Danno da perdita del rapporto parentale ed onere della prova
Il diritto al risarcimento del danno da perdita parentale rappresenta una questione molto dibattuta in dottrina ed in giurisprudenza, specie negli ultimi decenni.
Non a caso detto argomento ha messo alla prova anche gli aspiranti avvocati che si sono cimentati nella seconda traccia del parere di diritto civile all’esame di stato dello scorso Dicembre 2017.
La fonte normativa del danno da perdita parentale è rinvenibile nell’art. 2059 c.c., ai sensi del quale il danno non patrimoniale è risarcibile soltanto nei casi determinati dalla legge, ovvero quando il fatto illecito sia astrattamente configurabile come reato, quando sussiste una delle ipotesi in cui la legge consente il ristoro del danno non patrimoniale, pur non trattandosi di una fattispecie qualificabile come reato oppure quando si tratta di diritti inviolabili della persona, garantiti a livello costituzionale. A tal uopo, pare opportuno rammentare che il suindicato articolo non si configura come un’autonoma categoria di danno ma presuppone la sussistenza di tutti gli elementi di cui all’art. 2043 c.c.
In cosa consiste il danno da perdita parentale ?
Com’è noto, il danno parentale consiste nella perdita di un prossimo congiunto che determina un profondo mutamento delle condizioni di vita del familiare il quale, a seguito di siffatto evento, non è più in grado di godere della sua presenza e del legame affettivo che esisteva, fino a quel momento. La ratio del danno parentale consiste, dunque, nella privazione e nel vuoto determinato dalla definitiva perdita del godimento del congiunto nonché dall’irreversibile distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività, sulla condivisione e sulla quotidianità dei rapporti.
La famiglia, infatti, quale formazione sociale, è riconosciuta non solo dagli artt.2,29 e 30 della Costituzione ma anche dall’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo in quanto il bene giuridico tutelato è l’intangibilità della famiglia. Affinchè possa configurarsi il danno da perdita parentale, è opportuno prendere in considerazione diverse circostanze dalle quali possa desumersi la sussistenza di un vincolo affettivo esistente al momento del verificarsi dell’evento lesivo.
Ad ogni buon conto, anche in presenza di lesioni degli interessi protetti e garantiti dall’ ordinamento è onere del danneggiato provare il conseguente danno.
Invero, la dottrina e la giurisprudenza si sono, per lungo tempo, domandate se anche i soggetti estranei al nucleo familiare possano o meno considerarsi “vittime di riflesso”, tali da poter invocare il ristoro del pregiudizio subito a seguito del danno da perdita del rapporto parentale. Ci si chiedeva, pertanto, se i nipoti fossero legittimati a chiedere ed ottenere il risarcimento dei danni in favore della nonna, deceduta a causa di un sinistro stradale.
Il nodo sotteso al caso di specie riguardava l’effettiva sussistenza di una situazione di convivenza tra i nipoti e la nonna, in mancanza della quale, a parere dei Giudici di primo e secondo grado non poteva configurarsi alcun risarcimento.
Sul punto, la Suprema Corte, dissentendo dai precedenti orientamenti, ha avuto modo di precisare che la convivenza non può costituire elemento discriminante per accordare o meno la tutela risarcitoria. A tal riguardo, va infatti considerata l’importanza dei nonni nella realtà socio-educativa attuale, i quali spesso costituiscono un punto di riferimento per i nipoti.
In buona sostanza, l’indagine a cui è chiamato il Giudice ai fini dell’accertamento del danno lamentato non può limitarsi all’esistenza della convivenza tra il congiunto e la vittima, ma deve riguardare il concreto atteggiarsi di quel rapporto affettivo esistente e tale da aver determinato una mutatio in peius nella vita del soggetto danneggiato. In altre parole, spetta al danneggiato provare, ex art. 2697 cc., l’effettivo pregiudizio patito a seguito della perdita subita e del vincolo affettivo esistente con il de cuius.
Ed infatti, anche la Corte di Cassazione con recentissima sentenza n. 907/2018 depositata in data 17 Gennaio 2018, richiamando il principio secondo cui “la possibilità di provare per presunzioni non esonera chi lamenta un danno e ne chiede il risarcimento da darne concreta allegazione e prova” ha affermato che, in tema di perdita del rapporto parentale, il danno non deve essere considerato in re ipsa; bensì deve essere compiutamente descritto nonchè allegato, provato e documentato facendo ricorso alla prova testimoniale, documentale e presuntiva.
A tal riguardo, al fine di provare l’intensità del danno, potrebbe essere utile una prova per testi atta a verificare il legame esistente tra le parti e l’eventuale convivenza nonché la produzione documentale quale ad esempio testamenti, lettere, messaggi.
Orbene, la liquidazione del danno avviene in base a valutazione equitativa che tenga conto dell’intensità del vincolo familiare, della situazione di convivenza e di ogni ulteriore circostanza di rilievo quale la consistenza del nucleo familiare, le abitudini di vita, l’età della vittima ecc.
Tuttavia, nel caso di specie, la Corte territoriale aveva invece ritenuto che il danno domandato dal congiunto fosse in re ipsa e dovesse spettare in assoluto e secondo il criterio presuntivo ai “parenti stretti” del defunto; liquidando, sulla base di detto assunto, la medesima somma indiscriminatamente in favore di ciascuno dei fratelli del lavoratore deceduto a seguito di un incidente verificatosi nella cava ove svolgeva le proprie mansioni.
Sul punto, in virtù di quanto statuito dalla Corte di Cassazione, è attesa una nuova decisione della Corte d’Appello competente a cui è stato rinviato il caso.
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Avv. Daniela Cardillo
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