Danno lungolatente: quando sorge il diritto al risarcimento del danno biologico?
L’art. 2043 c.c. è una norma di fondamentale importanza in quanto disciplina la cd responsabilità extracontrattuale ossia quella responsabilità che viene a sussistere in capo al danneggiante qualora quest’ultimo con dolo o colpa cagioni un danno ad altro soggetto cd danneggiato. Il legislatore, a tutela del danneggiato, ha imposto al danneggiante l’obbligo di risarcire i danni cagionati.
Presupposto per aversi responsabilità extracontrattuale è la commissione di un danno, il quale a seconda della natura dell’interesse leso può essere di due diverse tipologie:
– danno patrimoniale: è il danno cagionato a un bene appartenente al patrimonio del danneggiato;
– danno non patrimoniale: è un danno-conseguenza ciò vuol dire che non rileva il danno in sé ma le conseguenze pregiudizievoli di carattere non economico che da esso derivano.
Il danneggiato quindi al fine di ottenere un risarcimento deve provare: la sussistenza del fatto illecito, la colpa del danneggiante, il verificarsi del fatto illecito, la sussistenza del danno conseguenza dell’illecito e il nesso di causalità (ossia quel nesso che lega il fatto allo evento).
Proprio in riferimento ai danni non patrimoniali è opportuno fare delle precisazioni in quanto si è soliti distinguere tre diverse tipologie di danni non patrimoniali, ma la tripartizione è solo descrittiva in quanto a essere risarcito sarà sempre l’interesse leso ricompreso in quelli non patrimoniali. Si è soliti quindi distinguere l’unica voce di danno non patrimoniale in:
– danno morale che si identifica con la sofferenza interiore del soggetto per l’illecito subito;
– danno biologico che si identifica con la lesione del diritto alla salute di un soggetto accertata da un medico legale e che quindi va liquidato prima di ogni altro pregiudizio trovando la sua fonte nell’art.32 Cost, norma che tutela il diritto alla salute;
– danno esistenziale che si identifica con la violazione dei diritti fondamentali della persona diversi dalla salute. Tale danno si estrinseca in un non facere tuttavia, pur trovando il suo fondamento nell’art.2069 c.c. che consente in determinati casi stabiliti dalla legge di risarcire anche tali danni, esso non è sempre suscettibile di risarcimento, per verificare la sua risarcibilità il giudice dovrà effettuare un bilanciamento tra l’art.2 Cost. e il principio di tolleranza, infatti l’art.2 Cost consente di sopportare interferenze altrui nella propria sfera giuridica a condizione che tali interferenze non superino la normale soglia di tollerabilità sicché solo in tal caso il danno esistenziale sarà risarcibile, mentre se non si riscontra la lesione di diritti costituzionalmente inviolabili della persona non è possibile ottenere una tutela risarcitoria.
Nel presente articolo ci si soffermerà ad analizzare una tipologia di danno biologico, in particolare il cd. danno lungolatente.
Il danno lungolatente è quella tipologia di danno alla salute che si realizza in un momento successivo alla sua causazione, infatti, la stessa giurisprudenza ha stabilito che si è in presenza di danno lungolatente quando vi è <<trasfusione di sangue contagiato da epatite o HIV, l’assunzione di emoderivati infetti, uso di farmaci di cui non era stata dichiarata la pericolosità, vaccinazioni da cui derivi una grave patologia per il vaccinato, esposizione all’amianto, operazioni chirurgiche con effetti dannosi a lunga scadenza>>.
In riferimento a questa tipologia di danno è sorto un problema relativo all’individuazione del dies a quo in quanto l’art. 2935 c.c. è chiaro nello stabilire che la prescrizione decorre dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere dunque il termine di prescrizione decorre dal momento in cui si può esercitare il diritto di tutela, non da quello in cui il diritto risulta violato.
