Danno non patrimoniale e profili risarcitori in ambito contrattuale ed extracontrattuale
La “responsabilità civile”, la “responsabilità contrattuale” e la “responsabilità extracontrattuale” sono categorie dai confini incerti e confusi. La “responsabilità (di diritto) civile” costituisce la categoria generale, che comprende sia la responsabilità contrattuale, sia la responsabilità extracontrattuale.
Si suole distinguere fra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale, sia nei presupposti che nei rimedi. Una netta separazione tra le due figure di responsabilità non sembra più adeguata, ove si tenga conto degli interessi tutelati e dei danni risarcibili. Peraltro, gli aspetti comuni vanno bilanciati con le differenze di disciplina.
La responsabilità “contrattuale” e quella “extracontrattuale” non esauriscono la responsabilità di diritto civile, che comprende tutte le regole in base alle quali l’autore di un danno è obbligato a risarcirlo. L’art. 1173 individua le fonti delle obbligazioni nel contratto, nel fatto illecito e in “ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico” (come gli atti unilaterali, la gestione d’affari altrui, il pagamento dell’indebito e l’arricchimento senza causa,) e una parte generale sul diritto delle obbligazioni, sia pur con una struttura da affiancare alla c.d. “parte generale” del contratto, precede la disciplina relativa alle singole fonti di obbligazione.
Ai sensi dell’art 1174 c.c., la prestazione che forma oggetto dell’obbligazione deve essere suscettibile di valutazione economica e deve corrispondere a un interesse, anche non patrimoniale, del creditore. Dalla disposizione citata emerge che il danno del creditore può avere sia natura patrimoniale che non patrimoniale: il primo incide sul patrimonio del soggetto danneggiato, il secondo su un interesse diverso non immediatamente definibile nella sua valutazione economica. Proprio la denominazione in negativo (“danno non patrimoniale”) rende ancora più arduo pervenire a un’esatta decifrazione dell’espressione, a partire dalla tipologia di danno definita positivamente (“danno patrimoniale”).
Proprio la diversità di contratto e inadempimento (art. 1218 cod. civ.), da un lato, e illecito aquiliano e fatto dannoso (art. 2043 cod. civ.), dall’altro lato, giustifica, secondo la concezione tradizionale, la diversità di regime delle due responsabilità. Ne deriva, in particolare, che la norma dell’art. 1218 cod. civ. sulla “responsabilità del debitore” per inadempimento dell’obbligazione deve riferirsi esclusivamente alla materia dei contratti.
In entrambe le ipotesi, in ogni caso, sussiste o si instaura un rapporto obbligatorio, formato da diritti e obblighi, e, in particolare, un obbligo risarcitorio, diretto a rimediare alla lesione di una situazione giuridicamente rilevante.
La separazione fra la responsabilità contrattuale e la responsabilità extracontrattuale costituisce un dato comune a tutte le esperienze giuridiche, ma, più recentemente, la distinzione fra le due aree di responsabilità è entrata “in crisi” ed è progressivamente emersa la tendenza ad un superamento della dicotomia. Emerge il tentativo di una migliore comprensione del rapporto fra contratto e illecito e la formazione di una categoria generale e unitaria di responsabilità civile, una “nuova” responsabilità civile, anche nella prospettiva di un diritto privato comune europeo.
La rivisitazione della responsabilità civile, anche ai fini del riconoscimento di uno statuto di tutela del danno alla persona quanto più ampio possibile, si sostanzia anche nel tentativo di ricondurre entro il campo dell’inadempimento contrattuale fattispecie che morfologicamente appartengono all’area del torto aquiliano, stante l’assenza tra le parti di un vero e proprio rapporto negoziale. Si tratta del fenomeno della c.d. “contrattualizzazione della responsabilità aquiliana”, che prende impulso da una nota sentenza della Suprema Corte del 1999 sulla responsabilità del medico dipendente di una struttura ospedaliera e che ha segnato la nascita della teoria del “contatto sociale”, mutuando un’espressione che risale agli scrittori tedeschi.
