Diritto alla equa riparazione per ingiusta detenzione e diritto di difesa: un’auspicata quanto ardua conciliazione

Diritto alla equa riparazione per ingiusta detenzione e diritto di difesa: un’auspicata quanto ardua conciliazione

Sommario: Premessa – 1. Analisi del contesto normativo, interno ed internazionale – 2. Natura giuridica e presupposti applicativi – 3. Le cause ostative – 4. La posizione garantista della sentenza n. 34367/2021 – 5. Considerazione conclusive

 

Premessa

Il presente scritto trae la stura dalla pronuncia della Corte di Cassazione, sent. n. 34367 del 02/07/2021, nella quale gli Ermellini, dando sfogo alla essenziale funzione nomofilattica, ricostruisco geneticamente l’istituto della riparazione per ingiusta detenzione, disciplinato dall’art. 314 c.p.p., utilizzando come torcia l’impianto motivazionale offerto, in precedenti pronunzie, dalla medesima Corte nella qualificata composizione a Sezioni Unite, senza tuttavia distogliere lo sguardo dal compendio di garanzie fondamentali che orientano l’alveo del diritto processual-penalistico.

1. Analisi del contesto normativo, interno ed internazionale

La disamica analitica del citato dictum, impone, preliminarmente, un richiamo doveroso ai principi normativi positivizzati nel panorama codicistico. Sul piano della legislazione ordinaria, l’istituto in commento trova alloggio – come detto- nell’art. 314 c.p.p., dal seguente tenore letterale:

Chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, ha diritto a un’equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave.”

In egual modo, anche in ambito costituzionale, a seguito del ribaltamento dei principi e l’identificazione della persona quale “valore-base del sistema” [Grevi], non poteva non figurare una tutela riparatoria per la vittima di una ingiusta detenzione. Ebbene, nella cornice di garantismo, che affascia il quadro costituzionale, posta a salvaguardia della persona e delle sue libertà fondamentali, si pone la disposizione di cui al comma 4 dell’art. 24 cost., la quale, sancendo il principio di portata generale, secondo cui “le legge determina le condizioni e i modi della riparazione degli errori giudiziari”, predispone una specifica tutela dei diritti inviolabili della persona, che risulterebbero offesi dall’errata iniziativa dell’autorità giudiziaria.

Volendo allargare i confini di analisi, opportuna, nella medesima direzione, è la rappresentazione del comparto normativo sovranazionale, connotato da una spasmodica attenzione per la tutela dei profili di inviolabilità della persona umana. La ragione va rintracciata nella previsione (rectius riconoscimento) del diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione anche dalle fonti internazionali.

In particolare, l’attenzione cade sulla Convenzione EDU, firmata a Roma nel 1950, il cui art. 5 c. 5 sancisce che “ogni persona vittima di arresto o detenzione in violazione di una delle disposizioni del presente articolo ha diritto ad una riparazione”. Del medesimo tenore è l’art. 9 c. 5 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato a New York, ai sensi del quale “chiunque sia stato vittima di arresto o detenzioni illegali ha diritto ad una riparazione”.

Le cennate disposizioni, pertanto,  si mostrano finalisticamente orientate a soddisfare una eguale esigenza, ovverosia assicurare una “riparazione” ogni qual volta la restrizione della libertà personale, in base ad un giudizio ex ante, risulti disposta contra legem (C I 15/04/2005, Dalmazio c. Governo Italia), prevedendo, correlativamente, anche specifici strumenti di tutela. Il riscontro emerge dal combinato normativo di cui agli artt. 13 e 34 della Convenzione EDU, i quali, riconoscono ad ogni persona, che possa lamentare la violazione illegittima della propria libertà personale, la legittimazione ad adire, per mezzo di apposito ricorso, la Corte europea dei diritti dell’uomo che – seppur configurandosi quale strumento di ultima istanza, accessibile solo quando si siano esaurite, con esito negativo, le vie di ricorso interne- pronuncia sentenze dotate di forza vincolante ex art. 46 CEDU.

2. Natura giuridica e presupposti applicativi

Ulteriore passaggio argomentativo, prodromico alla puntuale rassegna delle cause ostative al riconoscimento del diritto garantito dall’art. 314 c.p.p. – vero fulcro del dictum in commento- non può non orientarsi sulla natura giuridica della riparazione.

