Denunciare i maltrattamenti, anche ai tempi del coronavirus

Denunciare i maltrattamenti, anche ai tempi del coronavirus

1. Premessa e dati (1)

Ha creato allarme negli ultimi giorni la sospensione di numerosi servizi a causa della situazione sanitaria; tuttavia, come dichiarato su diverse testate giornalistiche, le case rifugio restano aperte all’accoglienza delle vittime di maltrattamenti, oltre a restare attivi i servizi telefonici e online per i centri anti violenza (cav) (2). 

Ciò che spinge, dunque, a rilanciare ed approfondire il tema non è tanto la situazione attuale in sé, che non impedisce alle vittime di rivolgersi alle strutture di accoglienza, quanto piuttosto la circostanza per cui se già “normalmente” molte donne sono restìe a denunciare atti di violenza nei loro confronti all’interno delle mura domestiche, le attuali restrizioni rischiano di scoraggiare ancora di più le donne dal comunicare all’esterno quanto loro accade.   

Per avere un’idea di quanto sia imponente il fenomeno, nel 2018 in Italia le denunce per maltrattamenti nei confronti di familiari o conviventi sono state 17453; tuttavia, l’aspetto più preoccupante riguarda il livello di consapevolezza delle vittime.  

Con riferimento al 2014, nonostante il 57,7% delle vittime di violenza da parte del partner ne abbia parlato con qualcuno, il 45,9% considera quanto subito qualcosa di sbagliato ma non un reato ed il 33,3% lo ritiene solo come “qualcosa che è accaduto”. Solo il 18,9% delle vittime considera quanto ha subito un reato.  

Solo il 6,3% ha sporto denuncia, ma di queste il 60,4% non si ritiene per niente soddisfatto dell’operato delle Forze dell’Ordine.  

Solo il 3,5% si rivolge ad un centro antiviolenza.  

Sempre con riferimento al 2014, tra le donne che hanno dai 16 ai 70 anni d’età che hanno subito violenza dal partner ma non hanno denunciato l’ultimo episodio, le motivazioni più frequenti sono l’aver gestito la situazione “da sola” (39,6%), il non ritenere grave quanto subito (31,6%), la paura di subire aggressioni o comunque delle conseguenze (10,1%), “non volevo che venisse arrestato/lo amavo” (10,3%). 

Queste cifre sembrano rappresentare che anche laddove la vittima trovi la forza di esporre quanto sofferto, rendendolo noto al di fuori del proprio nucleo familiare, non si affida comunque alle istituzioni statali.  

Infine si tratta di un fenomeno che presenta fattori di rischio coinvolgenti anche le generazioni future.  

Con riferimento al 2014, tra le donne tra i 16 e i 70 anni che hanno subito violenza fisica o sessuale, il 64,2% ha subito violenza fisica dal padre prima dei 16 anni, il 64,8% dalla madre, il 54,9% ha assistito alla violenza del padre sulla madre.  

E’ quindi di fondamentale importanza insistere quanto più possibile sulla conoscenza da parte delle cittadine dei propri diritti. 

Il presente breve scritto, che non ha la pretesa di essere esaustivo, vuole tuttavia contribuire nel proprio piccolo a diffondere la consapevolezza che si ha il diritto di esigere tutela da parte dello Stato perchè i maltrattamenti ledono dei diritti fondamentali, costituzionalmente riconosciuti a qualunque persona. Tenere i fatti nella segretezza della propria vita privata non ferma questi comportamenti. Ci sono strutture che ospitano le vittime di questi reati, che non sono costrette a vivere con il proprio aguzzino, anche ai tempi del coronavirus. 

2. In diritto

Come ormai noto, a causa del diffondersi del virus COVID-19 sono entrate in vigore misure fortemente restrittive della libertà di movimento a tutela della salute pubblica.  

Il DPCM n. 76 del 22.03.2020 dispone all’art. 1 lett. b): “E’ fatto divieto a tutte le persone fisiche di trasferirsi o spostarsi, con mezzi di trasporto pubblici o privati, in un comune diverso rispetto a quello in cui attualmente si trovano, salvo che per comprovate esigenze lavorative, di assoluta urgenza ovvero per motivi di salute”; disposizione ribadita alla lettera nell’ordinanza del Ministero della Salute n. 75 dispone all’art. 1. 

