Differimento dell’esecuzione della pena relativo a collaboratori di giustizia: brevi note in tema di competenza territoriale
1. – Com’è noto, il differimento dell’esecuzione della pena ex 146-147 c.p. può [in presenza di profili di pericolosità sociale del condannato suscettibili di pregiudicare le esigenze di sicurezza pubblica ([1])] essere oggi concesso pure nella forma alternativa della detenzione domiciliare ex art. 47-ter, comma 1-ter, O.P. ([2]).
Se richiesto da un collaboratore di giustizia sottoposto a speciali misure di protezione, la competenza a provvedere dovrebbe de plano riconoscersi al Tribunale di sorveglianza di Roma ai sensi dell’art. 16-nonies, comma 8, d.l. 15 gennaio 1991 n. 8, conv. nella l. 15 marzo 1991 n. 82.
Invero, anche la detenzione domiciliare ex art. 47-ter, comma 1-ter, O.P. rientra nella previsione del predetto art. 16-nonies, comma 8, d.l. n. 8 del 1991 in quanto pure essa costituisce “taluna delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della legge 26 luglio 1975 n. 354” (come recita, per l’appunto, il citato comma 8).
Questa conclusione, nondimeno, è stata recentemente disattesa da Cass. pen., Sez. I, sentenza 6 dicembre 2017 n. 8131, Confl. comp. in proc. Pacciarelli, Rv. 272416, secondo cui:
la detenzione domiciliare prevista dall’art. 47-ter, comma 1-ter, O.P. “non richiede alcun apprezzamento nè in ordine all’importanza della collaborazione nè in ordine al ravvedimento…, che sono i requisiti cui nel sistema delineato dall’art. 16-nonies del decreto legge n. 8 del 1991, è ancorata la concessione delle misure marcatamente premiali, viceversa presi in considerazione ai fini della deroga di competenza; requisiti, al tempo stesso, in rapporto ai quali riveste importanza decisiva l’apporto di conoscenza degli organi centrali di protezione e, in questo quadro, trova senso l’istituito stretto collegamento tra la sede di tali organi e la competenza giudiziaria” ([3]);
pertanto, “in tema di rinvio, necessario o facoltativo, dell’esecuzione della pena, la competenza a provvedere sull’istanza del detenuto, collaboratore di giustizia, appartiene al magistrato o al tribunale di sorveglianza che ha giurisdizione sull’istituto di prevenzione o di pena in cui si trova l’interessato all’atto della richiesta ai sensi dell’art. 677, comma 1, c.p.p., anche quando il condannato richieda, o il giudice ritenga comunque di applicare, la detenzione domiciliare in luogo del differimento, non trovando applicazione la regola di cui all’art. 16-nonies, comma 8, del d.l. 15 gennaio 1991, n. 8, convertito dalla legge 15 marzo 1991, n. 82, che prevede la competenza territoriale esclusiva del giudice di sorveglianza di Roma” ([4]).
Una tale interpretazione, tuttavia, non può essere assecondata.
Anzitutto, essa si basa su affermazioni apodittiche prive di qualsivoglia supporto normativo, essendo irrilevante a quest’ultimo riguardo il fatto che “i provvedimenti in materia di rinvio dell’esecuzione della pena non sono testualmente ricompresi nell’ambito dell’art. 16-nonies decreto legge n. 8 del 1991” (come, invece, sta scritto nella motivazione della decisione in contestazione) perché:
ciò non è del tutto esatto in quanto il richiamo (pure) di tali provvedimenti deve considerarsi implicito nel comma 8 dell’art. 16-nonies là dove lo stesso parla testualmente di “taluna delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della legge 26 luglio 1975 n. 354”: e tale sicuramente è la misura della detenzione domiciliare prevista dall’art. 47-ter, comma 1-ter, O.P.;
neanche il beneficio ex 1 l. 26 novembre 2010 n. 199 (c.d. esecuzione della pena detentiva presso il domicilio) rientra nella previsione ex art. 16-nonies del d. l. n. 8 del 1991, ma ciò non ha impedito alla Suprema Corte di considerare operanti pure rispetto ad esso (beneficio) le speciali regole sulla competenza previste per i collaboratori di giustizia dallo stesso art. 16-nonies in virtù di una sua interpretazione estensiva valorizzante la ratio legis ([5]).
La suindicata interpretazione di Cass. pen. n. 8131 del 2017, poi, si pone in flagrante contraddizione con un complesso di ragioni (storiche, logiche e sistematiche), che si passa ad illustrare.
2.1 – In primo luogo, osserviamo che la ratio dell’art. 16-nonies, comma 8, d.l. n. 8 del 1991 [che ha preso il posto dell’originario e “speculare” art. 13-ter, comma 3, stesso d.l. ([6])] non è affatto quella (o, comunque, non è solo quella e/o non è prevalentemente quella) di tipo “conoscitivo” come sopra supposta dalla Corte di cassazione ([7]).
La ratio della norma in questione, invero, va ravvisata nell’esigenza di salvaguardare la sicurezza dei collaboratori di giustizia: com’è stato esattamente, puntualmente e costantemente insegnato dalla Suprema Corte in numerose altre decisioni inopinatamente disattese da quella in contestazione.