A tal uopo, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, corroborato dal contributo mai banale del comparto dottrinale, l’istituto della riparazione va separato concettualmente, oltre che tecnicamente, da quello del risarcimento del danno in senso civilistico. L’aspetto che maggiormente mette in crisi la potenziale identificazione tra i due istituti è la palese difficoltà (rectius impossibilità) di configurare la fonte del diritto riparatorio, individuata nella ingiusta custodia cautelare, quale fatto illecito.

Orbene, deve giocoforza evidenziarsi come tra le due categorie dogmatiche vi è di fondo un diverso finalismo, considerato che, una volta riconosciuto al cittadino un diritto soggettivo pubblico in casi di ingiusta limitazione/privazione della libertà personale, cui corrisponde l’obbligo dello stato di eseguire una prestazione consistente nel pagamento di una somma di denaro, la riparazione è dovuta sulla base di una causale eziologicamente riferita all’esercizio di un pubblica funzione: ossia l’applicazione della legge penale.

Aderisce a tale impostazione, e correlativamente alla opportuna diversificazione tra le due species di ristoro, la Sez. IV della Cassazione nella sentenza in analisi, affermando che “l’indennizzo in questione si risolve «nell’attribuzione di una somma di denaro a riparazione di un pregiudizio lecitamente (perché secondo legge) arrecato, in contrapposizione al risarcimento del danno sempre riferibile ad un fattore causale ‘illecito” (Sez. U, n. 43 del 19/12/1995, dep. 1996, Sarnataro, Rv. 203636; Id., Sez. U, n. 1 del 13/01/1995, Castellani, Rv. 201035).

Nel solco, già tracciato, della differenziazione funzionale innanzi illustrata, si pone anche la fissazione di un tetto massimo dell’ammontare della riparazione per ingiusta detenzione, affidata alla disposizione di cui all’art. 315 comma 2 c.p.p., il quale sancisce che “l’entità della riparazione non può comunque eccedere euro 516.456,90”. Tale predeterminazione quantitativa risulta ictu oculi inconciliabile con il meccanismo risarcitorio di matrice civilistica, atteso che lo stesso, avendo come ratio il risanamento del pregiudizio economico subito, mediante il ripristino dello status quo ante, non potrebbe digerire limiti di sbarramento aprioristicamente fissati ex lege.

L’indagine circa la natura giuridica del diritto de quo, involge inevitabilmente il perimetro dei presupposti applicativi, individuabili in due distinte fattispecie generatrici, tenute distinte dalle disposizioni dell’art. 314 c.p.p., operanti a compartimenti stagni.

La prima, positivizzata nel comma 1 della detta norma, raggruppa le ipotesi di privazione della libertà personale imposta legittimamente ma risultante, ex post, non dovuta in ragione di un accertamento dell’estraneità dell’imputato in ordine ai fatti contestatigli, contenuto in apposita sentenza di proscioglimento quale epilogo dell’iter procedimentale. Tale fattispecie, definibile di ingiustizia sostanziale, si lega indissolubilmente alle formule assolutorie terminative tipiche, tanto in facto che in iure, stante la progressiva e piena equiparazione tra esse. Al riguardo, il principio di tassatività che da sempre governa le dette pronunce, vincolando la configurabilità – o meno- della fattispecie di ingiustizia sostanziale, risulta progressivamente scardinato a fronte di una serie di declaratorie di incostituzionalità, da parte del giudice delle leggi, che hanno conseguentemente ampliato il ventaglio delle ipotesi di proscioglimento legittimanti l’accesso al “beneficio”.

La seconda fattispecie, ex adverso, prescinde in buona sostanza dall’accertamento nel merito della questione, concentrandosi esclusivamente sulla sussistenza o meno dei presupposti applicativi della misura cautelare custodiale. In altre parole si configura allorquando risulti accertato, con decisione irrevocabile, che la misura sia stata emessa o mantenuta in assenza delle condizioni di legittimità di cui al libro IV del codice di rito. Essa, pertanto, ingloba tutte quelle ipotesi in cui la primigenia custodia cautelare sia qualificabile, sempre a seguito del vaglio eseguito ex post, come palesemente illegittima.