Il DL n. 6 del 23.02.2020 aggiunge, all’art. 3 comma 4: “Salvo che il fatto non costituisca più grave reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è punito ai sensi dell’art. 650 del codice penale”.  

L’art. 650 c.p. punisce “Chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall’Autorità per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o d’ordine pubblico o d’igiene” (trattasi di una contravvenzione). 

Tuttavia, lo stato di necessità permette alle donne che subiscono violenza domestica di uscire dalla propria abitazione per recarsi presso una struttura ospedaliera o presso un centro antiviolenza: l’art. 54 del codice penale difatti prevede che “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”. 

Ciò che rende forse più difficile, però, violare legittimamente la legge per la propria incolumità è la difficile prova di quelle forme di maltrattamento non direttamente dimostrabili attraverso prove evidenti quali possono essere dei segni fisici.  

La Cassazione Penale infatti, con sentenza n. 12619 del 24.01.2019 della Prima Sezione, stabilisce che “In tema di stato di necessità (art. 54 c.p.), l’imputato ha un onere di allegazione avente per oggetto tutti gli estremi della causa di esenzione, sì che egli deve allegare di avere agito per insuperabile stato di costrizione, avendo subito la minaccia di un male imminente non altrimenti evitabile, e di non avere potuto sottrarsi, nemmeno putativamente, al pericolo minacciato, con la conseguenza che il difetto di tale allegazione esclude l’operatività dell’esimente”.  

Il suddetto onere di allegazione si ritrova già nella pronuncia n. 32937 del 19.05.2014, Quinta Sezione, come quello “in virtù del quale l’imputato è tenuto a fornire all’ufficio le indicazioni e gli elementi necessari all’accertamento di fatti e circostanze ignoti che siano idonei, ove riscontrati, a volgere il giudizio in suo favore”. 

Da questo onere, che risponde alla giusta esigenza di provare ciò che è posto a fondamento delle proprie pretese, si desume facilmente l’importanza per le vittime di maltrattamenti di avere strumenti per poter dimostrare quanto subiscono. 

Risulta essenziale recarsi presso una struttura ospedaliera dove, oltre a ricevere le cure necessarie, il medico è tenuto a contattare l’Autorità laddove ravvisi gli estremi di un maltrattamento. L’art. 365 del codice penale prevede infatti la fattispecie dell’omissione di referto, che punisce “Chiunque, avendo nell’esercizio di una professione sanitaria prestato la propria assistenza od opera in casi che possono presentare i caratteri di un delitto pel quale si debba procedere d’ufficio, omette o ritarda di riferirne all’Autorità” (giudiziaria o altra a cui vi sia obbligo di riferire). 

A titolo di esempio, i maltrattamenti contro familiari e conviventi sono procedibili d’ufficio e rientrano dunque tra quelli per cui il sanitario ha obbligo di riferire. Si tratta dei casi in cui taluno “maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte” (al di fuori dei casi di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina), nonché delle ipotesi aggravate del maltrattamento da cui derivino lesioni personali gravi o gravissime (art. 572 c.p.).  

E il maltrattamento ricomprende anche casi di assenza di lesioni (Cassazione Penale Sesta Sezione, sentenza n. 43764 del 17.09.2014), trattandosi di delitto che, stando alla sentenza n. 761 del 20.11.2018 (Cassazione Penale Sesta Sezione) “resta integrato da una serie di atti lesivi dell’integrità fisica o della libertà o del decoro del soggetto passivo nei confronti del quale viene così posta in essere una condotta di sopraffazione sistematica tale da rendere particolarmente dolorosa la stessa convivenza, dovendo poi l’elemento psichico concretizzarsi nella volontà dell’agente di avvilire e sopraffare la vittima unificando i singoli episodi di aggressione alla sfera morale e materiale di quest’ultima, non rilevando, nella natura abituale del reato, che durante il lasso di tempo considerato siano riscontrabili nella condotta dell’agente periodi di normalità e di accordo con il soggetto passivo”. 

