Diffamazione online: si configura anche se chi offende non fa nomi

Diffamazione online: si configura anche se chi offende non fa nomi

La sentenza della Quinta Sezione della Suprema Corte di Cassazione del 25 marzo 2022 n. 10762 affronta la questione relativa alla configurabilità del reato di diffamazione online.

Nel caso di specie, una donna aveva scritto su Facebook  offese pesanti riferendosi a una conoscente definendola in modo sprezzante “nana” e “spazzina”. Pochi dettagli ma sufficienti per consentire agli utenti che leggevano i post di capire a chi si stesse riferendo la donna.

L’art. 595, comma 1, c.p. prevede che chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a 1 anno o con la multa fino a 1032 euro. Al comma 3, invece, è previsto che se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da 6 mesi a 3 anni o della multa non inferiore a 516 euro.

Rispetto all’ingiuria, l’art. 595 c.p. persegue la condotta dell’offendere rivolta verso persone non presenti, ovvero non solo assenti fisicamente, ma anche non in grado di percepire l’offesa.

Inoltre, per integrare il reato di diffamazione è necessario l’offesa alla reputazione, per tale  intendendosi la possibilità che l’uso di parole diffamatorie possano ledere la reputazione dell’offeso e la presenza di almeno due persone in grado di percepire le parole diffamatorie, esclusi il soggetto agente e la persona offesa. La giurisprudenza ritiene, in realtà, configurato il delitto in esame anche qualora l’offesa sia comunicata ad una persona sola, affinché questa la comunichi ad altre.

Per  reputazione si intende la stima che gli altri hanno della sfera morale di una persona, nell’ambiente in cui essa vive.

La giurisprudenza di legittimità ha affermato che sussiste la diffamazione aggravata da parte di chi offende su Facebook anche senza fare nomi del destinatario dell’offesa se le parole o le espressioni   sono riconducibili ad una persona individuabile anche da una ristretta cerchia di persone. [1]

I giudici della Suprema Corte di Cassazione hanno ricordato che la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso della bacheca su Facebook integra la fattispecie di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma 3, c.p.  sotto il profilo dell’offesa arrecata con qualsiasi altro mezzo di pubblicità diverso dalla stampa. Tale condotta, infatti, è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato di persone, andando a ledere la reputazione della persona insultata attraverso gli elementi della fattispecie concreta, quali la natura e la portata dell’offesa, le circostanze narrate, i riferimenti personali e temporali.

In conclusione, occorre fare attenzione ad usare correttamente i social network. Rischia, infatti, una condanna per diffamazione aggravata chi offende su Facebook, anche se non ha fatto nomi ma le brutte parole sono riconducibili alla persona presa di mira.

 

 

 

 

 


[1] Cass. Pen., Sez. V, 25 marzo 2022, n. 10762

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