Danno non patrimoniale e danni punitivi

Danno non patrimoniale e danni punitivi

Quando si parla di danni punitivi si fa riferimento a quella tipologia di risarcimento del danno che va oltre il ripristino dello status quo ante del danneggiato. In tal caso, il quantum risarcitorio non è equivalente al danno cagionato dal danneggiante ma va oltre quest’ultimo e tale quid pluris assolve una funzione sanzionatoria-deterrente.

La categoria dei “punitive demages” nasce nella giurisprudenza nordamericana e viene impiegata per designare la somma di denaro attribuita al danneggiato in aggiunta alle voci puramente compensative, che abbia posto in essere una condotta intenzionale, maliziosa o irrispettosa. Le funzioni perseguite dai danni punitivi sono essenzialmente quattro: punire il danneggiante per la propria condotta; scoraggiare il danneggiante e la collettività dal tenere in futuro condotte analoghe; ricompensare il danneggiato a seguito della sua azione in giudizio; permettere alla vittima una integrazione rispetto ad una riparazione che viene percepita come insufficiente.

Ciò posto, la valutazione sia dell’an che del quantum risarcitorio è rimesso alla discrezionalità del giudice, il quale dovrà valutare l’atteggiarsi della condotta illecita, la natura e l’entità subita dall’attore.

Precisata la definizione e le origini dei danni punitivi, prima di analizzare nello specifico tale dibattuta categoria risarcitoria, è necessario chiarire quali sono le funzioni della responsabilità civile nel nostro ordinamento, per poi verificare la compatibilità di una funzione sanzionatoria del risarcimento del danno.

In particolare, il diritto al risarcimento del danno nel nostro ordinamento ha, storicamente, la funzione di reagire all’illecito dannoso per risarcire il danneggiato e quella di ripristinare lo status quo ante; in altri termini, la funzione è riparatorio-ripristinatoria. La prospettiva è quella vittimologica, si guarda cioè alla sfera giuridica del soggetto danneggiato per ripristinare le sue condizioni personali e patrimoniali preesistenti al fatto dannoso attraverso l’attribuzione di una utilità sostitutiva che corrisponda al valore delle perdite subite. A fianco a tale funzione, assolutamente preminente, si affiancano che altre funzioni “sussidiarie” come quella di distribuzione delle perdite, per cui si ha la traslazione della perdita dal soggetto che l’ha effettivamente subita a quello che l’ha cagionata, ed infine anche la funzione di allocazione dei costi.

La funzione sopra indicata è contrapposta a quella sanzionatoria, che generalmente non è riconosciuta alla responsabilità civile che, al contrario, mira a compensare la vittima e non a punire il danneggiante. La funzione sanzionatoria, prevista nel codice del 1865, era il corollario di una disciplina della responsabilità civile fondata sulla prospettiva del soggetto agente, in cui elemento centrale era il fatto illecito e la responsabilità era strutturata come una fattispecie giuridica, cioè come una somma di elementi: essa, infatti, si configurava in presenza di una condotta illecita che fosse almeno colposa, in presenza di un danno e di un nesso causale tra l’azione e il danno. Dunque, analogamente alle norme incriminatrici di diritto penale, la responsabilità civile era concepita come uno schema tipico. È solo con il codice del 42’ che il baricentro viene spostato dalla illiceità del fatto al danno ingiusto. In tale nuova prospettiva, la funzione non è più quella di sanzionare il danneggiante ma quella di risarcire e riparare i danni subiti dalla vittima; questa nuova concezione, basata sull’ingiustizia del danno e sulla funzione non sanzionatoria della responsabilità civile, è ad oggi la concezione dominante in dottrina e in giurisprudenza.

Ciononostante, deve ritenersi che in realtà le due funzioni possano coesistere; ed infatti, nella fattispecie delineata dall’art. 2043 c.c. il danno ingiusto, cioè la lesione di un interesse giuridicamente tutelato, è quello cagionato da un fatto non iure, cioè non conforme all’ordinamento, non autorizzato e quindi illecito. Dunque, non solo il danno è considerato negativamente, ma anche il fatto presenta una sua contrarietà con l’ordinamento giuridico, a conferma di ciò si segnala l’art 1173 c.c. che annovera il “fatto illecito” tra le fonti delle obbligazioni. È chiaro allora che nel 2043 c.c. vi sia una doppia prospettiva: il fatto illecito attiene alla sfera giuridica del danneggiante, mentre il danno ingiusto attiene alla sfera giuridica del danneggiato; ne deriva, pertanto, che è possibile anche una consequenziale doppia funzione: ripristinatoria e riparatoria per il danneggiato e sanzionatoria per il danneggiante.