Esemplare al riguardo è Cass. pen. Sez. I, sentenza 20 dicembre 2005 n. 1888, Confl. comp. in proc. Di Mauro, Rv. 233571, nella cui motivazione sta a chiare lettere scritto: “il legislatore, per pregnanti e particolari ragioni di salvaguardia della sicurezza dei collaboratori di giustizia, ha inteso sottrarre a qualsiasi altro tribunale di sorveglianza, che non sia quello di Roma, la competenza a decidere sulle domande di concessione di liberazione condizionale, di misure alternative o di qualsiasi altro beneficio penitenziario, che siano state presentate dai soggetti di cui sopra” ([8]).
“Qualsiasi altro beneficio richiesto dai collaboratori di giustizia”, hanno scritto in quell’occasione i Supremi Giudici: ivi compreso (aggiungiamo noi) il beneficio ex art. 47-ter, comma 1-ter, O.P. perché pure rispetto ad esso ricorrono le suindicate “pregnanti e particolari ragioni di salvaguardia della sicurezza dei collaboratori di giustizia”.
Alla stregua di quanto precede, pertanto, l’art. 16-nonies, comma 8, d.l. n. 8 del 1991, se interpretato nel senso restrittivo come sopra ritenuto da Cass. pen. n. 8131 del 2017, si espone a censura di incostituzionalità per violazione dell’art. 3 Cost., essendo irragionevole escludere dal suo ambito operativo il beneficio ex art. 47-ter, comma 1-ter, O.P. in presenza di quella stessa ratio (le “pregnanti e particolari ragioni di salvaguardia della sicurezza dei collaboratori di giustizia”) giustificante e determinante la competenza della Magistratura di sorveglianza di Roma rispetto agli altri benefici richiesti dai collaboratori di giustizia.
2.2 – In secondo luogo, si rileva che l’interpretazione qui confutata si risolve in una inammissibile deroga alla norma ex art. 16-nonies, comma 8, cit., la quale (norma) invece ha carattere assoluto ed è stata sempre ritenuta insuscettibile di qualsivoglia deroga (ivi comprese quelle … giurisprudenziali); e più esattamente:
– già nei primi anni di applicazione della normativa “speciale” sui collaboratori di giustizia da Cass. pen, Sez. I , sentenza 13 dicembre 1996 n. 6799, Confl. comp. Trib. sorv. Roma e Aquila, Rv. 206756, nella cui motivazione sta perentoriamente scritto: “in tema di competenza per territorio nel procedimento di sorveglianza relativo a soggetti sottoposti allo speciale programma di protezione per i collaboratori di giustizia, l’art. 13-ter, comma terzo, del decreto legge 15 gennaio 1991 n.8, convertito con modifiche in legge 15 marzo 1991 n. 82, quale introdotto dall’art. 13, comma secondo, del decreto legge 8 giugno 1992 n. 306, convertito con modifiche in legge 7 agosto 1992 n. 356 – che stabilisce la competenza del Tribunale di sorveglianza del luogo in cui la persona ammessa allo speciale programma di protezione ha domicilio – è norma assolutamente eccezionale, in considerazione delle finalità protettive che si prefigge nei confronti di persone ritenute destinatarie di cautele rigorose al fine di salvaguardarne l’incolumità. L’eccezionalità della normativa non riguarda la sola competenza, ma anche la procedura da seguire ed i presupposti di applicazione dei benefici previsti dalla legge penitenziaria. Ne risulta un complesso normativo caratterizzato da un elevatissimo grado di eccezionalità, tale da derogare al principio dettato dall’art. 677 cod. proc. pen. e conforme al criterio generale della ‘perpetuatio iurisdictionis’, per il quale la competenza per territorio a conoscere le materie attribuite alla magistratura di sorveglianza è determinata dal momento della richiesta, della proposta o dell’inizio di ufficio del procedimento. Qualora l’interessato, pur successivamente agli atti introduttivi citati, sia ammesso allo speciale programma di protezione previsto dagli articoli 9 e seguenti del decreto legge n. 8 del 1991, il procedimento di sorveglianza deve seguire le norme dettate dall’art. 13-ter del decreto legge citato (nella fattispecie, in applicazione di tale principio, è stata affermata dalla Suprema Corte, in sede di risoluzione di un conflitto, la competenza del Tribunale di sorveglianza di Roma, atteso che il luogo in cui il ‘collaboratore’ deve eleggere domicilio è quello in cui ha sede la Commissione centrale per la definizione ed applicazione dei programmi di protezione, prevista dall’art. 10 del decreto legge n. 8 del 1991, e che la sede di detta Commissione è sita appunto in Roma)” ([9]);
– in tempi più recenti da Cass. pen., Sez. I, sentenza 20 dicembre 2005 n. 1888, Confl. comp. in proc. Di Mauro, Rv. 233571, nella cui motivazione sta altrettanto perentoriamente scritto: “invero la competenza a provvedere in ordine a tutte le richieste dei soggetti che si trovino sottoposti a programma speciale di protezione ai sensi della L. 15 marzo 1991 n. 82 e succ. mod. spetta in ogni caso al Tribunale (o al Magistrato) di sorveglianza indicato nell’art. 16- nonies della legge suindicata, comma 8, a prescindere dalla situazione in cui si trovino…. Appare basilare il principio, secondo cui la disposizione di cui al citato art. 16-nonies, comma 8, è norma di carattere eccezionale, che riguarda specificamente i soggetti sottoposti a programma di protezione e che prevale su qualsiasi altra norma, anche speciale, che riguardi soggetti diversi”;
– in tempi recentissimi da Cass. pen., Sez. I, sentenza 10 ottobre 2013 n. 45282, Confl. comp. in proc. Esposito, Rv. 257319, nella cui motivazione sta inequivocabilmente scritto: “alla regola eccezionale di carattere inderogabile dell’attribuzione in via esclusiva alla competenza al Tribunale di sorveglianza (e del Magistrato di sorveglianza secondo le rispettive attribuzioni) di Roma, ai fini istruttori e valutativi, delle richieste dei soggetti che si trovino sottoposti a programma speciale di protezione, ai sensi della L. n. 82 del 1991 e succ. mod., soggiace anche la misura prevista dalla L. n. 199 del 2010 e succ. modifiche, quando riguarda i medesimi soggetti, avuto riguardo alle sue caratteristiche di peculiare beneficio penitenziario e ai presupposti per la sua concedibilità, che ne rendono giustificata la soggezione alla medesima indicata regola, idonea a garantire il già detto coordinamento funzionale tra gli interventi della magistratura di sorveglianza e degli organi amministrativi deputati alle misure di protezione nei riguardi dei collaboratori di giustizia”.