Inoltre, ricomprende anche la c.d. “violenza assistita”, ovvero “se la conflittualità tra i genitori coinvolge indirettamente anche i figli quali involontari spettatori delle feroci liti e dei brutali scontri che si svolgono all’interno delle mura domestiche” (Cassazione Penale Sezione Sesta, sentenza n. 18833 del 23.02.2018).   

La disciplina sul referto prosegue nel codice di procedura penale, all’art. 334: “1.Chi ha l’obbligo del referto deve farlo pervenire entro quarantotto ore o, se vi è pericolo nel ritardo, immediatamente al pubblico ministero o a qualsiasi ufficiale di polizia giudiziaria del luogo in cui ha prestato la propria opera o assistenza ovvero, in loro mancanza, all’ufficiale di polizia giudiziaria più vicino. 2.Il referto indica la persona alla quale è stata prestata assistenza e, se è possibile, le sue generalità, il luogo dove si trova attualmente e quanto altro valga a identificarla nonché il luogo, il tempo e le altre circostanze dell’intervento; dà inoltre le notizie che servono a stabilire le circostanze del fatto, i mezzi con i quali è stato commesso e gli effetti che ha causato o può causare. 3.Se più persone hanno prestato la loro assistenza nella medesima occasione, sono tutte obbligate al referto, con facoltà di redigere e sottoscrivere un unico atto”. 

Il referto è un efficace mezzo di comunicazione della notizia di reato non solo per i casi di violenza fisica, ma anche per quelli di violenza psicologica: l’art. 13 del Codice Deontologico degli Psicologi prevede che “Nel caso di obbligo di referto o di obbligo di denuncia, lo psicologo limita allo stretto necessario il riferimento di quanto appreso in ragione del proprio rapporto professionale, ai fini della tutela psicologica del soggetto. Negli altri casi, valuta con attenzione la necessità di derogare totalmente o parzialmente alla propria doverosa riservatezza, qualora si prospettino gravi pericoli per la vita o per la salute psicofisica del soggetto e/o di terzi”.  

La sentenza della Corte di Cassazione n. 44620 del 3.10.2019, Sesta Sezione, lo ha confermato: “In tema di omissione di referto, riveste la qualifica di esercente una professione sanitaria lo psicologo o psicoterapeuta ancorché operi nello svolgimento di un rapporto professionale di natura privatistica, con la conseguenza che, avuta notizia, nell’ambito dell’assistenza prestata, di atti che possono presentare le caratteristiche di un delitto, egli è tenuto a riferirne all’autorità giudiziaria, salvo il caso in cui la segnalazione esponga la persona assistita a procedimento penale”.  

La motivazione della pronuncia precisa che il contenuto del referto “non si esaurisce nella enunciazione di elementi obiettivi di natura diagnostica, individuabili in segni fisici … Si tratta di elementi dal contenuto intuibilmente più articolato e complesso, rispetto alla descrizione di una lesione ma non per questo meno obiettivabili alla luce delle specifiche competenze professionali dell’agente obbligato alla redazione e alla presentazione del referto … Orbene, la formalizzazione nel referto di elementi conoscitivi degli abusi sessuali, accompagnata dalla indicazione di segni clinici, se presenti, anche non costituiti da lesioni, costituisce preciso obbligo dello psicologo o psicoterapeuta in quanto atto volto a promuovere l’intervento dell’autorità giudiziaria”. Solo al di fuori di tale obbligo il sopra riportato art. 13 del Codice Deontologico permette di bilanciare la funzione di cura del terapeuta e gli obblighi informativi nei confronti dei terzi.  

Dunque, laddove si intraprenda un percorso presso un centro anti violenza o una casa rifugio e si riceva assistenza psicologica, è possibile avere uno strumento che dia fondamento alla notizia di reato; prima, quindi, che si arrivi alla violenza fisica o a ben più tragici esiti. 

 

 


(1) Dati estratti dal sito dell’Istat.
(2) V. articolo pubblicato su “Lettera43” in data 14.03.2020 intitolato “Per le vittime di violenza domestica il decreto #iorestoacasa è un problema” e quello pubblicato su “Il Giornale” in data 23.03.2020 intitolato “La violenza domestica ai tempi del coronavirus: come chiedere aiuto”.

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Lara Gallarati

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