Declinazioni del concetto di tutela del diritto amministrativo: brevi annotazioni sul termine di conclusione del procedimento

Declinazioni del concetto di tutela del diritto amministrativo: brevi annotazioni sul termine di conclusione del procedimento

1. La previsione del termine del procedimento

Con l’introduzione della l. 241/1990 nell’impianto normativo amministrativo si è assistito ad una generale codificazione delle tutele procedimentali a vantaggio degli “amministrati”, da tempo auspicate dalla dottrina e messe di fatto più volte in pratica, per quanto possibile, dalla giurisprudenza.

Fra le novità più significative, forse in ottica anche punitiva nei confronti dell’Amministrazione, vi è la previsione di un termine perentorio di conclusione del procedimento. Il “tempo per amministrare” non è altro che una declinazione del principio cardine della certezza del diritto. L’art. 2 [1] della L. 241/1990 postula in questo senso un dovere della P.A. di provvedere, fissando il termine massimo in 90 giorni, con la possibilità di sospensione per una sola volta e per non più di 30 giorni[2]. Da qui discende la previsione successiva di cui all’articolo 2bis, introdotto con la l. 69/2009, che sanziona il mancato rispetto dei citati termini mediante la devoluzione di una somma a titolo di c.d. “danno da mero ritardo” (che assurge, sostanzialmente, ad indennizzo) a vantaggio del privato, indipendentemente dalla pretesa risarcitoria sottesa al provvedimento richiesto. Tale assetto presume l’attribuzione di un’autonoma rilevanza rispetto alla spettanza effettiva della richiesta. In questo caso, il “danno ingiusto” è rappresentato dall’incertezza in cui ci si ritrova in assenza di una risposta dell’apparato pubblico, ben potendo essere tale risposta costituita anche da un provvedimento sfavorevole o da una domanda improcedibile, inammissibile, irricevibile ed infondata. Si potrebbe dedurre che, l’omissione della P.A., rappresenti in tal caso una violazione riconducibile al principio di legalità ex art. 1 l. 241/1990 e che il provvedimento emesso oltre i termini possa considerarsi illegittimo. Per contro, il legislatore, confortato anche dalla giurisprudenza, precisa come i termini indicati non possano dirsi perentori bensì ordinatori, con la conseguenza che ciò non si ripercuote sulla determinazione finale[3]. Da questo si desume come il concetto di inesauribilità del potere amministrativo, rimanga comunque sovraordinato continuando a perimetrare l’inserimento di norme a carattere “punitivo” le quali, probabilmente, non riescono nemmeno ad esplicare al meglio i propri effetti in ragione di una sorta di asservimento al naturale ruolo svolto dall’Amministrazione. Il danno da ritardo, invece, riconducibile al danno patito dal cittadino in considerazione del colpevole ritardo della P.A., è considerato dalla dottrina maggioritaria riconducibile alla disciplina ex art. 2043 c.c., con ovvie ripercussioni sotto il profilo probatorio che si estrinsecano nella necessaria dimostrazione del danno, del nesso di causalità fra questo e il ritardo della P.A. nonché dell’elemento soggettivo di dolo o colpa grave in capo a quest’ultima[4].

