Diritto al parto anonimo e tutela delle proprie origini biologiche. Il difficile bilanciamento dei contrapposti interessi in gioco
L’istituto del parto anonimo è disciplinato dall’art. 30, comma 1 d.p.r. 396/2000, e consente alle donne che non vogliono riconoscere il figlio, di partorire nel più totale anonimato; il nome delle madri, infatti, in tali casi, rimane segreto, e sul certificato di nascita del bambino, la cui dichiarazione viene fatta dal medico o dall’ostetrica, viene scritto “nato da donna che non consente di essere nominata”.
Tale disciplina trova fondamento nell’esigenza di tutelare la salute e la vita sia del figlio, che della madre, avendo come obiettivo, da un lato, quello di garantire che il parto avvenga in condizioni ottimali, dall’altro, evitare che la donna possa ricorrere a decisioni irreparabili e ben più gravi per il nascituro, quali aborti e infanticidi.
Il nostro ordinamento, inizialmente, ha tutelato in maniera rigorosa il diritto della madre a rimanere anonima, e la conservazione del segreto sulle proprie origini biologiche, come dimostrato, ad esempio, dall’art. 314 c.c., che prevedeva il divieto di fare menzione dell’adozione nelle attestazioni di stato civile.
La tutela del segreto è stata, successivamente, rafforzata dalla legge 184/1983, la quale all’art. 28, comma 2 ha disposto che qualunque attestazione dello stato civile, riferita all’adottato, dovesse essere rilasciata con la sola indicazione del nuovo cognome e con l’esclusione di qualsiasi riferimento alla paternità e alla maternità del minore, nonché della sentenza che avesse pronunciato l’adozione; altresì, al comma 3 è stato introdotto il divieto di rilasciare informazioni dalle quali potesse risultare il rapporto di adozione, eccetto alcune ipotesi.
Tuttavia, da una disciplina basata quasi esclusivamente sulla tutela del segreto, sia nei rapporti interni alla famiglia, che nei confronti dei terzi, man mano si è avuto un mutamento della prospettiva, a partire dalla legge di riforma del 28 marzo 2001 n. 149, la quale ha operato una profonda modifica dell’art. 28 l.184/1983, introducendo nel nostro ordinamento un vero e proprio diritto di conoscere la propria condizione di figlio adottivo e le proprie origini biologiche.
La normativa ha comunque assoggettato a varie cautele, connesse anche all’età dell’adottato, la possibilità per lo stesso di accedere alle informazioni sulle proprie origini, vietando al comma 7 dell’art. 28 l’accesso a dette informazioni “se l’adottato non sia stato riconosciuto alla nascita dalla madre naturale e qualora anche uno solo dei genitori biologici abbia dichiarato di non voler essere nominato, o abbia manifestato il consenso all’adozione a condizione di rimanere anonimo”.
In seguito, il d.lgs 196/2003 (Codice di protezione in materia di dati personali) all’art. 177, comma 2 ha nuovamente modificato il comma 7 dell’art. 28 l.184/1983, restringendo il divieto di accesso dell’adottato alle informazioni sulle proprie origini al solo caso di manifestazione, da parte della madre naturale, della volontà di non essere nominata nella dichiarazione di nascita, ai sensi dell’art. 30 comma 1 d.p.r 396/2000.