3. Le cause ostative

L’operatività dell’istituto riparatorio necessita dell’accertamento, oltre che del requisito – non tanto- “positivo” della ingiusta/illegittima privazione della libertà personale, anche di uno di carattere negativo, il quale prescrive che l’instante non deve aver dato o concorso a dare causa alla detenzione con dolo o colpa.

Si fonda, inopinabilmente, sul c.d. principio di autoresponsabilità a norma del quale soggetto passivo di un pregiudizio è soltanto colui che non lo abbia potuto evitare e non abbia contribuito a determinarlo.

Il segmento psicologico trova ampio riconoscimento nel dettato normativo dell’art. 314 codice di rito, il quale esclude l’ingiustizia della detenzione qualora l’istante “via abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave”.

In merito alle cennate componenti intellettive è stato chiarito (Sez. U, n. 43 del 19/12/1995, dep. 1996, Sarnataro, Rv. 203636) che «dolosa deve giudicarsi non solo la condotta volta alla realizzazione di un evento voluto e rappresentato nei suoi termini fattuali (indipendentemente dal fatto di confliggere o meno con una prescrizione di legge), difficile da ipotizzare in fattispecie del genere, ma anche la condotta consapevole e volontaria che, valutata con il parametro dell’Id quod plerumque accidit, secondo le regole di esperienza comunemente accettate, sia tale da creare una situazione di allarme sociale e di doveroso intervento dell’autorità giudiziaria a tutela della comunità, ragionevolmente ritenuta in pericolo», sicché l’essenza del dolo sta, appunto, «nella volontarietà e consapevolezza della condotta con riferimento all’evento voluto, non nella valutazione dei relativi esiti, circa i quali non rileva il giudizio del singolo, ma quello del giudice del procedimento riparatorio».

Sul versante parallelo «è colposo il comportamento cosciente e volontario, al quale, senza volerne e senza rappresentarsene gli effetti (anche se adottando l’ordinaria diligenza essi si sarebbero potuti prevedere), consegue un effetto idoneo a trarre in errore l’organo giudiziario»: in tal caso, la condotta del soggetto, connotata da profili di colpa volta per volta rinvenibili (negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti etc.) «pone in essere una situazione tale da dare una non voluta ma prevedibile […] ragione di intervento dell’autorità giudiziaria con l’adozione del provvedimento cautelare, ovvero omessa revoca della privazione della libertà» (Sez. U, n. 43 del 19/12/1995, dep. 1996, Sarnataro, Rv. 203636). E in tale ultimo caso la colpa deve essere “grave“, come esige la norma, «connotata, cioè, da macroscopica, evidente negligenza, imprudenza, trascuratezza, ecc., tale da superare ogni canone di comune buonsenso» (Sez. U, n. 43 del 19/12/1995, dep. 1996, Sarnataro, Rv. 203636).

Il profilo colposo, idoneo ad impedire l’accesso al beneficio, può assumere una duplice veste, processuale e/o extra-processuale, non ancorate al rigido principio di tassatività, ma correlate a specifici elementi fattuali e concreti comportamenti, i quali devono essere oggetto di oculata analisi da parte dell’organo giudicante.

Limitando l’angolo di visuale alla precipua doglianza censurata dal ricorrente, invocante l’intervento ermeneutico risolutivo della Corte di Cassazione, si riconosce esclusiva attenzione alla connotazione processuale della colpa e l’intricata relazione con le concrete estrinsecazioni del diritto di difesa.

L’inscindibile binomio precetto dettato normativo-pronuncia giurisprudenziale traccia il confine del diritto costituzionalmente garantito, il quale – piaccia o no- finisce per annettere la facoltà del c.d. silenzio, così come della reticenza, le quali costituendo, pertanto, modalità e contenuti dell’esercizio concreto del diritto di difesa, astrattamente assumono neutra rilevanza ai fini della riconducibilità all’alveo della colpa, rilevante ai fini dell’esclusione dell’indennizzo.