Non si tratta di poche decisioni. Ma sono state tutte ignorate da quella “contraria” qui contestata.
2.3 – In terzo luogo, rileviamo che (eccezion fatta per i limiti di pena) la detenzione domiciliare ex art. 47-ter, comma 1-ter, O.P. in nulla differisce da quella ex art. 47-ter, comma 1, lettera c), O.P. ([10]), nei cui confronti nessuno ha mai messo in discussione la competenza del Tribunale di sorveglianza di Roma (scilicet: se la misura riguarda collaboratori di giustizia sottoposti a programma di protezione).
Alla stregua di quanto precede, pertanto, l’interpretazione qui confutata espone l’art. 16-nonies, comma 8, d.l. n. 8 del 1991 [nella parte in cui (ad avviso di Cass. pen. n. 8131 del 2017) esclude dal suo ambito operativo il beneficio ex art. 47-ter, comma 1-ter, O.P.] ad altra censura di incostituzionalità per violazione dell’art. 3 Cost., configurandosi una irragionevole disparità di trattamento rispetto alla corrispondente e sostanzialmente identica misura ex art. 47-ter, comma 1, lettera c), O.P.
2.4 – In quarto luogo, se si volesse per assurdo (ed allo scopo di “eludere” la censura di incostituzionalità or ora prospettata) ritenere che pure la detenzione domiciliare ex art. 47-ter, comma 1, lettera c), O.P. non rientra nella competenza della Magistratura di sorveglianza di Roma per le stesse ragioni sopra indicate al par. 1, lettera A), tali ragioni dovrebbero coerentemente e/o analogicamente configurarsi rispetto a tutte le altre ipotesi previste dal comma 1 dell’art. 47-ter O.P. (ipotesi riguardanti la donna incinta o con prole di età inferiore a 10 anni; il padre di prole inferiore a 10 anni con madre deceduta o assolutamente impossibilita a dare assistenza alla prole stessa; la persona ultrasessantenne con inabilità anche solo parziale; ed il soggetto minore di anni 21 per comprovate esigenze di salute, di studio, di lavoro o di famiglia ) ed a quella prevista dal comma 01 ([11]) della stessa disposizione per i soggetti ultrasettantenni, atteso che:
a) tutte codeste ipotesi sono “accomunate” a quella ex 47-ter, comma 1-ter, O.P. dal fatto di essere basate su esigenze personali o familiari dell’interessato, che costituiscono estrinsecazione di valori aventi rilevanza costituzionale (tutela della diritto alla salute ex art. 32 Cost. e tutela dell’infanzia e della gioventù ex art. 31, comma 2, Cost.);
b) nelle ipotesi considerate dal comma 1 dell’art. 47-terP. rientrano alcune situazioni che possono determinare anch’esse [al pari di quella ex art. 47-ter, comma 1-ter e di quella ex art. 47-ter, comma 1, lettera c), O.P.] il differimento dell’esecuzione della pena [v. art. 146, comma 1, n. 1), c.p. per la “donna incinta”, la cui condizione è presa in considerazione pure dall’art. 47-ter, comma 1, lettera a), O.P.; v. art. 146, comma 1, n. 2), c.p. per la “madre di infante di età inferiore ad anni uno”, la cui condizione è sussumibile pure nella previsione ex art. 47-ter, comma 1, lettera a), O.P.; e v. art. 147, comma 1, n. 3), c.p. per la “madre di prole di età inferiore a tre anni”, la cui condizione è sussumibile anch’essa nella previsione ex art. 47-ter, comma 1, lettera a), O.P.].