Secondo l’orientamento che si è andato affermando a partire dalla richiamata sentenza, l’esistenza di un contratto è rilevante al solo fine di stabilire se il medico sia obbligato nei confronti dell’ente con il quale il paziente ha stipulato il contratto alla prestazione della sua attività sanitaria (salve le ipotesi in cui detta attività risulti obbligatoria per legge: cfr. ad es. art. 593 c.p.), non potendo il paziente pretendere la prestazione sanitaria direttamente dal medico in assenza di un’ipotesi di vincolo contrattuale. Il rilievo, tuttavia, non esclude che se il medico, pur non essendovi tenuto, interviene comunque (ad es., in quanto obbligato allo svolgimento della prestazione medica sanitaria nei confronti dell’ente ospedaliero) l’esercizio della sua attività sanitaria (e quindi il rapporto paziente-medico) non può essere differente nel contenuto da quello che abbia come fonte un comune contratto tra paziente e medico.
La causalità dell’incontro tra soggetti segna il limite ed il confine tra le due aree di responsabilità, circoscrivendo l’effetto del contatto sociale alle prestazioni esigibili esattamente dal soggetto con cui si entra in rapporto e non dal quisque de populo, sul quale gravano i più generali doveri aquiliani del neminem laedere.
In diritto privato, si individuano tendenzialmente due tipologie contrapposte di danno: il danno patrimoniale e il danno non patrimoniale. La differenza sta nel tipo di interesse leso: infatti, il danno patrimoniale va a incidere su un interesse suscettibile di valutazione economica. Al contrario, il danno non patrimoniale grava su beni il cui valore è diverso da quello meramente di mercato. In materia di danno, bisogna operare una prima distinzione tra “danno-evento” e “danno-conseguenza”, laddove il danno-evento è rappresentato dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante, mentre il danno-conseguenza si sostanzia nell’insieme dei pregiudizi che conseguono alla lesione stessa. Nell’ambito del danno-conseguenza, in cui è identificabile anche una funzione riparatoria e compensativa, possiamo distinguere le ipotesi di danno emergente e lucro cessante.
Il danno emergente rappresenta la perdita subìta dal creditore, mentre il lucro cessante è il mancato guadagno che lo stesso avrebbe realizzato se non si fosse verificato l’evento dannoso.
Il danno patrimoniale procura alla vittima un pregiudizio economico, una deminutio patrimonii, e la stessa è facilmente valutabile sul piano oggettivo. Il concetto di “patrimonio” è ampio, andando oltre l’insieme dei rapporti giuridici attivi e passivi che fanno capo ad un soggetto. Esso comprende anche le chances, e dunque la perdita di chances è valutata ai fini del computo dell’entità del danno patrimoniale. Il danno patrimoniale è valutabile economicamente tenuto conto dei due aspetti fondamentali del danno emergente e del lucro cessante.
Nel Codice civile è previsto il risarcimento sia nel caso di responsabilità contrattuale, sia nel caso di responsabilità extra contrattuale. Le ipotesi di risarcimento che derivano da responsabilità extra contrattuale sono previste dagli artt. 2043 e ss. del Codice civile, che prevedono, in particolare, all’articolo 2043 il risarcimento del danno patrimoniale scaturente da fatto illecito, e all’art. 2059, il risarcimento del danno non patrimoniale sempre scaturente da fatto illecito.
L’art. 2043 c.c. è una sorta di norma in bianco: infatti, nello stesso articolo è espressamente e chiaramente indicata l’obbligazione risarcitoria, che consegue al fatto doloso o colposo, ma non sono individuati i beni giuridici la cui lesione è vietata: l’illiceità oggettiva del fatto, che condiziona il sorgere dell’obbligazione risarcitoria, viene indicata unicamente attraverso la “ingiustizia” del danno prodotto dall’illecito.
L’articolo in esame contiene una norma giuridica secondaria, la cui applicazione presuppone una norma giuridica primaria, perché non fa che statuire le conseguenze della violazione della norma di diritto obiettivo. Il riconoscimento del diritto alla salute, come fondamentale diritto della persona umana, comporta il riconoscimento che l’art. 32 Cost. integra l’art. 2043 c.c., completandone il precetto primario. L’art. 2043 c.c., correlato ad articoli che garantiscono beni patrimoniali, non può che esser letto come tendente a disporre il solo risarcimento dei danni patrimoniali (in senso stretto).
