Diritti, doveri, obblighi e responsabilità degli arbitri
Nell’ambito del procedimento arbitrale, così come previsto dal nostro legislatore nazionale assume un ruolo centrale la figura dell’arbitro con la sua specifica regolamentazione.
La natura di giudice privato è carente dei caratteri della naturalità e precostituzione per legge che sono propri e caratterizzanti il giudice ordinario dello Stato. L’assenza di tali caratteri presuppone logicamente e giuridicamente che il giudice privato – una volta investito della funzione giudicante mediante l’atto di nomina – sia libero di accettare o meno l’incarico ricevuto.
E così l’art. 813 del codice di procedura civile prevede che l’accettazione degli arbitri debba essere data per iscritto, potendo anche risultare dalla sottoscrizione del compromesso o dal verbale di prima riunione.
Agli arbitri non compete Inoltre la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio.
Nel caso in cui l’arbitro ometta o ritardi un atto dovuto, ciascuna delle parti può chiedere con ricorso, l’intervento del presidente del Tribunale a norma dell’art. 810 comma secondo affinché – previa sommaria audizione degli arbitri e delle parti e accertata l’eventuale omissione o ritardo – dichiari la sua decadenza e provveda in ordine alla sua sostituzione ( art. 813 bis c.p.c.) .
In tema di responsabilità degli arbitri, il codice prevede un’azione di responsabilità che può essere proposta in pendenza del giudizio arbitrale o dopo l’accoglimento dell’impugnazione – e per i motivi per cui è stata accolta – a seconda dei casi.
Sul punto ci si richiama anche a quanto contenuto nell’articolo di questo autore, ‘’ La responsabilità dell’arbitro rituale in una ricostruzione sistematicamente impegnata ‘’ con una ricostruzione dell’istituto che muovendo dagli artt. 1218 e 1176 c.c. permetterebbe – nei casi in cui non sia proposta impugnazione perché non proponibile secondo i motivi indicati dalla legge o perché già arrivati a conclusione del procedimento arbitrale, magari senza pronunzia di merito – l’esperimento dell’azione di risarcimento nei confronti del professionista.
L’articolo 813 ter c.p.c., nel delimitare i casi di responsabilità, statuisce che deve rispondere dei danni cagionati alle parti l’arbitro che: 1) con dolo o colpa grave ha omesso o ritardato atti dovuti ed è stato perciò dichiarato decaduto, ovvero ha rinunciato all’incarico senza giustificato motivo; 2) con dolo o colpa grave ha omesso o impedito la pronuncia del lodo entro il termine fissato a norma degli articoli 820 o 826.
Al di fuori di questi, gli arbitri rispondono solo per dolo o colpa grave nei limiti previsti dall’articolo 2, commi secondo e terzo, della legge n. 117 del 13 aprile 1988, in tema di responsabilità dei magistrati.
Altra ipotesi di responsabilità si ha quando l’arbitro rinuncia, senza giustificato motivo all’incarico.
In questo caso, sulla scorta della conclusione pratica raggiunta anche dal Prof. Bove, appare plausibile che possa sussistere un giustificato motivo di rinuncia ‘’ ove ci si trovi di fronte al sopraggiungere di situazioni involontarie che rendono irragionevole per l’arbitro la prosecuzione del suo ufficio e così giustificano il suo recesso dal contratto ‘’.
I commi 5, 6 e 7 dell’articolo 813 ter c.p.c. prevedono poi eque diminuzioni o tagli totali degli onorari e rimborsi spese dovuti agli arbitri, proporzionati all’entità dei danni cagionati e del contenuto volitivo – dolo o colpa – dei propri atti, chiarendo tuttavia – come appare legittimo e lecito – che ciascun arbitro risponde solo del fatto proprio. Il risarcimento dei danni dovuto dall’arbitro non può in ogni caso superare il triplo della tariffa convenzionale o comunque della tariffa applicabile, mentre l’azione di responsabilità può proporsi in pendenza del giudizio arbitrale solo per l’ipotesi prevista dal n. 1) art. 813 ter.
