Della successione mortis causa e dell’azione di divisione ereditaria

Della successione mortis causa e dell’azione di divisione ereditaria

Sommario: Premessa – 1. Brevi cenni alla successione mortis causa – 2. La natura dell’accordo di divisione ereditaria: l’intervento della Cass. civ. n. 8240/2019

Premessa

L’intento del presente elaborato è di offrire alcune nozioni generali in materia di successione mortis causa, con specifico riferimento alla successione a titolo universale e particolare nonché con riferimento alla successione testamentaria e quella legittima.

Nel prosieguo della trattazione verrà dato rilievo all’azione di divisione ereditaria, invocabile nel caso in cui vi siano più eredi tutti chiamati a succedere sullo stesso bene posto in “comunione” ereditaria. Si esaminerà il rimedio della rescissione in caso di lesione della quota ereditaria oltre un quarto, ai sensi dell’art. 763 c.c. ed il relativo principio di diritto fissato da una recente pronuncia giurisprudenziale.

1. Brevi cenni alla successione mortis causa

La successione mortis causa rinviene la sua fondamentale ratio nell’evitare che i rapporti del de cuius si estinguano con l’evento della sua morte e comporta il trasferimento di tutti i suoi rapporti patrimoniali – siano essi attivi o passivi – in capo ad altro o altri soggetti (erede/i), che potranno pertanto succedergli o a titolo particolare o a titolo universale.

La successione a titolo universale indica il passaggio di tutti i rapporti patrimoniali attivi e passivi dal de cuius all’erede. Tale trasferimento determina confusione tra patrimoni (del testatore e dell’erede) e pertanto l’erede sarà chiamato a rispondere dei debiti del defunto anche con i propri beni (salvo il caso in cui l’erede accetti l’eredità con beneficio di inventario).

La successione a titolo particolare, invece, indica il subentro dell’erede in alcuni soltanto dei rapporti patrimoniali del de cuius. Non si avrà in questo modo confusione tra patrimoni e il legatario non sarà perciò chiamato a pagare i debiti del de cuius, a meno che questi non pone a carico del legatario un onere di provvedere in tal senso, ma pur sempre nel limite del valore del legato.

Il nostro ordinamento riconosce due forme di successione mortis causa, quella testamentaria e quella legittima.

La successione c.d. testamentaria è quella regolata dal de cuius prima della sua morte. Egli infatti, mediante dichiarazione di ultima volontà (c.d. testamento), definisce a chi andrà devoluto il suo patrimonio.

La successione c.d. legittima, a differenza della prima, è stabilità dalla legge. Essa interviene allorché il de cuius non abbia lasciato alcun testamento o se questo esiste, risulti privo di disposizioni patrimoniali oppure nullo, annullato, revocato o dispone solo su alcuni dei beni del de cuius; in tale ultimo caso vi sarà coesistenza tra successione testamentaria e legittima. In quanto regolata dalla legge, è questa ad individuare la categoria dei successori legittimi (o ab intestato). L’art. 565 c.c. prevede che essi siano il coniuge, o la parte dell’unione civile, i discendenti, gli ascendenti, i collaterali e gli altri parenti fino al sesto grado. In mancanza di tali soggetti, l’ipotesi residuale è il trasferimento del patrimonio del de cuius in favore dello Stato.

Tuttavia, quandanche il de cuius abbia lasciato testamento, vi sono alcune categorie di successibili ai quali la legge riconosce il diritto ad una parte del patrimonio. La c.d. successione dei legittimari può dunque ritenersi una modalità della successione legittima. I legittimari, o anche detti riservatari o successori necessari sono individuati all’art. 536 c.c.: essi sono il coniuge superstite, i figli e loro discendenti e gli ascendenti.

In presenza dei legittimari il patrimonio ereditario viene distinto in due parti: la c.d. quota disponibile, ossia quella parte del patrimonio per la quale il testatore può disporre a suo libero piacimento e la c.d. quota legittima (o riserva), della quale il testatore non può disporre perché riservata ai legittimari.

Il diritto del legittimario è un diritto assoluto sui beni ereditari e pertanto ha diritto di conseguire in natura tutti i beni che formano la quota legittima.

2. La natura dell’accordo di divisione ereditaria: l’intervento della Cass. civ. n. 8240/2019

Tralasciando la trattazione delle singole fasi di cui si compone la successione mortis causa, ciò che preme analizzare in questa sede è il diritto di domandare la divisone, ai sensi dell’art. 713 c.c. La disposizione appena richiamata prevede al primo comma che “i coeredi possono sempre domandare la divisione”.

Il diritto alla divisione ereditaria è dunque un diritto imprescrittibile e può essere invocato dai coeredi in “comunione” ereditaria, ossia da tutti gli eredi che insieme sono stati chiamati a succedere sul patrimonio del de cuius. Il meccanismo della divisione ereditaria consente a ciascun erede di sostituire alla quota di propria spettanza un determinato bene avente lo stesso valore della quota o di assegnare una somma in denaro conseguente alla vendita del bene oggetto della comunione ereditaria.

La divisione ereditaria può essere stabilita direttamente dal testatore, in via giudiziale o mediante contratto, e quindi tramite la volontà delle parti. Quest’ultima forma trova fondamento nel principio di autonomia contrattuale ex art 1322 c.c.

L’accordo anzidetto, tuttavia, può essere oggetto di annullamento nei casi in cui lo stesso sia raggiunto con violenza o dolo, ai sensi dell’art. 761 c.c. Il secondo comma, inoltre, prevede un termine prescrizionale di cinque anni ai fini dell’azione, che decorre dal giorno in cui è cessata la violenza o di scoperta del dolo.

Il rimedio esperibile, invece, in ipotesi di lesione della quota oltre il quarto è la rescissione, ai sensi dell’art. 763 cc, ove la prescrizione è fissata in due anni.

Si segnala, in questa sede, un importante intervento della Suprema Corte, la quale ha stabilito che l’azione di rescissione per l’ipotesi di lesione della quota ereditaria non sempre dipende dalla natura dell’accordo di divisione.

La giurisprudenza a Sezioni Unite, infatti, ha previsto che al fine di ammettere l’impugnazione dell’accordo di divisione mediante azione ex 763 c.c., è necessario guardare al criterio di interpretazione del contratto di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., assieme al criterio della effettiva volontà data alle parti nell’accordo.

Pertanto, quando attraverso tali criteri di interpretazione è possibile scorgere la volontà transattiva delle parti, di porre fine ad una lite concernente la divisione, allora il rimedio di cui al 763 c.c. non sarà esperibile, diversamente allorché tali elementi non fanno scaturire la natura transattiva dell’accordo avente intento pacificatore, allora si avrà solo un preliminare di divisione o anche detto accordo paradivisorio e il regime della rescissione non può essere escluso (cfr. Cass. n. 8240/2019).

In conclusione dunque, la Suprema Corte accoglie il rimedio della rescissione dall’accordo che si sia limitato alla cd. divisione transattiva, ove l’unico intento delle parti è quello di sciogliere la comunione e spartire proporzionalmente le quote; diversamente non trova accoglimento il rimedio della rescissione per la c.d. transazione divisionale, ove il vero intento delle parti è di comporre una lite riguardante la partecipazione al riparto delle quote e non già la determinazione del valore delle stesse.


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