Per questi motivi, essendo il diritto privato orientato, almeno prevalentemente, alla tutela di beni patrimoniali, lo stesso articolo è stato dal legislatore volto alla tutela di soli beni patrimoniali (c.d. “pregiudiziale patrimonialistica”). La vigente Costituzione, garantendo principalmente valori personali, svela che l’art. 2043 c.c. va posto soprattutto in correlazione agli articoli dalla Carta fondamentale. Occorre focalizzare l’attenzione alla norma primaria, la cui violazione fonda il risarcimento ex art. 2043 c.c., ed alla comprensione (non più limitata, quindi, alla garanzia di soli beni patrimoniali) del risarcimento della lesione di beni e valori personali».
I mobili e nobili confini dell’del risarcimento del danno ingiusto si sono progressivamente dilatati, con la constatazione per cui non emerge dal tenore letterale dell’art. 2043 c.c. che oggetto della tutela risarcitoria sia esclusivamente il diritto soggettivo (e tanto meno il diritto assoluto).
La scissione della formula “danno ingiusto”, per riferire l’aggettivazione alla condotta, costituisce indubbia forzatura della lettera della norma, secondo la quale l’ingiustizia è requisito del danno. Nella disposizione in esame risulta netta la centralità del danno, del quale viene previsto il risarcimento qualora sia “ingiusto”, mentre la colpevolezza della condotta (in quanto contrassegnata da dolo o colpa) attiene all’imputabilità della responsabilità. L’area della risarcibilità non è quindi definita da altre norme recanti divieti e quindi costitutive di diritti (con conseguente tipicità dell’illecito), bensì da una clausola generale, espressa dalla formula “danno ingiusto”, in virtù della quale è risarcibile il danno che presenta le caratteristiche dell’ingiustizia, e cioè il danno arrecato non iure, da ravvisarsi nel danno inferto in difetto di una causa di giustificazione (non iure), che si risolve nella lesione di un interesse rilevante per l’ordinamento.
La norma sulla responsabilità aquiliana non è norma (secondaria), volta a sanzionare una condotta vietata da altre norme (primarie), bensì norma (primaria) volta ad apprestare una riparazione del danno ingiustamente sofferto da un soggetto per effetto dell’attività altrui. In definitiva, ai fini della configurabilità della responsabilità aquiliana non assume rilievo determinante la qualificazione formale della posizione giuridica vantata dal soggetto, poiché la tutela risarcitoria è assicurata solo in relazione alla ingiustizia del danno, che costituisce fattispecie autonoma, contrassegnata dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante. Si potrà trattare tanto di un diritto soggetti assoluto o relativo, quanto di un interesse legittimo, come progressivamente emerso nel percorso che si è cristallizzato con la sentenza delle SS.UU 500/1999.
L’art. 2043 c.c. è norma primaria, fondata sulla clausola generale del “danno ingiusto”. La fattispecie di illecito è dunque atipica; – l’illiceità è fondata sull’ingiustizia del danno, non sulla colpevolezza dell’agente, che attiene all’imputazione della responsabilità; – “ingiusto” è il danno lesivo di un qualsiasi interesse protetto e non giustificato dall’ordinamento; – in caso di conflitto tra interessi protetti (del danneggiante e del danneggiato) il giudizio di ingiustizia si risolve in una comparazione.
A fronte dell’atipicità dei fatti non iure, occorre che l’interprete rintracci comunque un danno contra ius, che sarà comunque tipico, poiché la risarcibilità resterà ancorata alla presenza di una posizione giuridica soggettiva precedentemente riconosciuta dall’ordinamento.
L’art. 2043 individua situazioni di conflitto fra interessi tutelati dall’ordinamento, delegando al giudice la formazione della regola del caso concreto, a seguito dell’accertamento dello specifico atteggiarsi della situazione di conflitto e di una valutazione comparativa degli opposti interessi.
Nel diritto dei privati non c’è un sistema chiuso, costruito per fattispecie, connotato da tipicità, ma un sistema aperto, che fornisce schemi, attraverso norme dispositive, per lo più derogabili, ai soggetti che intendono realizzare i propri interessi sottesi alle situazioni giuridiche di cui essi sono titolari.
Nelle ipotesi previste dal codice delle assicurazioni, bisognerà di regola rivolgersi alle tabelle li indicate, anche se è sempre previsto che se la menomazione accertata incida in maniera rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali personali, L’ammontare del danno determinato ai sensi della tabella unica nazionale può essere aumentato dal giudice sino al trenta per cento, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato (cfr. art. 138 comma 3 codice delle assicurazioni).