Strettamente connessa alla funzione sanzionatoria è quella deterrente, in base alla quale l’obbligazione risarcitoria è volta a disincentivare la produzione dei danni. Infatti, il soggetto agente nel momento in cui si determini all’azione dovrà prende in considerazione anche il fattore economico costituito dal risarcimento del danno per valutare i vantaggi e gli svantaggi che derivino dal suo agire e solamente quando agire illecitamente non sarà “conveniente” si potrà realizzare quella funzione preventiva alla realizzazione di illeciti che è sottesa alla funzione deterrente. Anche tale funzione è stata “riscoperta” dalla dottrina, essa, pur essendo tipicamente connessa alle forme di responsabilità oggettiva, non è estranea neppure nei casi di responsabilità oggettiva: infatti, l’agente che sia consapevole che l’obbligo del risarcimento del danno, cagionato da una sua attività rischiosa, graverà su di lui a prescindere da un suo atteggiamento colposo sarà indotto ad assumere tutte le cautele idonee ad evitare il danno ovvero a ridurre il margine di rischio.

Premesso quanto sopra è necessario ribadire che, nonostante le funzioni sanzionatorie e deterrenti della responsabilità civile non siano incompatibili con la fattispecie ex art. 2043 c.c., la concezione dominante e preminente è quella che individua in quella riparatoria-ripristinatoria la funzione tipica della responsabilità civile.

Ciò chiarito, i problemi che si pongono in merito alla compatibilità dei danni punitivi nel nostro ordinamento sono essenzialmente due: l’estraneità dell’idea di punizione e della sanzione al risarcimento del danno; la difficile compatibilità delle sentenze di condanna per danni punitivi con l’ordine pubblico interno;

Come detto, la principale funzione riconosciuta alla responsabilità civile è quella riparatoria, ragion per cui non appare coerente con essa una eventuale condanna per il risarcimento dei danni punitivi, che andrebbero oltre il danno subito. In particolare, il fondamento normativo di tale inammissibilità è individuato nell’art 2056 c.c., il quale rinviando all’art 1223 c.c. rende applicabili alla responsabilità aquilana gli stessi criteri previsti per il risarcimento del danno per inadempimento, e quindi danno emergente e lucro cessante, senza che possa esservi spazio per un quid pluris sanzionatorio. Dunque, il risarcimento del danno, assolvendo una funzione compensativa, per definizione non può essere punitivo.

Questo è l’impianto attuale, ma ciò non toglie che il legislatore possa intervenire con specifiche norme, in un’ottica derogatoria rispetto ad un principio generale, a prevedere forme speciali di responsabilità aquilana che tendano, oltre che compensare la vittima, a punire il danneggiante.

