Dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni e mansioni superiori di fatto
La tematica del riconoscimento di mansioni superiori svolte “di fatto” da dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni, ai fini dell’attribuzione del diritto alle relative differenze retributive, è stata recentemente affrontata dalla Corte di Cassazione, nella Sentenza resa dalla Sezione Lavoro n. 14808/2020.
A ben guardare, invero, la tematica è stata oggetto di molteplici interventi legislativi, i quali hanno inciso positivamente sulla possibilità di riconoscimento delle differenze retributive al dipendente pubblico che, di fatto, svolga mansioni che si pongono in un ambito superiore rispetto al proprio livello di inquadramento.
Sino alle modifiche introdotte all’art. 56 del D.lgs. n. 29/93 e dal D.Lgs. n. 80/98, difatti, a nulla rilevava il fatto che il dipendente pubblico avesse svolto mansioni superiori, ai fini del riconoscimento delle relative differenze retributive ed altresì ai fini dell’inquadramento nella qualifica superiore. Successivamente, l’art. 56 del D.Lgs. n. 29/93 è intervenuto sul tema prevedendo che al lavoratore dipendente della Pubblica Amministrazione possano essere riconosciute le differenze retributive per lo svolgimento di mansioni superiori e ciò anche in assenza di un qualsiasi atto formale. Ad oggi, pertanto, la disciplina – che è contenuta nell’art. 52 del D.lgs. n. 165/2001 – prevede che, nei casi in cui la legge consente l’assegnazione di mansioni superiori, per il periodo di effettiva prestazione, il lavoratore ha diritto al trattamento previsto per la qualifica superiore.
Nello specifico, nel caso in esame, veniva impugnata da un dipendente di un’azienda sanitaria la Sentenza resa dal Giudice d’Appello nella quale non gli venivano riconosciute le differenze retributive relative allo svolgimento “in fatto” di mansioni superiori da parte dello stesso, sulla base di un’asserita necessità di un atto formale per l’assegnazione delle mansioni superiori, al fine del riconoscimento delle relative differenze retributive.
Ebbene, giunta la questione alla Suprema Corte, la stessa si discosta totalmente dal decisum di secondo grado, chiarendo che lo svolgimento di fatto di mansioni superiori sia, di per sé, sufficiente ai fini dell’insorgenza del diritto all’erogazione delle relative differenze di trattamento economico, seppur in assenza di un provvedimento formale. La stessa Corte, a sostegno della pronuncia, richiama altresì ulteriori suoi precedenti giurisprudenziali, tra i quali la Sent. n. 2102/2019, nella quale la Suprema Corte aveva già chiarito che: “il diritto al compenso per lo svolgimento di fatto di mansioni superiori non è condizionato alla sussistenza dei presupposti di legittimità di assegnazione delle mansioni o alle previsioni dei contratti collettivi, né all’operatività del nuovo sistema di classificazione […] una diversa interpretazione sarebbe contraria all’intento del legislatore di assicurare comunque al lavoratore una retribuzione proporzionata alla qualità del lavoro prestato, in ossequio al principio di cui all’articolo 36 della Costituzione.”; e ancora, la S.C., nella Sentenza n. 24266/2016 la Corte si era pronunciata nel seguente modo: “il diritto a percepire la retribuzione commisurata allo svolgimento, di fatto, di mansioni proprie di una qualifica superiore a quella di inquadramento formale, ex art. 52, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, non è condizionato alla legittimità, né all’esistenza di un provvedimento del superiore gerarchico, e trova un unico limite nei casi in cui l’espletamento sia avvenuto all’insaputa o contro la volontà dell’Ente, oppure quando sia il frutto di una fraudolenta collusione tra dipendente e dirigente, o in ogni ipotesi in cui si riscontri una situazione di illiceità per contrasto con norme fondamentali o generali o con principi basilari pubblicistici dell’ordinamento.”.
In conclusione, pertanto, si può sostenere che nella Sentenza da ultimo resa dalla Corte di Cassazione, la stessa si è trovata a confermare dei precedenti giurisprudenziali, tutti indirizzati al riconoscimento del trattamento economico relativo allo svolgimento di mansioni superiori in fatto.
Solo per completezza, appare altresì opportuno evidenziare che, anche alla luce della più recente disciplina, come sopra richiamata, ed anche alla luce delle varie pronunce giurisprudenziali, il rapporto di lavoro pubblico resta differenziato da quello privato per un importante fattore, ossia quello relativo alla stabilizzazione delle mansioni superiori. Una differenza di rilievo tra le due tipologie di impiego risulta difatti quella per cui nel rapporto di pubblico impiego, pur riconoscendo il diritto alla retribuzione relativa alla mansione superiore, lo svolgimento della stessa dovrà avvenire entro dei limiti temporali; difatti, mentre nel rapporto di lavoro privatistico l’art. 2103 c.c. prevede espressamente che lo svolgimento di mansioni superiori dia luogo non soltanto al riconoscimento del relativo trattamento economico, bensì anche all’inquadramento stabile nella qualifica superiore, lo stesso non può affermarsi per il rapporto di impiego pubblico, nel quale lo svolgimento di mansioni superiori darà, sì, il diritto alle maggiori retribuzioni – come si è visto – tuttavia non consentirà in alcun modo che il dipendente venga inquadrato “di fatto” nella qualifica superiore.
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Cecilia Di Guardo
Dottoressa in Giurisprudenza laureata presso l'Università "La Sapienza" di Roma con una tesi in materia di diritto processuale civile in tema di profili processuali dei danni punitivi, con valutazione di 110/110 e lode.
Conferimento del titolo di "laureata eccellente A.A. 2017-2018" da parte dell'Università "La Sapienza" Di Roma e dalla Fondazione Roma Sapienza.
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