La Corte di Cassazione contesta la divisione in categorie del danno non patrimoniale, ma non esclude che le stesse possano essere utilizzate per descrivere il tipo di danno non patrimoniale che un soggetto ha ricevuto.
Nell’art. 2043 c.c. il termine “danno” compare due volte: nella prima parte della disposizione, in cui il danno medesimo viene qualificato come “ingiusto”, esso vale quale legame di causalità empirica con l’illecito. Nella seconda parte della disposizione, il “danno ” viene collocato all’interno dell’obbligazione risarcitoria.
Il riferimento al fatto va analizzato sotto il prisma della condotta causativa del danno ingiusto. L’accadimento materiale è, secondo un’interpretazione, il danno-evento. L’essenza dell’evento di danno si collega alla tipizzazione d’illiceità del danno al palesarsi d’un evento storico, mentre il danno-evento si sostanzia nel danno risarcibile secondo un’interpretazione non solo letterale della disposizione. Il rapporto tra danno ingiusto e danno risarcibile è ricollegabile alla causalità giuridica piuttosto che alla causalità materiale, secondo un’inversione di tendenza rispetto al passato.
Fin qui si sono esposti i principali elementi attinenti a una corretta esegesi dell’art. 2043 cod.civ., quanto al danno patrimoniale. Il danno non patrimoniale viene considerato, in particolare, dall’art. 2059 c.c., che ne prevede la risarcibilità nei soli casi in cui questa sia espressamente disciplinata dalla legge. Sul punto, inoltre, sono sorti vari dubbi sotto il profilo della modalità di computo del risarcimento, ossia su come questo dovesse essere determinato, dato che si tratta di violazioni che non vanno ad incidere su interessi che siano suscettibili di assumere un valore di mercato. La giurisprudenza maggioritaria ammette la risarcibilità sulla base di una valutazione equitativa. L’equità viene considerata da alcuni interpreti una tecnica di “autointegrazione del regolamento negoziale” mediata dall’interprete (arg. ex art. 1374 cod.civ., in cui l’equità viene menzionata quale fonte di integrazione del contratto.)
Dato che l’art. 2059 c.c. prevede che il danno non patrimoniale venga risarcito nei soli casi previsti dalla legge, la lettura tradizionale di questo articolo ammetteva unicamente la risarcibilità del danno da reato, ex art. 185 c.p, secondo il quale ogni reato, da cui scaturisca un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui. Era una interpretazione molto restrittiva, perché escludeva il risarcimento in tutti i casi in cui il danno non patrimoniale derivasse da altra causa o fosse il risultato di un illecito civile, senza la contestuale cristallizzazione di una fattispecie incriminatrice. Inoltre, in forza della sentenza della Corte costituzionale n. 184 del 1986, il danno non patrimoniale veniva ridotto al danno morale soggettivo, cioè al turbamento transeunte derivante dal reato, mentre il danno biologico (considerato in questa fase di natura patrimoniale) veniva inquadrato nel combinato disposto degli artt. 32 Cost. e 2043 cod. civ…
La situazione è destinata a mutare nel tempo, con una serie di evoluzioni giurisprudenziali, fino a riconoscere all’art 2059 c.c. una portata decisamente più ampia e più garantista dei diritti dell’uomo di fronte a lesioni di natura diversa da quella meramente economica. Si riscontra il transito da una sostanziale , rigida tassatività delle ipotesi di risarcibilità del danno non patrimoniale a una progressiva apertura a una atipicità “moderata”, in ragione della pluralità indeterminata degli interessi costituzionali rilevanti, ove si riscontri una lesione “seria” dei medesimi., anche se sulla esatta perimetrazione della “serietà” e sull’individuazione del c.d. “danno bagatellare”, non risarcibile, non sempre è possibile pervenire a soluzioni e conclusioni univoche.
L’impossibilità di identificare il danno non patrimoniale solo col danno morale soggettivo è confermata dal fatto che tale tipologia di danno viene ritenuta risarcibile anche rispetto alle persone giuridiche, che non sono suscettibili di essere lese in modo tale da provocare loro sofferenza d’animo connessa alla violazione, che è l’ambito di operatività del danno morale soggettivo. Questo rappresenta un solido argomento, che consente di “estendere” il danno non patrimoniale di là dal patema d’animo transeunte o permanente di natura “morale”.