Interessante sul punto, nonché per una panoramica sulla responsabilità dell’arbitro è il saggio di Mauro Bove, Professore ordinario dell‘Università di Perugia, contenuto in Judicium, Il processo civile in Italia e in Europa, reperibile sul sito web: http://www.judicium.it/admin/saggi/561/Bove_819-ter.pdf .
Quale contraltare dell’obbligazione – di emettere il lodo – assunta dagli arbitri ad essi spetta il diritto al rimborso delle spese e all’onorario per l’opera prestata ( art. 814 c.p.c. ‘’ Diritti degli arbitri‘’), salvo ovviamente che non vi abbiamo rinunziato, ipotesi tra l‘altro assai rara, anche se non totalmente avulsa dall‘universo molteplice e variegato della casistica umana.
L’obbligazione di natura patrimoniale che scaturisce dai diritti degli arbitri e gravante sulle parti è qualificata dal codice quale solidale: il codice opera dunque un rinvio tacito ad altra normativa ed in particolare richiamandosi agli articoli 1292 e seguenti del codice civile in tema di obbligazioni solidali.
Sul punto è interessante richiamarsi al caso pratico di arbitrato rituale esaminato dallo scrivente autore, in cui il procuratore di parte attrice ha sollevato dinanzi al collegio arbitrale questione di legittimità costituzionale ai sensi della legge 87 del 1953, con particolare riferimento all’art. 3 della Costituzione e ai principi generali di ripartizione delle spese di causa nel processo ordinario.
La liquidazione delle spese e dell’onorario può essere effettuata direttamente dagli arbitri i quali, secondo un principio enunciato dalla sentenza n. 3383 del 20 febbraio 2004, emessa dalla sezione I civile della Corte di cassazione , possono provvedervi nell’osservanza della disciplina stabilita in materia di regolamento delle spese processuali, qualora le parti abbiano concordato sulla natura rituale dell’arbitrato e sull’applicabilità delle regole processuali civili.
Il tutto perché espressione di un potere che sarebbe spettato al giudice di merito dello Stato.
In tale ipotesi gli arbitri possono dunque identificare la parte soccombente e disporre la compensazione delle spese del procedimento arbitrale, in quanto una siffatta determinazione non viola il principio per il quale le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa.
In linea con la propria giurisprudenza, la Suprema Corte ha ribadito che la liquidazione delle spese costituisce una mera proposta rivolta alle parti, non vincolante qualora non l’accettino potendo poi chiederne determinazione ad opera del presidente del Tribunale, ai sensi dell’art. 814, comma secondo, c.p.c. riguardando un autonomo rapporto di prestazione d’opera intellettuale.
La sentenza n. 14182 del 3 ottobre 2002 della Corte di cassazione, sez. I civile ha ribadito che, a far data dal 1° aprile 1995, l’onorario spettante agli arbitri, che siano anche avvocati, deve essere liquidato in base alla tariffa professionale, poiché quest’ultima prevede una specifica voce relativa a detta attività, sicché va escluso che il presidente del Tribunale possa operarla mediante il ricorso a criteri equitativi.
Il principio è stato poi confermato, dalla stessa Corte, con la sentenza n. 7764 del 2004.
In tema di spese e costi del procedimento arbitrale è interessante, per ogni possibile approfondimento, il contributo della Dott.ssa Francesca Tizi, Ricercatrice presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Perugia dal titolo ‘’ I costi del procedimento arbitrale’’ .
Tizi sottolinea in particolare che le problematiche legate alla irragionevole durata del processo civile hanno spostato il baricentro verso un processo fondato sul principio volontaristico, qual è quello arbitrale appunto.
Da qui una sorta di giustificazione intrinseca dell‘ordinamento, che però è stata smorzata da interventi legislativi quali il c.d. decreto Bersani, d. l. n. 223 del 2006 ( convertito in legge 4 agosto 2006, n. 248) che ha imposto per la determinazione del compenso degli arbitri, l’applicazione della tariffa forense di cui al decreto ministeriale n. 127 dell’8 aprile 2004 99.
Ovviamente – come sottolinea Tizi – i quesiti sul 1) quanto costa ricorrere al giudice privato?, 2) quando devono avvenire i pagamenti? e 3) chi vi è tenuto? dovranno essere trattati con delle distinzioni specifiche a seconda che si tratti di arbitrato ad hoc o di arbitrato amministrato.