Tale disposizione deve essere letta in combinato disposto con quanto previsto dall’art 93, comma 2 sempre del d.lgs 196/2003, il quale ha disposto che il certificato di assistenza al parto o la cartella clinica, ove comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere riconosciuta, possano essere rilasciati, a chi vi abbia interesse, solo una volta decorsi cento anni dalla formazione del documento; in tal modo, quindi, la preclusione all’accesso non è stata considerata come illimitata, ma di fatto, la possibilità di ottenere informazioni ha trovato uno sbarramento quasi del tutto invalicabile, essendo stata sottoposta ad un limite temporale di gran lunga superiore a quello della vita umana (100 anni). Prima di tale termine, la documentazione può essere rilasciata a terzi soltanto in modo tale da non permettere l’identificazione della donna, salvo i casi indicati dall’art 92 comma 2 ossia necessità di far valere, in sede giudiziaria o in conformità alla disciplina sull’accesso ai documenti amministrativi, un diritto della personalità o altro diritto o libertà fondamentale
Il diritto a conoscere le proprie origini ha, tuttavia, cominciato ad assumere una sempre più ampia consistenza giuridica, anche alla luce del suo pieno riconoscimento a livello internazionale (art. 7 Convenzione dei diritti del fanciullo di New York del 1989, art. 30 Convenzione dell’Aja del 1983), ma soprattutto anche alla luce delle ultime pronunce della Corte EDU in merito.
Recentemente, infatti, nel noto caso Godelli vs Italia, il nostro Paese è stato condannato per violazione dell’art. 8 della CEDU, concernente il diritto alla vita privata e familiare, di cui è parte integrante il diritto all’identità personale, e quindi, il diritto alla conoscenza delle proprie origini biologiche; i giudici di Strasburgo hanno ritenuto che le disposizioni legislative italiane che tutelano l’anonimato della madre biologica non abbiano operato un adeguato bilanciamento degli interessi in gioco, privilegiando in maniera assoluta l’interesse all’anonimato della madre, a differenza, ad esempio, di quanto invece disposto dall’ordinamento francese.
Su questa scia, pertanto, la nostra Corte Costituzionale con la sentenza n. 278/2013, ha sancito l’illegittimità costituzionale parziale dell’art. 28, comma 7 della legge 184/1983, nella parte in cui ha escluso la possibilità di autorizzare la persona adottata all’accesso alle informazioni sulle proprie origini, senza avere previamente verificato la persistenza della volontà di non volere essere nominata da parte della madre biologica.
Ad essere censurata, quindi, è stata l’irreversibilità del segreto, ritenuta lesiva degli artt. 2 e 3 Cost.
Recentemente, poi, la Corte di Cassazione ha analizzato il delicato tema concernente il bilanciamento tra il diritto all’identità personale, e quindi dell’adottato a conoscere le proprie origini biologiche, e il diritto della madre all’anonimato, valutando se tale ultimo diritto debba continuare ad essere tutelato, pur in caso di decesso della donna.
Con la sentenza n. 15024/2016 la Corte Suprema, richiamandosi alla pronuncia della Corte Costituzionale, ha ritenuto che la cristallizzazione della scelta operata dalla madre per l’anonimato non possa eccedere il limite della vita della stessa, ritenendo, quindi, che il decesso della madre, determinando un affievolimento, se non addirittura una scomparsa, delle ragioni di protezione che l’ordinamento ha riconosciuto come meritevoli di tutela per tutta la vita della donna, “comporti il venir meno dell’immobilizzazione della scelta dell’anonimato della maternità biologica“.
La Corte Suprema ha, quindi, sancito la necessaria reversibilità della decisione dell’anonimato nel caso di decesso della madre naturale, ritenendo che la soluzione opposta tenderebbe a reintrodurre proprio quella “cristallizzazione” definitiva della scelta di anonimato, già oggetto di censura da parte della Consulta.
Con il d.lgs 196/2003, infatti, il legislatore ha predisposto un sistema di tutela del segreto in merito all’identità della madre naturale, commisurato ad un arco di tempo (100 anni) generalmente superiore a quello della vita umana, ritenendo non più meritevole di interesse la protezione dell’anonimato, quando sia decorso un lasso di tempo tale da far ritenere estinto il suddetto diritto.
Ciò ha portato, quindi, la giurisprudenza a considerare il diritto alla protezione dell’anonimato come diritto di natura personalissima, che, pertanto, come tutti i diritti personalissimi, non è trasmissibile e trova la sua principale causa di estinzione nella morte del titolare.