Sul punto, la giurisprudenza (per il profilo del silenzio cfr., ex plurimis, Sez. 3, n. 29967 del 02/04/2014, Bertuccini, Rv. 259941; Sez. 3, n. 44090 del 09/11/2011, Messina e altro, Rv. 251325; Sez. 4, n. 40902 del 23/09/2008, Locci e altro, Rv. 242756; per il profilo della reticenza cfr. ex multis, Sez. 4, n. 7296 del 17/11/2011, Berdicchia, Rv. 251928; Sez. 4, n. 4159 del 09/12/2008, dep. 2009, Lafranceschina, Rv. 242760; Sez. 4, n. 47041 del 12/11/2008, Calzetta e altro, Rv. 242757) si assesta alla lettera della norma, atteso che, in sede di interrogatorio, l’art. 64 comma 3 lett. b) riconosce all’indagato, salvo quanto disposto dall’articolo 66, comma 1, la facoltà di non rispondere ad alcuna domanda.

Senza smentire quanto sin ora argomentato, qualora l’esercizio concreto ed effettivo di tali facoltà dovessero acquistare efficacia determinante nella causazione di una erronea valutazione eziologicamente legata all’irrogazione ovvero mantenimento in auge di un provvedimento privativo della libertà personale, si giungerebbe a conclusioni diametralmente opposte, aprendosi le porte della colpa e con essa l’esclusione dell’indennizzo.

Tornando a quanto ut supra accennato, il tutto viene, ergo, rimesso alla profondità della valutazione del giudice il quale, seguendo un iter logico-motivazionale autonomo rispetto a quello del processo penale, dovrà, giustappunto motivare, con contenuti pregnanti ed esaustivi, sulla concreta incidenza degli elementi empirici sull’evento detenzione.

In altri termini, il giudice della riparazione ha il potere/dovere di procedere ad autonoma valutazione delle risultanze e di pervenire, eventualmente, a conclusioni divergenti da quelle assunte dal giudice penale: ed esempio, circostanze oggettive accertate in sede penale o le stesse dichiarazioni difensive dell’imputato, valutate dal giudice della cognizione come semplici elementi di sospetto, e, in quanto tali, insufficienti a legittimare una pronuncia di condanna, ben potrebbero essere considerate dal giudice della riparazione idonee ad integrare la colpa grave ostativa al diritto all’equa riparazione; mai, però, in sede di riparazione per ingiusta detenzione, può essere attribuita decisiva importanza, considerandole ostative al diritto all’indennizzo, a condotte escluse o ritenute non sufficientemente provate con la sentenza di assoluzione (cfr. Sez. 4, n. 1573 del 18/12/1993, dep. 1994, Tinacci, Rv. 198491; Sez. 4, n. 10684 del 26/01/2010, Morra, non mass., pp. 3-4).

4. La posizione garantista della sentenza n. 34367/2021

L’aspetto valutativo, inscindibilmente legato all’onere motivazionale, costituisce il profilo maggiormente attenzionato dai Giudici di Piazza Cavour nell’operazione nomofilattica tesa a cassare la sentenza pronunciata dalla Corte d’Appello territorialmente competente, la quale, facendo mal governo delle direttive de iure condito fornite dalla Suprema Corte, in tema di colpa processuale, valorizzava negativamente – ponendolo a giustificazione della negazione dell’indennizzo- il silenzio serbato dall’indagato in sede di interrogatorio di garanzia.

Il fatto anteposto al diritto!

In direzione antitetica, infatti, deve opportunamente rilevarsi, anche se quasi sempre dimenticato, che il silenzio – come ampiamente riportato- assurge a facoltà dell’indagato, nonché componente imprescindibile del più ampio diritto di difesa.

Ragion per cui, senza obliterare le imprescindibili garanzie difensive, il silenzio – ritiene la Corte- non può di per sé ostare al riconoscimento all’indennizzo per ingiusta detenzione.

5. Considerazione conclusive

Desta non poche perplessità il clamore pioneristico generato dalla pronuncia in commento, seppur aderente all’ormai noto – o così dovrebbe essere- dato positivo, il quale, purtroppo, troppo spesso viene svilito dai giudici di merito, ammaliati dal dato empirico, per dover poi essere rivitalizzato dall’organo di legittimità.

Piero Calamandrei, volgendo lo sguardo alla garanzia costituzionale, riteneva che “la riparazione dev’essere non un soccorso discrezionale, ma un vero e proprio risarcimento obbligatorio: non un appello alla pietà, ma l’esercizio di un diritto all’indennizzo di tutto il danno effettivamente sofferto” (La disgrazia di essere innocenti, da “Lo stato siano noi”).


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