Sennonchè, così ragionando (e considerando, cioè, estranee alla speciale competenza della Magistratura di sorveglianza di Roma tutte le ipotesi ex art. 47-ter, comma 01 e comma 1, O.P.), l’ambito operativo della “competenza romana” ex art. 16-nonies, comma 8, d.l. n. 8 del 1991 sarebbe (scilicet: rispetto alla misura alternativa della detenzione domiciliare) limitato soltanto alla detenzione domiciliare “generica” ex art. 47-ter, comma 1-bis, O.P. Ma ciò sarebbe storicamente e giuridicamente inconcepibile perché:
– la possibilità di concedere la detenzione domiciliare ai collaboratori di giustizia sotto protezione era già prevista dall’art. 13-ter, commi 1-2, del d.l. n. 8 del 1991, che è stato aggiunto dall’art. 13, comma 2, d.l. 8 giugno 1992 n. 306, conv. con modificazioni nella l. 7 agosto 1992 n. 356 ([12]);
– la detenzione domiciliare “generica” ex art. 47-ter, comma 1-bis, invece, non esisteva ancora nel vigore del predetto art. 13-ter del d.l. n. 8 del 1991 perché essa è stata introdotta nel nostro ordinamento in epoca successiva (dall’art. 4 l. 27 maggio 1998 n. 165), così come in epoca successiva (l. 5 dicembre 2005 n. 251, art. 7) è stata introdotta la detenzione domiciliare per gli ultrasettantenni ex art. 47-ter, comma 01, O.P.;
– la detenzione domiciliare “originariamente concedibile” ai collaboratori di giustizia ex art. 13-ter, d.l. n. 8 del 1991, pertanto, era sempre e solo quella ex art. 47-ter, comma 1, O.P. ([13]): ivi compresa quella che all’epoca era prevista al n. 2), la quale è esattamente corrispondente a quella dell’attuale lettera c);
– pertanto, essa (detenzione domiciliare ex art. 47-ter, comma 1, O.P.) rientra pure oggi nell’ambito operativo del vigente art. 16-nonies, comma 8, d.l. n. 8 del 1991, essendo tale articolo (16-nonies, comma 8) “speculare” al previgente art. 13-ter, comma 3, stesso d.l., al quale (art. 13-ter) è “subentrato” senza soluzione di continuità: siccome è reso evidente dal fatto che l’art. 13-ter è stato abrogato dall’art. 7 l. 13 febbraio 2001 n. 45, il cui art. 14 ha contemporaneamente introdotto l’art. 16-nonies!
Alla stregua di quanto precede si può con sicurezza affermare che qualunque interpretazione finalizzata ad “espellere” le ipotesi ex art. 47-ter, comma 1, O.P. [compresa quella di cui alla lettera c)] dall’ambito operativo dell’art. 16-nonies, comma 8, d.l. n. 8 del 1991 non solo sarebbe “smentita dalla storia”, ma finirebbe con l’esporre lo stesso art. 16-nonies, comma 8, cit. a censura di incostituzionalità per violazione del principio di razionalità ex art. 3 Cost., facendo derivare dalla norma effetti contrari rispetto a quelli voluti dal Legislatore ([14]).
2.5 – In quinto luogo, la qui contestata decisione della Corte di cassazione non chiarisce perchè la detenzione domiciliare prevista dall’art. 47-ter, comma 1-ter, O.P. “non richiede alcun apprezzamento nè in ordine all’importanza della collaborazione nè in ordine al ravvedimento…, che sono i requisiti cui nel sistema delineato dall’art. 16-nonies decreto legge n. 8 del 1991, è ancorata la concessione delle misure marcatamente premiali, viceversa presi in considerazione ai fini della deroga di competenza” [v. supra, par. 1, lettera A)].
Ed invero:
anche la concessione della detenzione domiciliare ex 47-ter, comma 1-ter, O.P. implica valutazioni sulla pericolosità sociale del condannato ([15]);
conseguentemente, non si capisce perché da tale valutazione debbano essere esclusi l’importanza della collaborazione ed il ravvedimento, essendo sia l’una che l’altro elementi sintomatici dell’attuale capacità a delinquere dell’interessato, di cui “il giudice deve tener conto” ai sensi dell’art. 133, comma 2, n. 3, c.p.
2.6 – In sesto luogo, se per assurdo fosse vero che ai fini della concessione della detenzione domiciliare ex art. 47-ter, comma 1-ter, O.P. la Magistratura di sorveglianza non dovrebbe operare “alcun apprezzamento nè in ordine all’importanza della collaborazione nè in ordine al ravvedimento” (come, invece, postula la decisione in contestazione):
– la conclusione dovrebbe a fortiori valere pure per il beneficio ex art. 1, legge 26 novembre 2010 n. 199 (c.d. esecuzione della pena detentiva presso il domicilio) perché lo stesso è considerato “applicabile anche in deroga alle regole generali poste dall’art. 47-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354, per la detenzione domiciliare, e quindi indipendentemente da ogni valutazione di meritevolezza in ordine alla concessione della misura” ([16]);
– il che, invece, è stato escluso dalla Corte di cassazione, secondo cui “la regola di cui al comma ottavo dell’art. 16-nonies del d.l. n. 8 del 1991, conv. in l. n. 82 del 1991, che attribuisce la competenza in via esclusiva al Tribunale di sorveglianza e al Magistrato di sorveglianza di Roma, in ordine a tutte le richieste relative a benefici penitenziari avanzate da ‘collaboratori di giustizia’, si applica anche alla misura della esecuzione presso il domicilio della pena detentiva non superiore a diciotto mesi, prevista dalla legge n. 199 del 2010 e succ. modifiche” ([17]).
