Detenzione inumana in cella: onere probatorio
Sommario: 1. La vicenda – 2. Sul concetto di detenzione inumana – 3. Precedenti giurisprudenziali – 4. La decisione
Cosa si intende per detenzione inumana e qual è il regime probatorio per ottenere il risarcimento dei danni nel caso in cui essa si verifichi? A queste domande ha cercato di rispondere la Cassazione con l’ordinanza n° 31556 del 6 dicembre 2018.
1. La vicenda
N.D.A. propone ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost., avverso il decreto non impugnabile emesso dal Tribunale di Milano, sezione X civile, ex art. 35 ter, comma 3, della legge penitenziaria n. 354/1975, depositato in data 2/5/2016, nel procedimento svoltosi nei confronti del Ministero della Giustizia per ottenere l’indennizzo conseguente alla violazione del disposto dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Per ogni periodo di detenzione, il ricorrente lamenta la sostanziale restrizione in uno spazio di superficie di cella carceraria inferiore a 3 mq pro capite, tenuto conto della compresenza di altri detenuti, di un eccessivo ingombro di mobilio, della mancanza di un adeguato sistema di termoregolazione, della scarsa illuminazione naturale e artificiale, della scarsa areazione, delle docce a volte non funzionanti e della mancanza di acqua calda.
Nell’ordinanza impugnata (avente valore di decreto motivato emesso ex art. 35 ter, comma 3, della legge penitenziaria n. 354/1975 ), emessa al termine di un giudizio ove il Ministero si era costituito allegando documentazione a sua discolpa, il Tribunale aveva rigettato la domanda del ricorrente volta a ottenere l’indennizzo. Il Giudice, sulla base delle allegazioni del N.D.A., comprensive di alcune relazioni dell’Associazione Antigone, ritenute insufficienti, e della documentazione a proprio discarico resa dalle case circondariali di trattenimento, ha osservato che il ricorrente non aveva assolto al proprio onere probatorio in relazione alla disumanità del trattamento carcerario ricevuto.
Quest’ultimo,denuncia la violazione o falsa applicazione degli artt. 2697 cod. civ. e 115, commi 1 e 2 cod. proc. civ., con riferimento ai principi dell’allegazione della prova ad opera di chi fa valere una pretesa, della valutazione della stessa da parte del giudice e del principio di non contestazione e dei fatti notori portati a conoscenza del giudice nel corso del procedimento tramite la produzione dei rapporti fatti dalla Associazione Antigone in merito alle strutture carcerarie in cui si è svolto il trattamento, dal 2010 al 2014.
2. Sul concetto di detenzione inumana
La detenzione inumana è caratterizzata dalla lesione della dignità della persona detenuta per effetto di un trattamento degradante. Gli atti o le modalità organizzative che costituiscono tortura o trattamento inumano possono consistere tanto in trattamenti sanitari ed attività di polizia che incidono sulla libertà degli individui, quanto in esecuzioni penali che potrebbero comportare sofferenze psichiche o morali.
Ai fini dell’accertamento della lesione della dignità umana, alla quale il nostro ordinamento accordo un equo indennizzo, non rileva in alcun modo l’elemento soggettivo, ovvero la volontà del governo nazionale di porre in essere trattamenti palesemente contrari alla dignità del detenuto.
A livello comunitario, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo obbliga gli Stati a garantire ai detenuti condizioni compatibili con il rispetto per la dignità umana e che le misure di reclusione applicate non debbano determinare sofferenze di intensità superiore al livello comunque inerente alla detenzione. L’art. 3 della Convenzione sancisce uno dei valori fondamentali delle società democratiche: il divieto assoluto di torture e pene inumane o degradanti, indipendentemente dalla natura dei reati commessi dalla persona detenuta.
L’insieme delle condizioni che rende inumano il trattamento è dato dalla durata di quest’ultimo, dai suoi effetti fisici e psichici in relazione al sesso, all’età e alle condizioni di salute dell’interessato.
Le condizioni detentive non devono quindi sottoporre il detenuto ad un disagio e a restrizioni di intensità superiore all’inevitabile livello di sofferenza relativa alla detenzione stessa.