Partendo da queste premesse generali, si deve indagare la portata attuale del danno non patrimoniale. Una distinzione, oggi ritenuta meramente descrittiva, posta l’unitarietà e onnicomprensività della categoria di danno non patrimoniale, è quella che intende tale tipologia di danno come tripartito, differenziando tra danno morale soggettivo, danno biologico e danno esistenziale.
Ci si può domandare se l’art 2059 sia disposizione precipuamente focalizzata sul danno o sull’illecito. Le sentenze della Corte di Cassazione nn. 8827 e 8828 del 2003. sostengono che l’art. 2059 prevede una riserva di legge, sempre intesa verso la natura illecita della causazione del fatto. Occorre salvare la conformità della norma civile, facendo rientrare il dettato nei princìpi costituzionali e non vederne, così, limitata la possibilità di risarcibilità del danno.
La risarcibilità del danno di natura non patrimoniale è prevista dall’articolo 2059 c.c. che, tuttavia, ne limita il riconoscimento ai casi previsti dalla legge. Tale portata limitativa della disposizione porta a ritenere risarcibile siffatto danno solo in ipotesi di responsabilità aquiliana e a negare la stessa risarcibilità in conseguenza dell’inadempimento contrattuale. A favore di questa posizione, si menziona la stessa collocazione dell’articolo 2059 c.c. nell’ambito della normativa sulla responsabilità aquiliana e la iniziale convinzione che tale norma si riferisca solo al caso di danno derivante da reato ex art 185 c.p… Secondo tale tesi, tali elementi dimostrano la volontà del Legislatore di riconoscere il risarcimento del danno non patrimoniale solo in ambito extracontrattuale.
Diversamente, in ambito contrattuale, si considera a fini risarcitori solo la patrimonialità della lesione subita dal soggetto, poiché non si ritiene possibile evincere dall’inadempimento l’esistenza di un danno alla persona che debordi rispetto alla patrimonialità. Questa soluzione legislativa, seppur coerente con l’impianto del Codice civile, è inadeguata nel caso in cui l’inadempimento contrattuale integri di per sé un reato, perché un soggetto, pur potendo subire dei danni non economicamente valutabili, non può ottenere il risarcimento dei danni non patrimoniali.
La Cassazione in una nota sentenza del 2003 ha ritenuto possibile la cumulabilità delle azioni aquiliana e contrattuale, nel senso che, in caso di compresenza di inadempimento di un’obbligazione e di illecito extracontrattuale, la parte danneggiata possa esperire contemporaneamente sia l’azione contrattuale che quella extracontrattuale.
La cumulabilità delle azioni va coordinata con la pronuncia della Corte costituzionale del 1986 che ha costruito la figura del cosiddetto danno biologico, risarcibile qualora risulti leso il diritto alla salute dell’individuo riconosciuto dall’articolo 32 Cost., indipendentemente dall’esistenza o meno di un reato.
La Corte, con la sentenza 184-1986, distingue tra danno-conseguenza, di natura patrimoniale, e danno-evento, di possibile natura anche non patrimoniale, e risarcibile a prescindere dalle conseguenze economiche subìte dal danneggiato. Il danno biologico costituisce, in questa prospettiva, danno evento del fatto lesivo della salute, mentre il danno morale soggettivo e il danno patrimoniale si identificano come danno conseguenza, in quanto patrimonialmente rilevanti. Il danno all’integrità psicofisica è risarcibile al di fuori delle ipotesi di danno morale soggettivo, in virtù del combinato disposto dell’art. 2043 c.c. con l’art 32 Cost.
Questa ricostruzione entra in crisi quando la lettura restrittiva dell’articolo 2059 c.c. non regge in relazione alle esigenze di risarcire i danni non patrimoniali anche nei casi di lesione di diritti costituzionalmente rilevanti diversi dal diritto alla salute. La Corte di Cassazione privilegia una lettura costituzionalmente orientata dell’articolo 2059 c.c., ritenendo che il danno non patrimoniale debba essere inteso quale danno determinato dalla lesione di interessi inerenti alla persona non connotati solo da rilevanza economica. Il lemma “legge”, di cui all’art. 2059, va riferito anche e soprattutto alle disposizioni costituzionali, in cui sono menzionati gli interessi di rilievo prevalente.
