per equivalente pecuniario, quale conseguenza dell’assoluta peculiarità del danno al bene o risorsa “ambiente”.

Poi, con l’art. 5-bis del decreto-legge n. 25 settembre 2009, n. 135 (Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 20 novembre 2009, n. 166, − per rispondere a una procedura di infrazione della UE − si è precisato che il danno all’ambiente deve essere risarcito con le misure di riparazione «primaria», «complementare» e «compensativa» contenute nella direttiva n. 2004/35/CE; prevedendo un eventuale risarcimento per equivalente pecuniario esclusivamente se le misure di riparazione del danno all’ambiente fossero state in tutto o in parte omesse, o fossero state attuate in modo incompleto o difforme rispetto a quelle prescritte ovvero risultassero impossibili o eccessivamente onerose;

Infine, con l’art. 25 della legge 6 agosto 2013, n. 97 (Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea − Legge europea 2013), per rispondere all’ulteriore contestazione della Commissione europea, si è ulteriormente riordinata la materia, eliminando i riferimenti al risarcimento “per equivalente patrimoniale” e imponendo per il danno all’ambiente “misure di riparazione” (specificate dall’Allegato 3 alla Parte sesta del d.lgs. n. 152 del 2006).

Di particolare rilievo è l’individuazione dei soggetti che sono tenuti al ripristino.

L’adozione delle misure necessarie è in prima battuta a carico del responsabile del danno, ai sensi dell’art. 311 del d.lgs. n. 152 del 2006, ma lo stesso articolo, al comma 2, prevede che, quando le misure risultino in tutto o in parte omesse, o comunque realizzate in modo incompleto o difforme dai termini e modalità prescritti, il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare procede direttamente agli interventi necessari, determinando i costi delle attività occorrenti per conseguire la completa e corretta attuazione e agendo nei confronti del soggetto obbligato per ottenere il pagamento delle somme corrispondenti.

Le conseguenze del processo evolutivo indotto dalla normativa comunitaria sono chiaramente percepite dalla Corte Cost. quando afferma (sentenza n. 641 del 1987), in ordine all’art. 18 citato, che la legittimazione attiva dello Stato (e allora degli enti territoriali) trovava il suo fondamento «nella loro funzione a tutela della collettività […] e degli interessi all’equilibrio ecologico, biologico e sociologico del territorio».

La qualificazione in termine di “funzione” manifesta il carattere pubblicistico del ruolo di chi è preposto alla tutela del bene ambientale, carattere confermato dalla modalità del suo esercizio. L’art. 311, più volte citato, riconosce al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare la possibilità di scegliere tra la via giudiziaria e quella amministrativa. Nel secondo caso (artt. 313 e 314 del codice dell’ambiente), con ordinanza immediatamente esecutiva, il Ministero ingiunge a coloro che siano risultati responsabili del fatto il ripristino ambientale a titolo di risarcimento in forma specifica entro un termine fissato.

Qualora questi non provvedano in tutto o in parte al ripristino nel termine ingiunto, o all’adozione delle misure di riparazione nei termini e modalità prescritti, il Ministro determina i costi delle attività necessarie a conseguire la completa attuazione delle misure anzidette secondo i criteri definiti con il decreto di cui al comma 3 dell’art. 311 e, al fine di procedere alla realizzazione delle stesse, con ordinanza ingiunge il pagamento, entro il termine di sessanta giorni dalla notifica, delle somme corrispondenti.

  1. L’ORDINANZA DI RIMESSIONE

Secondo il Tribunale remittente  la legittimazione a costituirsi parte civile nei processi per reati ambientali spetta non solo al Ministero ma anche all’ente pubblico territoriale e ai soggetti privati che per effetto della condotta illecita abbiano subito un danno risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c., diverso da quello ambientale.

Il Tribunale rileva, quindi, che la giurisprudenza, sia di merito che di legittimità ha interpretato il citato art. 311, comma 1, nel senso che lo stesso attribuisce la legittimazione a costituirsi parte civile per il risarcimento del danno ambientale solo allo Stato; tuttavia, una diversa interpretazione sarebbe possibile in ragione di quanto affermato da questa Corte con la sentenza n. 235 del 2009, secondo la quale l’art. 311, comma 1, del d.lgs. n. 156 del 2006, pur non riconoscendo espressamente la legittimazione ad agire delle Regioni, «neppure la esclude in modo esplicito». Si evidenzia, quindi, che la giurisprudenza di legittimità ha affermato che non sussiste alcuna antinomia reale fra la norma generale di cui all’art. 2043 c.c. (che attribuisce a tutti il diritto di ottenere il risarcimento del danno per la lesione di un diritto) e la norma speciale di cui all’art. 311 (che riserva esclusivamente allo Stato la legittimazione ad agire per il risarcimento del danno da lesione all’ambiente, inteso come diritto pubblico generale a fondamento costituzionale).