2. La qualificazione giuridica della lesione risarcibile: interesse legittimo?

Il ritardo, tuttavia, può estrinsecarsi secondo schemi diversi quali l’emanazione tardiva di un provvedimento favorevole o sfavorevole, sulla base del quale, probabilmente, si scinde la questione inerente il danno da ritardo e da mero ritardo[5]. Ciò che deriva da entrambe le situazioni assume i tratti di responsabilità nella misura in cui questo si inserisce all’interno di un procedimento. Appare chiaro che il bene tutelabile nel caso di provvedimento favorevole sia quel bene della vita a cui aspirava l’istante. Altrettanto non può dirsi, invece, nel caso in cui vi sia un provvedimento sfavorevole. Pare quindi improprio e giuridicamente scorretto parlare di responsabilità da provvedimento ma, al più, sembrerebbe potersi configurare una responsabilità da provvedimento. Di contro, l’interesse legittimo non sembra l’unica situazione giuridica risarcibile che, peraltro, si manifesta in maniera differente. È dunque una prospettiva del tutto diversa quella che si viene a configurare, basata, da un lato, sulla spettanza del bene richiesto e dall’altro sul ritardo puro e semplice. Assumendo ciò, può dirsi che la valutazione sull’istanza, se ben può essere utile nell’identificazione dell’interesse leso, non può esaurire la verifica del danno. La prima menzionata giurisprudenza minoritaria circa l’inquadramento del danno da mero ritardo in ottica contrattuale si basava sull’individuazione di una responsabilità precontrattuale in capo alla P.A., definendo illegittimo quel comportamento scorretto da parte dell’Amministrazione volto a ledere un diritto soggettivo ossia la libertà negoziale dell’amministrato, il quale avrebbe agito diversamente in presenza di una risposta da parte dell’Ente pubblico. È palese come questo schema apra prospettive di tutela anche con riguardo ad altri diritti soggettivi inseriti nella logica procedimentale. Tutto ciò in considerazione del fatto che, oltre all’interesse legittimo sotteso al procedimento, assumono autonoma valenza anche ulteriori diritti a questo connessi che risultano parimenti meritevoli di tutela, sempre sotto forma di interessi qualificati. L’ultimo aggiornamento legislativo sul punto è intervenuto con la modifica di alcuni articoli della l. 241/1990 ad opera del d.l. 76/2020, c.d. “decreto semplificazioni”. Oltre alla previsione di una maggior trasparenza rispetto alla durata effettiva dei procedimenti, con onere di pubblicazione sui siti istituzionali, e di procedure concordate per la definizione della maggior durata del procedimento tramite DPCM per quanto riguarda procedimenti particolarmente rilevanza, risulta essere di indubbia importanza la modifica dell’art. 12 per quanto riguarda le conferenze di servizi simultanee. Infatti, tutti gli atti variamente denominati a queste connessi e assunti in violazione del termine di conclusione dei relativi procedimenti non vengono dotati di efficacia originaria ma saranno considerati di per sé nulli, con la conseguenza applicativa processuale dell’art. 31 c.p.a., fatti salvi i poteri previsti all’art. 21 nonies.

 

 

 

 

 


[1] Il rispetto dei termini spiega altresì i suoi effetti sulla valutazione delle performance dei dirigenti dal momento che l’obbligo di conclusione del procedimento è stato innalzato a livello essenziale delle prestazioni da garantire ai sensi dell’art. 117 comma 2 lett. m) della Costituzione.
[2] Il termine generale di conclusione del procedimento ai sensi dell’art. 2 è di 30 giorni ma, in casi particolari questi possono raggiungere i 90 giorni. Questi ultimi, in ragione della complessità degli interessi coinvolti, possono essere ulteriormente dilatati fino ad arrivare a 180 giorni tramite decreto. [3] TAR Lazio, Sezione I, 4 giugno 2013, n. 5551. [4] Si veda la giurisprudenza maggioritaria Consiglio di Stato, Sezione IV, del 23 agosto 2016, n. 3671. Occorre menzionare, altresì, anche la tesi contraria e minoritaria che identifica il danno de quo come rispondente all’assetto normativo delineato dall’art. 1218 c.c. sulla base di un “contatto qualificato” fra P.A. e cittadino e con le relative ripercussioni del caso sulla questione probatorio. Verso tale impostazione pare tendere anche la recente giurisprudenza quale Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, n. 5/2018.

[5] In realtà, vi è un’ulteriore casistica rappresentata dall’emanazione di un provvedimento favorevole dopo l’annullamento di un precedente provvedimento illegittimo e sfavorevole che si configura come ipotesi, senza dubbio, di responsabilità da provvedimento essendo stato censurato il cattivo uso del potere causativo di danno.

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Sofia Tosi

Laureata in Giurisprudenza nel 2018 presso l’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, discute una tesi in diritto amministrativo e diritto penale dal titolo “La responsabilità degli amministratori nelle società partecipate: l’evoluzione normativa fino al d.lgs. 175/2016” con relatori il Prof. Marco Dugato ed il Prof. Nicola Mazzacuva. Nello stesso anno inizia la pratica forense presso il Foro di Rimini e quello successivo consegue l’abilitazione al patrocinio sostitutivo sviluppando le proprie attività prevalentemente in materia penale e amministrativa. Nel luglio 2021 consegue il diploma della Scuola di Specializzazione in Studi sull’Amministrazione pubblica – S.P.I.S.A. presso l’ateneo bolognese dell’Alma Mater Studiorum, con valenza di master di II livello, discutendo una tesi dal titolo " I modelli di prevenzione della corruzione: l'applicazione del whistleblowing in un "nuovo" diritto penale?" con relatore il Prof. Vittorio Manes, ottenendo la votazione di 70/70 con lode. Dal dicembre 2021 è abilitata all'esercizio della professione forense.

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