E’ inutile sottolineare, infine, l’irragionevolezza di un sistema normativo (quale sarebbe quello conseguente alla qui avversata decisione della Corte di cassazione), che esclude la competenza “speciale” ex art. 16-nonies, comma 8, d.l. n. 8 del 1991 rispetto ad un beneficio penitenziario asseritamente “svincolato” da valutazioni di meritevolezza (quale sarebbe ad avviso di Cass. pen. n. 8131 del 2017 la misura ex art. 47-ter, comma 1-ter, O.P.) e che, invece, afferma tale competenza (ex art. 16-nonies, comma 8, cit.) rispetto ad altro beneficio penitenziario (quello ex art. 1 l. n. 199 del 2010) parimenti concedibile “indipendentemente da ogni valutazione di meritevolezza”!
2.7 – In settimo luogo, se fosse vero quanto sta scritto nella sentenza della Corte di cassazione qui confutata [v. supra par. 1, lettera A)], dovrebbe coerentemente affermarsi la competenza “generale ed ordinaria” prevista dall’art. 677 c.p.p. ed escludersi la competenza “eccezionale e speciale” della Magistratura di sorveglianza di Roma prevista dall’art. 16-nonies, comma 8, d.l. n. 8 del 1991 non solo nella fase di concessione della detenzione domiciliare de qua (ex art. 47-ter, comma 1-ter, O.P.), ma pure nella fase della sua “gestione” e/o esecuzione (comprensiva degli eventuali provvedimenti di revoca ex artt. 147, comma 2, c.p. e/o 47-ter, comma 6, O.P. e/o di sospensione cautelativa ex art. 51-ter O.P.). Con la conseguenza che:
– concessa la detenzione domiciliare ex art. 47-ter, comma 1-ter, O.P. da parte del Tribunale di sorveglianza competente ex art. 677, comma 1, O.P. (come postula l’avversata sentenza della Cassazione), la competenza a “gestire” la successiva fase esecutiva della misura dovrebbe coerentemente spettare ex art. 677, comma 2, c.p.p. alla Magistratura di sorveglianza che ha giurisdizione sul luogo in cui l’interessato ha la residenza anagrafica o il domicilio effettivo ([18]);
– in tal modo, tuttavia, dovendo essere “rivelato” il domicilio effettivo del collaboratore di giustizia ai fini dell’individuazione della Magistratura di sorveglianza territorialmente competente a “gestire” la misura, nella fase esecutiva della misura stessa resterebbero vanificate quelle “pregnanti e particolari ragioni di salvaguardia della sicurezza dei collaboratori di giustizia”, che determinano e giustificano la “speciale competenza” prevista per tali soggetti dall’art. 16-nonies, comma 8, d.l. n. 8 del 1991;
– per evitare codesta “pericolosa” conclusione, infine, sarebbe assolutamente assurdo ed illogico sostenere che rispetto alla misura ex art. 47-ter, comma 1-ter, O.P. (e solo rispetto ad essa) quelle esigenze “valgono” esclusivamente nella fase esecutiva (con l’affermazione riguardo ad essa della “eccezionale” competenza della magistratura di sorveglianza romana ex art. 16-nonies, comma 8, d.l. n. 8 del 1991) e non, invece, nella fase concessiva del beneficio (con l’affermazione riguardo ad essa della competenza “ordinaria” ex art. 677 c.p.p.).
Il Diritto è “sistema” e non “estemporaneità”: così almeno ci avevano insegnato i nostri Maestri. Ma erano altri tempi, e ormai lontani!
3. – In conclusione:
a) la suindicata decisione n. 8131 del 2017 si rivela (a dir poco) corriva nelle sue affermazioni;
b) è auspicabile, pertanto, una ben più meditata rivisitazione del problema da parte della Corte di cassazione: confidando che la stessa anteponga le sue prerogative “nomofilattiche” a quelle di “produttività” dell’estensore di turno.
Ma esiste ancora la nomofilachia della Corte di cassazione?
([1]) V. la giurisprudenza richiamata nella nota 15.
([2]) Sull’originario assetto normativo v. la giurisprudenza richiamata nella nota 10.
([3]) Così sta scritto nella relativa motivazione.
([4]) Così è formulata la relativa massima.
([5]) Per più diffuse considerazioni v. il par. 2.6.
([6]) Sull’art. 13-ter, comma 3, d.l. n. 8 del 1991 (sul quale ci soffermeremo nel par. 2.4 ed il cui testo trascriveremo nella nota 12) v. Cass. pen, Sez. I, sentenza 13 dicembre 1996 n. 6799, Confl. comp. Trib. sorv. Roma e Aquila, Rv. 206756, la cui motivazione si riporterà nel prossimo par. 2.2.
([7]) V. supra par. 1, lettera A), là dove la contestata decisione della Cassazione assegna una “importanza decisiva” (ai fini dell’affermazione della competenza “speciale” della Magistratura di sorveglianza di Roma) “all’apporto di conoscenza degli organi centrali di protezione”.
([8]) Nello stesso senso v. già prima Cass. pen, Sez. I , sentenza 13 dicembre 1996 n. 6799, Confl. comp. Trib. sorv. Roma e Aquila, Rv. 206756, che richiameremo nel successivo par. 2.2.