Ed infatti nel nostro ordinamento, sia nel codice civile che nelle leggi speciali, vi sono numerose ipotesi normative che prevedono un risarcimento del danno che sembra allontanarsi nettamente dallo schema compensativo, apparendo più come una punizione per l’autore del fatto. In particolare possono citarsi: l’art 96 comma 3 c.p.c., che prevede la condanna della parte soccombente ad una somma equitativamente determinata in funzione sanzionatoria dell’abuso del processo; l’art 709-ter c.p.c. che prevede un analogo risarcimento in funzione sanzionatoria nelle controversie tra i genitori, relative all’esercizio della responsabilità genitoriali ovvero alle modalità di affidamento della prole; particolare rilevanza assume, inoltre, l’art 125 della L. 30 del 2005 sulla proprietà industriale che riconosce al danneggiato un risarcimento corrispondente ai profitti realizzati dall’autore del fatto, connotato da una funzione preventiva e deterrente, laddove l’agente abbia lucrato un profitto di maggiore entità rispetto alla perdita subita dal danneggiato. A tali ipotesi citate deve aggiungersi anche quella recentissima, introdotta dal dlgs 7 del 2016 che, nell’abrogare varie fattispecie di reato previste a tutela della fede pubblica dell’onore e del patrimonio, per i fatti dolosi ha affiancato al risarcimento del danno lo strumento afflittivo di sanzioni pecuniarie civili, con finalità preventiva e repressiva, il cui importo è determinato dal giudice sulla base della gravità della violazione, della reiterazione  dell’illecito, dell’opera svolta per l’eliminazione o attenuazione delle conseguenze dell’illecito; infine, rileva anche l’art 12 della legge 47 del 1948 la quale, in materia di diffamazione a mezzo stampa, prevede il pagamento di una somma di denaro “in relazione alla gravità dell’offesa ed alla diffusione dello stampato”. Da tale ultima norma, si desume che anche in tal caso la somma prevista non appare afferente ad una funzione compensativa e riparatoria ma, al contrario, costituisce una sanzione per l’autore della diffamazione. Diffamazione che, oltre a costituire reato, è idoneo a cagionare un danno non patrimoniale ed in particolare quelle sofferenze transeunte, patema d’animo e sofferenza interiore, tipiche del danno morale. Dunque, alla luce di quanto esposto, fermo restando che una parte della dottrina e della giurisprudenza ritiene che le suddette ipotesi non introducano casi di danni punitivi, è palese che l’ordinamento giuridico non si pone in una posizione di chiusura totale nei confronti della categoria dei danni punitivi, o meglio nella possibilità di comminare un risarcimento del danno che vada oltre al danno subito.

Un arresto fondamentale in materia è quello avutosi con la sentenza a Sezioni Unite 5 luglio 2017 n. 16601.  La Corte, chiamata a pronunciarsi in merito alla questione del riconoscimento nel nostro ordinamento delle sentenze straniere di condanna al risarcimento di danni punitivi, ha affrontato più in generale la loro ammissibilità. In particolare, le SU partono da un presupposto: quello per cui la funzione sanzionatoria non è incompatibile con i principi generali del nostro ordinamento, perciò negli ultimi decenni sono state introdotte disposizioni che hanno dato un connotato latu sensu sanzionatorio al risarcimento del danno. Tuttavia, tale connotato non è ammissibile al di fuori dei casi nei quali una norma di legge lo preveda, diversamente si violerebbe l’art 25 cost. e l’art 7 CEDU. Dunque, negli ultimi anni può dirsi che sia emersa una natura polifunzionale della responsabilità civile, che tende ad assolvere una funzione preventiva e sanzionatorio-punitiva, che naturalmente si affianca alla primaria e preponderante funzione compensativo-riparatoria. Ne deriva che, l’istituto aquilano continua a mantenere la sua essenza e la sua preponderanza ma, tuttavia, il legislatore potrà prevedere ipotesi in cui il risarcimento del danno potrà avere una “curvatura” funzionale in un’ottica punitiva, a condizione che vi sia una intermediazione legislativa che preveda tale “distrazione”. In altri termini, le SU delineano un quadro in cui la funzione compensativa e riparatorie è la regola, mentre la funzione sanzionatoria-punitiva è l’eccezione che, per tanto, deve essere espressamente prevista dalla legge.

Inoltre, la pronuncia elenca tutte le ipotesi legislativamente previste, e precedentemente citate, che deviano da una funzione meramente ripristinatoria, tra cui anche l’art 12 della legge 47 del 1948. La pronuncia in definitiva statuisce che la prestazione patrimoniale di carattere sanzionatorio-deterrente non può essere imposta dal giudice italiano senza che vi sia una espressa previsione normativa; allo stesso modo, la sentenza straniera di condanna al risarcimento del danno in funzione punitiva non può essere riconosciuta nel nostro ordinamento se non fondata su una norma di legge.

Da quanto detto, può concludersi, quindi, che nonostante le difficoltà insite nel quantificare il danno non patrimoniale in una somma di denaro che sia idonea a ristorare il nocumento subito, non pare possa escludersi che i danni punitivi possano estendersi anche a fattispecie in cui vengano lesi diritti inerenti la personalità, anche con finalità deterrenti oltre che punitive, per assicurare una maggiore tranquillità sociale ed una pacifica convivenza tra i cittadini. In altri termini, non sembra potersi escludere in linea di principio una previsione di un danno punitivo anche in caso di danno non patrimoniale.


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