Tale orientamento è stato, poi, confermato dalla pronuncia n. 22838/2016 della Corte Suprema, con la quale gli ermellini hanno ribadito che il diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini deve essere garantito anche nel caso in cui non sia più possibile procedere all’interpello della madre naturale, in quanto non più in vita.
L’orientamento sancito dalla Corte Suprema ha cominciando a trovare applicazione anche da parte dei giudici di merito; la Corte di Appello di Catania, infatti, recentemente ha consentito l’accesso alle informazioni riguardanti la madre biologica, una volta sopraggiunta la morte della stessa; la Corte catanese ha ritenuto che, in caso contrario, il diritto del figlio di conoscere le proprie origini verrebbe del tutto vanificato, non avendo chiaramente più quest’ultimo la possibilità di verificare il persistere della volontà della propria genitrice a restare anonima, in quanto defunta.
Alla luce di quanto considerato, se ne deduce che il nostro ordinamento inizialmente ha tutelato in maniera ampia e rigorosa il diritto alla riservatezza della madre che non volesse essere nominata, concependo quest’ultimo quasi come un diritto assoluto, e tutelato, quindi, sia nei rapporti familiari, che nei confronti dei terzi; il segreto sull’adozione, infatti, era intangibile, e, pur non prevedendo un espresso divieto di conoscenza da parte dell’adottato delle proprie origini, si impediva di fatto allo stesso di poter acquisire le suddette notizie.
Inizialmente, quindi, il diritto all’anonimato veniva considerato quale situazione giuridica soggettiva destinata a prevalere rispetto a contrapposti diritti e/o interessi, in quanto diritto espressivo di valori che trascendono il singolo individuo, volto anche, e soprattutto, ad impedire che “le nascite non desiderate comportassero alterazioni di stato o, peggio ancora, interruzioni della gravidanza o soppressione di neonati.” come espresso anche dal Consiglio di Stato con la nota sentenza del 2003 n. 3402.
Il figlio che voleva ottenere informazioni in merito alle proprie origini biologiche poteva tentare, con difficoltà, sia la via pubblicistica dell’accesso agli atti amministrativi, ai sensi dell’art 24, comma 7 legge 241/1990, che quella della giurisdizione ordinaria,
Solo però con la nuova prospettiva introdotta con le due normative innanzi citate (l.149/2001; d.lgs 196/2003),e soprattutto con la sentenza della Consulta n. 278/2013, si è cominciato ad inquadrare la pretesa del figlio nell’ambito della tutela del suo diritto all’identità personale, considerato come parte integrante del libero sviluppo della sua personalità, imponendo, quindi, un necessario bilanciamento tra i due diritti in gioco, i quali coinvolgono entrambi valori costituzionali di primo rilievo.
Questa lenta evoluzione giurisprudenziale e normativa è culminata nella recentissima decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, le quali con la sentenza n. 1946/2017, colmando il vuoto legislativo, hanno sancito la possibilità per il giudice, su istanza del figlio che abbia il desiderio di conoscere le proprie origini, di interpellare la madre, che alla nascita abbia dichiarato di non voler essere nominata, per domandarle se abbia intenzione o meno di revocare la sua dichiarazione.
Gli ermellini hanno precisato che le modalità procedimentali con le quali si dovrà provvedere in tali casi andranno desunte dal quadro complessivo normativo, soprattutto tenendo conto dei principi sanciti dalla Consulta nella nota sentenza del 2013, e dovranno essere comunque idonee a garantire che la donna possa preservare la sua riservatezza e la sua dignità.
La Corte Suprema, in tale ultima decisione, ha quindi cercato di coniugare “il diritto fondamentale del figlio a conoscere la propria identità, nel rispetto del contrapposto diritto all’anonimato della madre“, precisando, comunque, che nell’ipotesi in cui la dichiarazione iniziale di anonimato fatta dalla madre non sia revocata, e questa resti ferma nella sua scelta di restare sconosciuta, dinanzi a tale circostanza il diritto del figlio di indagare sulle proprie origini continui a trovare un limite insuperabile.
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Alessandra Cautela
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