Dunque, visto che il danno alla salute nel caso di danno lungolatente potrebbe manifestarsi in un momento successivo rispetto al momento in cui viene commesso il fatto ci si è chiesti quando sorge il diritto a poter chiedere il risarcimento del danno lungolatente.
La questione è stata avallata alla Corte di Cassazione la quale con la sentenza nr. 5119/2023 ha affrontato la problematica.
In modo particolare, nel caso di specie il tribunale di primo grado e la Corte di Appello rigettavano la richiesta di risarcimento del danno presentata da un soggetto il quale affermava di aver contratto un’infezione da epatite C a seguito di un trasfusione ricevuta nel 1969.
In particolare il tribunale di primo grado rigettava la richiesta di risarcimento danni in quanto riteneva che nel 1969 non era ancora nota l’epatite di tipo C, e che pertanto non potesse porsi a carico dell’amministrazione sanitaria l’obbligo di prevenirne la diffusione; la Corte d’appello di Salerno, con sentenza parziale sull’an, riformava la decisione di primo grado, affermando la carenza di legittimazione passiva dell’Azienda ospedaliera e, quanto alla posizione del Ministero, statuiva che gravava comunque sull’amministrazione sanitaria, già al tempo della trasfusione, l’obbligo di controllare la provenienza e l’utilizzabilità del sangue impiegato per le trasfusioni, tuttavia riconosceva in capo all’appellante un danno biologico fondato su una invalidità permanente del 40%, a partire dal 2009, anno in cui la malattia cessava di essere latente e si manifestava in tutta la sua forza, quindi la Corte d’Appello faceva così decorrere il diritto a chiedere il risarcimento del danno e i relativi accessori a partire da tale data, condannava il Ministero della Salute, a corrispondere all’ appellante per danno biologico e morale la complessiva somma di Euro 334.902,60. In particolare, procedeva alla liquidazione del danno biologico fondandosi sulle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano, sulla base di una percentuale di invalidità del 40%, negando il diritto ad una ulteriore personalizzazione; liquidava il danno morale nella misura del 30% del danno biologico riconosciuto.
Il ricorrente tuttavia, impugnava la decisione in Cassazione per alcuni motivi:
– violazione degli art. 1226;2043 c.c. in quanto sosteneva che il diritto al risarcimento del danno dovesse essere retrodatato al momento in cui la condotta antigiuridica fu posta in essere e quindi all’ottobre 1969 e non dal manifestarsi dei primi sintomi così come stabilito in Appello;
– violazione dell’art. 360, comma 1, numero 5 c.p.c., per omessa motivazione della sentenza nella parte in cui fa decorrere il danno biologico dal momento della manifestazione virulenta della malattia senza indicare l’iter logico giuridico seguito per giungere a quella determinazione.
Avverso il ricorso il Ministero della Salute proponeva ricorso incidentale sostenendo che:
– in caso di danno c.d. lungolatente (nella specie, contrazione di epatite C, asintomatica per più di venti anni, derivante da trasfusione), il diritto al risarcimento del danno biologico sorge solo con riferimento al momento di manifestazione dei sintomi e non dalla contrazione dell’infezione,
– ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale da lesione della salute secondo le Tabelle di Milano 2018– ove si accerti la sussistenza, nel caso concreto, tanto del danno biologico, quanto del danno morale,- il “quantum” risarcitorio deve essere determinato applicando integralmente i valori tabellari (che contemplano entrambe le voci di danno), costituendo duplicazione risarcitoria il riconoscimento di un ulteriore importo a titolo di liquidazione del danno morale, calcolato in una percentuale del danno biologico liquidato.
La Corte ha accolto il ricorso incidentale presentato dal Ministero della Salute e quindi ha affermato il principio di diritto in virtù del quale si ritiene che per ottenere il risarcimento del danno biologico, nel caso di specie del danno lungolatente, debbano manifestarsi dei sintomi, non essendo rilevante il momento in cui viene contratta l’infezione.
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Avvocato Antonella Fiorillo
Laureata in giurisprudenza.
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