Diffamazione sui social network, l’incerta identificazione dell’autore conduce all’assoluzione

Diffamazione sui social network, l’incerta identificazione dell’autore conduce all’assoluzione

Commento alla sentenza della Corte di Appello di Lecce, sez. distaccata di Taranto, n. 218  del 26/02/2020

La Corte di Appello di Lecce, sez. distaccata di Taranto ha recentemente confermato l’orientamento già espresso dalla Cassazione in materia di diffamazione a mezzo social network, ossia che l’imputato va assolto se manca o è incerta la prova relativa alla sua identificazione.  

Fatto

Nel gennaio 2015, una utente di un noto social network, veniva a conoscenza del fatto che su un gruppo di discussione riferibile alle notizie del paese di residenza, un tale scriveva una serie di parole ritenute offensive mediante un post.

La persona offesa pertanto provvedeva a stamparle ed allegarle alla querela che depositava successivamente presso il locale Comando Carabinieri per il reato di cui all’art. 595, c. 1 e 3 c.p. che punisce: “Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a milletrentadue euro.  Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a duemilasessantacinque euro. Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro”.

L’imputato veniva sottoposto a procedimento penale innanzi al Tribunale monocratico di Taranto che, con sentenza del 4 marzo 2019, lo condannava alla pena di mesi sei di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali perché ritenuto responsabile del reato di diffamazione aggravata di cui all’art. 595, c. 1 e 3 c.p., negando la sospensione condizionale della pena.

Assunta la difesa dell’imputato, si impugnava la sentenza di condanna di Primo grado innanzi alla Corte di Appello di Lecce, sez. distaccata di Taranto, censurando tra i vari motivi la mancata e/o comunque incerta identificazione del prevenuto tramite indirizzo IP, stante l’assenza di ulteriori elementi a suo carico e della contraddittorietà delle dichiarazioni rese in sede di esame dalla persona offesa (costituitasi parte civile), che mai aveva riconosciuto con certezza l’autore delle parole offensive pubblicate.

Diritto

Il reato di diffamazione di cui all’art. 595, rientra tra i delitti contro l’onore contenuti nel Libro II, Titolo XII, Capo II del codice penale. L’onore consiste nell’insieme delle doti morali e fisiche che contraddistinguono un soggetto nella società in cui vive.

Gli elementi costitutivi del reato di diffamazione sono tre: l’assenza della persona offesa; l’offesa alla reputazione altrui; la comunicazione con una pluralità di persone.

Il concetto di reputazione, che può essere intesa in senso positivo o negativo, attiene alla stima di cui gode un soggetto all’interno di una società, ossia l’opinione che i membri di quel gruppo sociale hanno del suo onore e decoro.

La buona reputazione è la stima che il soggetto ha acquistato nella società per meriti personali e il rispetto sociale minimo, di cui ogni individuo è titolare, a prescindere dalla fama personale, nell’ambiente in cui vive (Cass. Pen., sez. V, 28/02/1995, n. 3247).

Invece, la divulgazione di comportamenti che, alla luce dei canoni etici condivisi dalla generalità dei consociati, siano suscettibili di incontrare la riprovazione della communis opinio  integra, infatti, la lesione della reputazione (Cass. Pen., sez. V, 02/03/2017, n. 31434).

Terzo ed ultimo requisito del reato di diffamazione è la comunicazione con una pluralità di persone.

Irrilevanti infine, la modalità e il mezzo con cui si diffonde l’offesa.

La diffamazione è un reato comune, in cui il soggetto attivo e passivo (destinatario dell’offesa) possono essere “chiunque”.

Quanto all’elemento soggettivo del reato, si tratta di delitto doloso perché la legge non prevede l’applicabilità dell’ipotesi colposa.

Di particolare rilevanza sono le circostanze aggravanti del reato, tra cui quella contestata nel caso in oggetto, ossia la diffamazione a mezzo stampa o con altri mezzi di pubblicità (art. 595, c. 3, c.p.).

Da tempo la giurisprudenza afferma che il reato di diffamazione può essere commesso a mezzo Internet e quando ciò si verifica si è in presenza di un’ipotesi aggravata della fattispecie base (Cass. Pen., sez. V, 17/11/2000 n. 4741; Cass. Pen., sez. V, 16/10/2012, n. 44980).

Ad ogni buon conto, anche in relazione a commenti, osservazioni e scritti sui social network è prevista la punibilità per la fattispecie aggravata di cui all’art. 595, c. 3, c.p. (Cass. Pen., sez. I, 02/01/2017, n. 50; Cass. Pen., sez. I, 08/06/2015, n. 24431).

La decisione della Corte d’Appello

Con atto di appello, la difesa evidenziava la totale assenza di identificazione dell’imputato per mancata individuazione dell’indirizzo IP da cui provenivano le parole offensive, la contraddittorietà delle dichiarazioni rese dalla parte civile in sede di esame, nonché il fenomeno purtroppo diffuso a livello mondiale dei falsi profili sui social, che celano persone del tutto diverse da quelle apparenti nelle foto caricate in upload.

La tesi difensiva, richiamava l’orientamento della Cassazione che con sentenza n. 5352 del 22.11.2017, affermava il seguente principio di diritto: “Nell’ambito della diffamazione via web, e in particolare tramite social network, qualora non sia stato individuato l’indirizzo IP di provenienza, la penale responsabilità dell’imputato deve essere soggetta a una più stringente allegazione probatoria – e ad un più approfondito percorso motivazionale – relativamente agli altri elementi di prova oggetto dell’istruzione dibattimentale, aventi ad oggetto l’attribuzione all’imputato del contenuto diffamatorio”.

Di conseguenza, vista anche l’assenza di ulteriori elementi oggettivi a carico dell’appellante, la Corte di Appello di Taranto, in riforma della sentenza di Primo grado stabiliva:  “….assolve l’appellante….per non aver commesso il fatto” e stabilisce: “…appare evidente che, non essendovi una previa identificazione degli iscritti a tale social network, chiunque potrebbe celarsi dietro un nome o effige altrui. In tale situazione, allora, non può che emettersi, nel ragionevole dubbio della colpevolezza dell’appellante, la sentenza assolutoria di cui al dispositivo..” (C. App. Lecce, sez. dist. di Taranto, Sentenza n. 218 del 26 febbraio 2020).


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Avv. Marco La Grotta

Laurea Magistrale in Giurisprudenza, conseguita presso Università degli Studi di Bari "Aldo Moro". Pratica forense svolta in ambito civile, penale ed amministrativo presso lo studio legale dell'Avv. Prof. Giuseppe Chiarelli del Foro di Taranto. Attestato di frequenza della Scuola Forense-Taranto. Attestato di partecipazione al corso biennale per difensore d'ufficio. Attualmente iscritto presso l'Albo degli Avvocati di Taranto ed esercita la professione forense prevalentemente nell'ambito penale e della consulenza a società.

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