Collegare la risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali ai soli danni evento dà alla responsabilità civile una caratterizzazione sanzionatoria, creando i presupposti per un indebito avvicinamento, sotto questo aspetto, alla connotazione della responsabilità penale, quando invece la funzione principale della responsabilità civile deve tendere a ristorare il danneggiato per il pregiudizio patìto, senza sfociare in una punizione sanzionatoria/ afflittiva per l’autore dell’illecito.
Il danno non patrimoniale è stato distinto in danno morale soggettivo, danno biologico in senso stretto e danno esistenziale, inteso quale lesione di altri interessi di rango costituzionale inerenti alla persona. Siffatta tripartizione è stata superata dalle sentenze gemelle di San Martino del 2008 con le quali la Suprema Corte di Cassazione ha accorpato tutte le voci di danno non patrimoniale, attribuendo alle medesime una funzione meramente descrittiva, utile peraltro ai fini della quantificazione e liquidazione del danno, anche per evitare duplicazioni risarcitorie.
L’oggetto dell’accertamento (anche giudiziale) del danno non patrimoniale deve riguardare le utilità perdute dalla vittima o l’impossibilità di esercitare le facoltà e le costituenti il contenuto dell’interesse leso. In sede giudiziale, occorre che sia allegata e provata l’esistenza della lesione dell’interesse giuridicamente protetto e che sia individuata e provata la perdita che ne è derivata. Ciò si traduce nell’esistenza di indicare la condotta che ha determinato la lesione dell’interesse giuridicamente protetto, la perdita di tutte le utilità che sono derivate dalla lesione per le quali si domanda il risarcimento, l’ammontare del risarcimento o i criteri di liquidazione invocati per la monetizzazione del pregiudizio non patrimoniale.
Il danneggiato deve poi provare l’esistenza del danno, le sue caratteristiche e la sua entità; va quindi dimostrata sia la subita lesione dell’interesse protetto, sia le disutilità che ne sono conseguite.
Tale onere probatorio può essere assolto facendo ricorso a tutti i consueti mezzi di prova previsti dall’ordinamento: documenti, prova testimoniale, confessione, giuramento, presunzioni, alle quali è riconosciuta in queste ipotesi un rilievo primario.
Nell’ambito della prova delle conseguenze dannose di tipo non patrimoniale, posto che il pregiudizio attiene ad un bene immateriale e l’essenza del danno risiede nel valore umano perduto ossia nelle conseguenze negative che la lesione dell’interesse ha prodotto sulla vita del danneggiato, la prova per presunzioni assume particolare rilievo, a fronte della possibile difficoltà oggettiva di assolvere altrimenti all’onere probatorio richiesto.
Nell’ambito della responsabilità contrattuale, l’art 1218 c.c. non è riferibile solo al danno patrimoniale, ma comprende anche il danno non patrimoniale senza che sia necessario il richiamo ai fatti illeciti. La risarcibilità del pregiudizio di natura non patrimoniale presuppone la prevedibilità del medesimo nel tempo in cui è sorta l’obbligazione, ai sensi dell’articolo 1225 c.c., (disposizione non richiamata dall’articolo 2056 c.c., non applicabile in ambito di responsabilità extracontrattuale). Il risarcimento deve presupporre, per essere meritevole di tutela, la lesione di un diritto costituzionalmente inviolabile. Al di fuori di tali limiti, il danno non patrimoniale da inadempimento si ritiene giuridicamente irrilevante.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
Listed in ROAD, con patrocinio UNESCO
Copyrights © 2015 - ISSN 2464-9775
Ufficio Redazione: redazione@salvisjuribus.it
Ufficio Risorse Umane: recruitment@salvisjuribus.it
Ufficio Commerciale: info@salvisjuribus.it
***
Metti una stella e seguici anche su Google News
The following two tabs change content below.
Salvatore Magra
Latest posts by Salvatore Magra (see all)
- Sui reati “culturalmente orientati” - 15 November 2024
- La causa del contratto e il controllo di meritevolezza - 11 November 2024
- Opzione, prelazione e contratto preliminare - 11 November 2024