3. Precedenti giurisprudenziali
L’art. 35 ter, comma 3, della legge penitenziaria n. 354/1975, novellata nel 2014, prevede un rimedio giudiziale di natura sia preventiva che riparatoria, da svolgersi con rito camerale, per coloro che ritengono di subire o di avere subìto un pregiudizio durante l’applicazione della misura di restrizione della libertà personale in carcere. Il procedimento de quo è stato inserito nel corpo della legge penitenziaria che regola tale settore all’indomani della sentenza pilota Torreggiani ed altri c. Italia emessa dalla Corte EDU 18 gennaio 2013, con la quale si è stabilito il principio secondo cui il collocamento di un detenuto in uno “spazio” pro capite inferiore ai tre metri quadrati di superficie calpestabile, da considerare come spazio minimo vitale, integra l’ipotesi di trattamento inumano e degradante: tale principio, pertanto, costituisce oggi il fondamentale parametro paracostituzionale, di matrice convenzionale, con cui accertare il rispetto degli artt. 10, 2, 13 e 27, comma 3, della Costituzione, degli artt. 1, comma 1, 6, commi 1 e 4, della I. 26 luglio 1975 n. 354 sull’ordinamento penitenziario.
In successive pronunce, la Corte di Strasburgo ha indicato il metodo con cui valutare la sussistenza della violazione dell’art. 3 della Convenzione da parte dello Stato. Emblematico è il caso Muri e c. Croatia del 20 Ottobre 2016, in cui la Corte, dopo avere confermato che lo standard predominante di valutazione della sussistenza di condizioni di vivibilità è l’attribuzione di una superficie calpestabile di tre metri quadrati per i detenuti trattenuti in celle occupate da più detenuti, ha chiarito anche che tale solo fattore, per quanto idoneo a fondare una grave presunzione di violazione, non valga come regola generale di giudizio: in tale caso l’amministrazione penitenziaria può provare che vi sono stati ulteriori e concomitanti fattori in grado di compensare la mancata attribuzione di spazio vitale all’interno delle stanze occupate.
Pertanto, la presunzione grave è superata se le seguenti condizioni siano cumulativamente provate: 1) la riduzione dello “spazio” vitale per brevi, occasionali e minori circostanze temporali 2) tale riduzione deve essere accompagnata da un sufficiente grado di libertà di movimento o da adeguate attività fuori dalla cella; 3) il detenuto deve essere collocato in una struttura che, in linea generale, possa definirsi appropriata, e non devono sussistere altre situazioni di aggravio delle condizioni di detenzione.
Nei casi, poi, in cui lo spazio di vivibilità riguardi celle in cui risulti l’assegnazione di 3-4 mq di superficie pro capite, il fattore “spazio” assume ancora rilievo nella considerazione della sussistenza di adeguate condizioni di detenzione. In tale caso la violazione sussiste se il fattore “spazio” si associa ad altri aspetti di trattamento inappropriato avuto riguardo all’accesso ad attività fuori dalla cella, alla presenza di aria o luce naturale, alla aerazione dei locali, all’ adeguatezza della temperatura interna, alla possibilità di utilizzo riservato di sanitari, in conformità con le basilari esigenze igienico-sanitarie.
La Corte EDU, infine, sottolinea il ruolo preventivo che le strutture di detenzione hanno nel monitorare le condizioni in cui avviene il trattamento dei detenuti e nell’indicare gli standard di applicazione della misura detentiva, che costituiscono ulteriori parametri per valutare la complessiva condotta tenuta dall’amministrazione statuale in relazione agli obblighi di cui all’art. 3 CEDU.
I parametri indicati dalla Corte EDU forniscono un utile metodo di analisi per valutare il rispetto delle norme interne, che generalmente rinviano a una valutazione di “adeguatezza” del trattamento offerto e delle strutture in cui esso si svolge. La norma di cui all’art. 35 ter, comma 3 della legge penitenziaria n. 354/1975, inserita nella legge sull’ordinamento penitenziario immediatamente dopo la condanna dello Stato italiano intervenuta a seguito della decisione pilota “Torreggiani“, si pone a chiusura della “rete di protezione” cui hanno diritto i soggetti detenuti, e in definitiva sancisce un agile strumento processuale di accesso alla giustizia, prevedendo che i soggetti che si sentono lesi nei loro diritti possano proporre azione, personalmente ovvero tramite difensore munito di procura speciale, di fronte al tribunale del capoluogo del distretto nel cui territorio hanno la residenza.