Nel caso di arbitrato amministrato sono i regolamenti delle camere arbitrali a disporre direttamente – secondo lo schema di un vero e proprio arbitraggio o arbitramento – o a lasciare, a volte, il compito di attivarsi agli arbitri.
Anche in tema di liquidazione delle spese e degli onorari spettanti agli arbitri, torna la necessità – nel caso di mancata accettazione delle parti – di un intervento dell’autorità giudiziaria, nella specie del presidente del Tribunale competente ai sensi dell’art. 810 comma 2 c.p.c., il quale provvede con ordinanza soggetta a reclamo ( art. 814 co. 3) a norma dell’articolo 825 quarto comma nonché sospendibile ex art. 830, quarto comma c.p.c..
L’ordinanza costituisce titolo esecutivo contro le parti.
In conclusione al Capo II, del Titolo sull’arbitrato, il codice di procedura civile pone l’art. 815, rubricato ‘’ Ricusazione degli arbitri’’, che individua sei cause che consentono alle parti in lite di proporre istanza di ricusazione al presidente del tribunale.
Stando al tenore dell’art. 815, l’arbitro può essere ricusato quando non ha le qualifiche richieste dalle parti o ha interesse nella causa ( nn. 1 e 2 ), quando egli stesso o il coniuge è parente entro il quarto grado o commensale abituale di una parte o di un suo rappresentante o ha con essi causa pendente o grave inimicizia ( nn. 3 e 4) nonché quando vi è legato da un rapporto imprenditoriale, di lavoro subordinato o ha prestato testimonianza, assistenza , consulenza o difesa in una precedente fase ( nn. 5 e 6).
L’istanza di ricusazione si propone mediante ricorso al presidente del Tribunale nel termine perentorio di dieci giorni dalla notificazione della nomina o dalla sopravvenuta conoscenza della causa di ricusazione.
Sul ricorso, il presidente provvede con ordinanza non impugnabile – previa audizione dell’arbitro ricusato e delle parti – e può condannare la parte che l’ha proposto in modo manifestamente inammissibile o manifestamente infondato, al pagamento a favore dell’altra di una somma non superiore al triplo del massimo compenso spettante al singolo arbitro (art. 815, comma 5). La proposizione del ricorso non sospende il procedimento salva comunque la totale inefficacia dell’attività compiuta dall’arbitro ricusato o con il suo concorso ( art. 815 ult. comma).
Quanto alla ricusazione dell’arbitro irrituale la posizione dominante della giurisprudenza, afferma la non revocabilità per giusta causa ex art. 1726 c.c., essendo applicabile anche in questa sede l’art. 815 c.p.c., il quale prevede uno strumento processuale speciale e dunque prevalente sulla disciplina generale prevista in materia di mandato.
È questa la conclusione pratica e giuridica cui giunge anche il Tribunale di Lucca con la sentenza n. 1235 emessa dallo stesso in data 4 novembre 2008.
Con tale sentenza il Tribunale di Lucca sottolinea in particolare l’inammissibilità della domanda di revoca degli arbitri irrituali senza le forme previste dal succitato articolo 815 c.p.c. . Si deve sottolineare come invece la domanda di revoca forse stava proposta dalla parte attrice con le forme previste per la revoca del mandato.
Tale conclusione del giudice di merito perviene anche sulla base di una lettura congiunta del dato normativo e della giurisprudenza di legittimità, in particolar modo della sentenza 527 del 2000 emessa dalle Sezioni Unite della Corte Suprema di Cassazione , e dalla successiva giurisprudenza della stessa Corte confermativa dei principi indicati.
Tra le pronunce conformi a tali principi dobbiamo citare le sentenze Cassazione, 3 ottobre 2002, n. 14223; Cassazione , 10 novembre 2006 n. 24059; Cassazione, 2 luglio 2007 n. 14972.
Con tali pronunce giurisprudenziali la Corte Suprema ha ricondotto nell’alveo del piano contrattuale entrambe le tipologie di giudizio arbitrale.
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Massimiliano Pagliaccia
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