A sua volta Cass. pen., Sez. I, sentenza 10 ottobre 2013 n. 45282, Confl. comp. in proc. Esposito, Rv. 257319 (che ricorderemo sempre al par. 2.2) esplicita ancor meglio tale ratio legis, parlando di esigenza di “garantire il … coordinamento funzionale tra gli interventi della magistratura di sorveglianza e degli organi amministrativi deputati alle misure di protezione nei riguardi dei collaboratori di giustizia”.
([9]) Osserviamo incidentalmente che il suindicato art. 13-ter d.l. 8/1991, pur essendo stato abrogato dall’art. 7 l. 13 febbraio 2001 n. 45, era “speculare” all’oggi vigente art. 16-nonies, commi 1 e 8, d.l. n. 8 del 1991: v. infra, par. 2.4.
([10]) Sull’assimilazione della detenzione domiciliare ex art. 47-ter, comma 1-ter, O.P. a quella ex art. 47-ter, comma 1, lettera c), O.P. v. ex multis Cass. pen., Sez. I, sentenza 7 dicembre 1999 n. 6952, Saraco, Rv. 215203, nella cui motivazione sta scritto: “invero, ai sensi dell’art. 47-ter, co. 1-ter della legge 26.7.1975 n. 354, così come innovato dall’art. 4, co. 1, lett. a) della legge 27.5.1998 n. 165, la misura della detenzione domiciliare a termine può essere applicata, anche in casi di pena da espiare superiore al limite di quattro anni di cui al primo comma di detto articolo, ‘quando potrebbe essere disposto il rinvio obbligatorio o facoltativo dell’esecuzione della pena ai sensi degli artt. 146 e 147 del codice penale’ … L’innovazione, chiaramente mirata a colmare una lacuna legislativa esistente nella previgente normativa, per la quale si imponeva un’alternativa secca tra carcerazione e libertà senza vincoli in presenza dei presupposti di fatto indicati dagli artt. 146 e 147 cod. pen., configura la polifunzionalità del regime detentivo mirato, per un verso, dall’esigenza di effettività dell’espiazione della pena e del necessario controllo cui vanno sottoposti i soggetti pericolosi e, per altro verso, a una sua esecuzione mediante forme compatibili con il senso di umanità, quale quella della detenzione domiciliare a termine, in presenza di negativa condizione soggettiva del condannato che non ne consente la piena liberazione derivante dall’applicazione dell’istituto della sospensione, obbligatoria o facoltativa, dell’esecuzione della pena”.
Nello stesso senso v. tra le più recenti Cass. pen., Sez. I, sentenza 29 aprile 2015 n. 25841, Coku, Rv.26397, nonchè Cass. pen., Sez. I, sentenza 3 marzo 2015 n. 12565, Cizmic, Rv. 262301, nella cui motivazione sta scritto: “ed invero, l’art. 47-ter, comma 1-ter, allorchè prevede che, ‘quando potrebbe essere disposto il rinvio obbligatorio o facoltativo della pena ai sensi degli artt. 146 e 147 c.p., il tribunale di sorveglianza, anche se la pena supera il limite di cui al comma 1, può disporre l’applicazione della detenzione domiciliare’, deve essere interpretato nel senso che non soltanto sono stati ampliati i casi in cui la misura può essere concessa rispetto a quelli originariamente previsti della L. n. 354 del 1975, art. 47–ter, comma 1, derogando anche ai limiti di pena, ma nel senso che il tribunale di sorveglianza, anche in mancanza di una richiesta dell’interessato, abbia il potere di disporre la detenzione domiciliare quando ritenga tale misura più rispondente agli interessi sia della collettività che del condannato”.
([11]) Riteniamo opportuno avvertire il cortese lettore poco aduso alla consultazione della l. n. 354 del 1975 (c.d. Ordinamento Penitenziario: O.P.) che, scrivendo “comma 01”, non siamo incorsi in un lapsus calami.
A seguito dei diversi “ritocchi” della norma succedutisi nel tempo, infatti, il comma iniziale dell’art. 47-ter O.P. ha oggi proprio tale “singolare ed artica” (o, se si preferisce, “antartica”) numerazione.
([12]) Si ritiene opportuno riportare il testo integrale dell’art. 13-ter d.l. n. 8 del 1991, evidenziandone in grassetto le parti “significative” ai fini in discorso:
“1. Nei confronti delle persone ammesse a speciale programma di protezione l’assegnazione al lavoro all’esterno, la concessione dei permessi premio e l’ammissione alle misure alternative alla detenzione previste dal capo VI della legge 26 luglio 1975, n. 354, sono disposte sentita l’autorità che ha deliberato il programma, la quale provvede ad acquisire informazioni dal pubblico ministero presso il giudice competente per i reati in ordine ai quali è stata prestata la collaborazione.
2. Nei casi di cui al comma 1, il provvedimento può essere adottato anche in deroga alle vigenti disposizioni, ivi comprese quelle relative ai limiti di pena di cui agli articoli 21, 30-ter, 47, 47-ter e 50. Il provvedimento è specificamente motivato nei casi in cui l’autorità indicata nel comma 1 ha espresso avviso sfavorevole.
3. Per i provvedimenti di cui ai commi 1 e 2, la competenza appartiene al tribunale o al magistrato di sorveglianza del luogo in cui la persona ammessa allo speciale programma di protezione ha il domicilio.