La garanzia di uno strumento processuale duttile e facilmente accessibile per il detenuto, in grado di prevenire e, al tempo stesso, di risarcire le violazioni in termini di compensazione di pena ovvero, ove già espiata quest’ultima, di liquidazione del danno in termini monetari, costituisce certamente la chiave di volta del sistema per consentire il graduale passaggio da una tutela “riparatoria” di tipo di risarcitorio, a una tutela “preventiva”, idonea a spingere le amministrazioni penitenziarie e lo Stato che vigila su di esse ad effettuare un costante monitoraggio sul trattamento elargito ai detenuti, per renderlo effettivamente ossequioso dei diritti fondamentali.
Infine, in materia, relativamente alla prescrizione dell’indennizzo sancito ex art. 35 ter, comma 3, della Legge 354/1975, sono da ultime intervenute le Sezioni Unite con sentenza 11018/2018, con cui hanno ribadito che il termine di prescrizione decorre dal compimento di ciascun giorno di detenzione nelle suindicate condizioni degradanti.
4. La decisione
La Corte di Cassazione, con ordinanza n°31556 del 06 dicembre 2018, in accoglimento del ricorso presentato da N.D.A., oltre a ribadire i principi sopra menzionati, afferma che il fattore “spazio” è un elemento necessario per misurare, con diverso peso e in misura inversamente proporzionale, gli altri fattori inerenti al complessivo trattamento. Oltre a tale test, indicato dalla Corte EDU, si aggiunge quello, indicato dall’art. 27 Costituzione, sulla finalità rieducativa della pena: concetto che, ovviamente, riconduce alla questione della sufficiente e idonea offerta di attività “riabilitative” interne, confacenti alla personalità del detenuto, in rapporto al tempo di permanenza nella struttura.
Per quanto riguarda l’onere probatorio invece, è comunque certo che esso, mediante il meccanismo di vicinanza della prova, grava sempre sulla struttura chiamata a rispondere della violazione di obblighi di protezione e di norme di comportamento. La deduzione della violazione di detti obblighi da parte dello Stato, nel nostro ordinamento, determina una responsabilità di tipo contrattuale, derivante dallo stretto rapporto che si instaura tra il soggetto attivo – lo Stato – che dispone la custodia detentiva in carcere e il soggetto passivo – il detenuto – che la subisce, titolare del diritto incomprimibile di non ricevere un trattamento inumano e degradante. Sicché la presunzione di responsabilità che deriva a seconda del grado di violazione riscontrata reagisce all’interno di tale tipo di responsabilità.
In relazione alla natura degli obblighi di protezione gravanti sullo Stato, il riferimento specifico alla natura contrattuale – e non extracontrattuale – di tale obbligazione si riscontra nell’ art. 1173 cod. civ. che la fa derivare dalla violazione di obblighi di legge, costituente “fatto o atto idoneo a produrre obbligazioni”.
In tema di violazione di specifici obblighi di rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti determina una presunzione di grave responsabilità dello Stato in ordine alle modalità di esecuzione del trattamento.
In tale e siffatta fattispecie, va correttamente applicato il principio di vicinanza della prova, sopra richiamato, che aggrava la posizione della parte pubblica chiamata a rispondere del proprio inadempimento. È indubbio infine che se il ricorrente non è stato in grado di contrastare la documentazione offerta e di fornire la prova contraria con documentazione specifica rispetto al trattamento ricevuto, tale circostanza non esonera lo Stato dalla prova dell’adempimento specifico dei propri obblighi per tutto il periodo di trattamento, prova che, nel caso in esame, non è stata raggiunta.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
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Elisa Nardocci
Nata a Viterbo nel 1990, ha conseguito la laurea in Giurisprudenza nel gennaio 2017 presso l'Università di Roma "La Sapienza", discutendo una tesi in diritto processuale civile dal titolo "La conciliazione stragiudiziale delle controversie di lavoro", relatrice Prof.ssa Roberta Tiscini.
Dal febbraio 2017 svolge pratica forense presso uno studio legale che si occupa prevalentemente di diritto civile, di famiglia, del lavoro e previdenziale.