La Corte costituzionale n. 641 del 1987 aveva posto in luce che l’ambiente «non è certamente possibile oggetto di una situazione soggettiva di tipo appropriativo: ma, appartenendo alla categoria dei c.d. beni liberi, è fruibile dalla collettività e dai singoli», ed è valore primario ed assoluto, che in quanto tale (sentenza n. 85 del 2013) non può essere sacrificato ad altri interessi, ancorché costituzionalmente tutelati.

Peraltro, il giudice a quo prospetta (in riferimento agli artt. 3, 9, 24 e 32 della Costituzione) che l’accentramento della legittimazione ad agire in capo ad un solo soggetto non garantirebbe un sufficiente livello di tutela della collettività e della comunità, nonché degli interessi all’equilibrio economico, biologico e sociologico del territorio, comportando l’irragionevole sacrificio di un aspetto ineludibile nel sistema di tutela. Inoltre (art. 3 Cost., principio di ragionevolezza) l’esclusione della possibilità di agire in giudizio per la Regione e per egli enti territoriali, soggetti esponenziali della collettività che opera nel territorio leso che è parte costitutiva della soggettività degli stessi, rispetto allo Stato, darebbe luogo a disparità di trattamento tra soggetti portatori di identica posizione giuridica. Infine il giudice a quo deduce (art. 2 Cost.) che la deroga alla disciplina generale della responsabilità civile determina un trattamento deteriore del diritto ad un ambiente salubre − diritto primario ed assoluto, rientrante tra i diritti inviolabili dell’uomo di cui al citato parametro costituzionale − rispetto ai restanti diritti costituzionali di pari valore, i quali, con riguardo alla sfera di tutela della responsabilità civile, non subiscono alcuna limitazione nella titolarità della legittimazione ad agire.

  1. LA DECISIONE DELLA CORTE

La Corte Costituzionale dichiara non fondata la questione di legittimità dell’art. 311, comma 1, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 9, 24 e 32 della Costituzione, nonché al principio di ragionevolezza, dal Tribunale ordinario di Lanusei e ribadisce la disciplina di cui all’art. 311 del d.lgs. 152 del 2006 nella parte in cui attribuisce allo Stato la legittimazione ad agire per il risarcimento del danno ambientale.

Invero, la Corte afferma che: “la scelta di attribuire all’amministrazione statale le funzioni amministrative trova una giustificazione nell’esigenza di assicurare che l’esercizio dei compiti di prevenzione e riparazione del danno ambientale risponda a criteri di uniformità e unitarietà, atteso che il livello di tutela ambientale non può variare da zona a zona e considerato anche il carattere diffusivo e transfrontaliero dei problemi ecologici, in ragione del quale gli effetti del danno ambientale sono difficilmente circoscrivibili entro un preciso e limitato ambito territoriale”.

Infatti, una volta messo al centro del sistema il ripristino ambientale, emerge con forza l’esigenza di una gestione unitaria in una visione e con strategie sovranazionali. Invero, un intervento di risanamento frazionato e diversificato, su base “micro territoriale” sarebbe in contrasto con l’esigenza di una tutela sistemica del bene.

Inoltre, in termini di possibile iniziativa autonoma, la Corte sottolinea come la riserva allo Stato non escluda che ai sensi dell’art. 311, d.lgs. n. 152 del 2006 sussista il potere di agire di altri soggetti, comprese le istituzioni rappresentative di comunità locali, per i danni specifici da essi subiti.

Pertanto, la normativa speciale sul danno ambientale si affianca alla disciplina generale del danno posta dal codice civile, non potendosi pertanto dubitare della legittimazione degli enti territoriali a costituirsi parte civile iure proprio nel processo per reati che abbiano cagionato pregiudizi all’ ambiente, per il risarcimento non del danno all’ ambiente come interesse pubblico, bensì (al pari di ogni persona singola od associata) dei danni direttamente subiti: danni diretti e specifici, ulteriori e diversi rispetto a quello, generico, di natura pubblica, della lesione dell’ambiente come bene pubblico e diritto fondamentale di rilievo costituzionale.


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