4. Con decreto del Ministro di grazia e giustizia, di concerto con il Ministro dell’interno, sono stabilite le modalità attuative delle disposizioni dell’ordinamento penitenziario applicabili alle persone ammesse o da ammettere allo speciale programma di protezione”.
Mette conto sottolineare altresì che:
il comma 2, richiamando espressamente l’art. 47-ter della l. n. 354 del 1975, si riferiva altrettanto espressamente alla misura della detenzione domiciliare, che all’epoca era quella e solo quella relativa alle ipotesi previste dal comma 1;
il comma 3 dell’art. 13-ter del d.l. n. 8 del 1991 prevedeva già al riguardo la competenza della Magistratura di sorveglianza di Roma: v. Cass. pen, Sez. I , sentenza 13 dicembre 1996 n. 6799, Confl. comp. Trib. sorv. Roma e Aquila, Rv. 206756, la cui motivazione abbiamo trascritto nella parte iniziale del par. 2.2.
([13]) Si trascrive l’art. 47-ter O.P. nel testo vigente all’epoca in cui era in vigore l’art. 13-ter del d.l. n. 8 del 1991:
“La pena della reclusione non superiore a tre anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, nonchè la pena dell’arresto, possono essere espiate, se non vi è stato affidamento in prova al servizio sociale, nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico di cura e di assistenza o accoglienza, quando trattasi di:
1) donna incinta o che allatta la propria prole ovvero madre di prole di età inferiore a cinque anni con lei convivente;
2) persona in condizioni di salute particolarmente gravi che richiedano costanti contatti con i presìdi sanitari territoriali;
3) persona di età superiore a sessanta anni, se inabile anche parzialmente;
4) persona minore di anni ventuno per comprovate esigenze di salute, di studio, di lavoro e di famiglia.
Se la condanna di cui al comma 1 deve essere eseguita nei confronti di persona che trovasi in stato di libertà o ha trascorso la custodia cautelare, o la parte terminale di essa, in regime di arresti domiciliari, si applica la procedura di cui al comma 4 dell’art. 47.
Il tribunale di sorveglianza, nel disporre la detenzione domiciliare, ne fissa le modalità secondo quanto stabilito dal secondo comma dell’articolo 254-quater del codice di procedura penale. Si applica il quinto comma del medesimo articolo. Determina e impartisce altresì le disposizioni per gli interventi del servizio sociale. Tali prescrizioni e disposizioni possono essere modificate dal magistrato di sorveglianza competente per il luogo in cui si svolge la detenzione domiciliare.
Il condannato nei confronti del quale è disposta la detenzione domiciliare non è sottoposto al regime penitenziario previsto dalla presente legge e dal relativo regolamento di esecuzione. Nessun onere grava sull’amministrazione penitenziaria per il mantenimento, la cura e l’assistenza medica del condannato che trovasi in detenzione domiciliare.
La detenzione domiciliare è revocata se il comportamento del soggetto, contrario alla legge o alle prescrizioni dettate, appare incompatibile con la prosecuzione delle misure.
Deve essere inoltre revocata quando vengono a cessare le condizioni previste nei commi 1.
Il condannato che, essendo in stato di detenzione nella propria abitazione o in un altro dei luoghi indicati nel comma 1, se ne allontana, è punito ai sensi dell’articolo 385 del codice penale. Si applica la disposizione dell’ultimo comma dello stesso articolo.
La denuncia per il delitto di cui al comma 8 importa la sospensione del beneficio e la condanna ne importa la revoca”.
Come è agevole rilevare, le ipotesi all’epoca previste corrispondono sostanzialmente a quelle oggi contemplate dalle lettere a), c), d) ed e) dell’art. 47-ter, comma 1.
([14]) V. ex plurimis Corte cost. 13 maggio 1993 n. 233, in Foro it., 1993, 1, c. 1744, che ha considerato vulnerato quel principio in presenza “di una norma che determina irrazionalmente l’effetto contrario a quello espresso dal legislatore”; e in dottrina CERRI, Sindacato di costituzionalità (ordinamento italiano), in Enc. giur., XXVIII, p. 23, il quale evidenzia che “la legge non rispetta i criteri di razionalità scientifica quando … contiene una vera contraddizione fra disposizione e ratio”.
Di “direttiva di razionalità tutelata dall’art. 3, comma 1°, cost.” la Corte costituzionale ha incominciato a parlare ex professo verso la metà del 1980 (v. in particolare Corte cost. n. 190 del 1985 e n. 146 del 1987; per più recenti applicazioni v. esemplificativamente Corte cost. n. 363 del 1996, n. 416 del 1996, n. 44 del 1997, n. 354 del 2002, n. 58 del 2006, n. 321 del 2011, n. 174 del 2016 e n. 236 del 2016).
Alla stregua di questo “principio di razionalità”, com’è noto, la Consulta riesce “a sindacare l’intrinseca ragionevolezza delle scelte legislative, anche indipendentemente dalla comparazione di singole norme” (son parole di SAJA, La giustizia costituzionale nel 1988, in Foro it., 1989, V, c. 175).
Su codesto “giudizio di ragionevolezza assoluto” v. le nostre osservazioni in ANDOLINA-VIGNERA, I fondamenti costituzionali della giustizia civile, Torino, 1997, p. 131 ss.; nonché SILVESTRI, Legge (controllo di costituzionalità), in Dig. pubbl., IX, pp. 128, 145 (dove si fa esattamente notare che “la natura della Corte tende a trasformarsi ancora per assumere la veste di ‘custode della razionalità’ dell’ordinamento. Piaccia o non piaccia, così sta avvenendo”).
Per più complete informazioni v. MORRONE, Il custode della ragionevolezza, Milano, 2001, p. 145 ss. (dove si parla al riguardo di “giudizio di razionalità”).
([15]) V. in tal senso la già ricordata Cass. pen., Sez. I, sentenza 7 dicembre 1999 n. 6952, Saraco, Rv. 215203, nella cui motivazione sta scritto: “invero, ai sensi dell’art. 47-ter, co. 1-ter della legge 26.7.1975 n. 354, così come innovato dall’art. 4, co. 1, lett. a) della legge 27.5.1998 n. 165, la misura della detenzione domiciliare a termine può essere applicata, anche in casi di pena da espiare superiore al limite di quattro anni di cui al primo comma di detto articolo, ‘quando potrebbe essere disposto il rinvio obbligatorio o facoltativo dell’esecuzione della pena ai sensi degli artt. 146 e 147 del codice penale’ … L’innovazione, chiaramente mirata a colmare una lacuna legislativa esistente nella previgente normativa, per la quale si imponeva un’alternativa secca tra carcerazione e libertà senza vincoli in presenza dei presupposti di fatto indicati dagli artt. 146 e 147 cod. pen., configura la polifunzionalità del regime detentivo mirato, per un verso, dall’esigenza di effettività dell’espiazione della pena e del necessario controllo cui vanno sottoposti i soggetti pericolosi e, per altro verso, a una sua esecuzione mediante forme compatibili con il senso di umanità, quale quella della detenzione domiciliare a termine, in presenza di negativa condizione soggettiva del condannato che non ne consente la piena liberazione derivante dall’applicazione dell’istituto della sospensione, obbligatoria o facoltativa, dell’esecuzione della pena”.
Nello stesso senso v. pure Cass. pen., Sez. I, sentenza 3 marzo 2015 n. 12565, Cizmic, Rv. Rv. 262301, nella cui motivazione sta scritto: “ ed invero, l’art. 47-ter, comma 1-ter, allorchè prevede che, ‘quando potrebbe essere disposto il rinvio obbligatorio o facoltativo della pena ai sensi degli artt. 146 e 147 c.p., il tribunale di sorveglianza, anche se la pena supera il limite di cui al comma 1, può disporre l’applicazione della detenzione domiciliare’, deve essere interpretato nel senso che, non soltanto sono stati ampliati i casi in cui la misura può essere concessa rispetto a quelli originariamente previsti della L. n. 354 del 1975, art. 47-ter, comma 1, derogando anche ai limiti di pena, ma nel senso che il tribunale di sorveglianza, anche in mancanza di una richiesta dell’interessato, abbia il potere di disporre la detenzione domiciliare quando ritenga tale misura più rispondente agli interessi sia della collettività che del condannato”.
([16]) Così Cass. pen., sentenza 11 dicembre 2013 n. 6138, P.G. in proc. Caldarozzi, Rv. 259469.
([17]) Così Cass. pen., Sez. I, sentenza 10 ottobre 2013 n. 45282, Confl. comp. in proc. Esposito, Rv. 257319, nella cui motivazione sta scritto: “alla regola eccezionale di carattere inderogabile dell’attribuzione in via esclusiva alla competenza al Tribunale di sorveglianza (e del Magistrato di sorveglianza secondo le rispettive attribuzioni) di Roma, ai fini istruttori e valutativi, delle richieste dei soggetti che si trovino sottoposti a programma speciale di protezione, ai sensi della L. n. 82 del 1991 e succ. mod., soggiace anche la misura prevista dalla L. n. 199 del 2010 e succ. modifiche, quando riguarda i medesimi soggetti, avuto riguardo alle sue caratteristiche di peculiare beneficio penitenziario e ai presupposti per la sua concedibilità, che ne rendono giustificata la soggezione alla medesima indicata regola, idonea a garantire il già detto coordinamento funzionale tra gli interventi della magistratura di sorveglianza e degli organi amministrativi deputati alle misure di protezione nei riguardi dei collaboratori di giustizia”.
Nello stesso senso v. pure Cass. pen., Sez. I, sentenza 10 giugno 2013 n. 39529, Confl. comp. in proc. D’Alessio, Rv. 257214.
([18]) Si rammenta che agli effetti ex art. 677, comma 2, c.p.p. non rileva il domicilio eletto (v. in tal senso Cass. pen., Sez. I., sentenza 17 aprile 1997 n. 2811, Confl. comp. Trib. sorv. Ancona e Roma in proc. Lestingi, Rv. 207418): di tal che irrilevante in questa prospettiva sarebbe pure il domicilio eletto dal collaboratore di giustizia a norma dell’art. 12, comma 3-bis, d.l. 8/1991 presso la Commissione centrale di cui all’art. 10, comma 2, stesso, d.l.
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Giuseppe Vignera
Magistrato ordinario dal 1985. Attualmente in servizio presso l’Ufficio di Sorveglianza di Alessandria ed il Tribunale di Sorveglianza di Torino.