Diritto amministrativo e reato: il ruolo dell’atto, le patologie, le fattispecie di concussione e corruzione

Diritto amministrativo e reato: il ruolo dell’atto, le patologie, le fattispecie di concussione e corruzione

Il diritto penale è il diritto del fatto: le fattispecie incriminatrici sono costruite dal legislatore sul dato empirico, mercé la collocazione del fatto di reato nella realtà fenomenica. Se questo è vero per i reati cd. naturalistici, di cui il delitto di omicidio è l’esempio più immediato, la descrizione materiale non è sufficiente per i reati cd. tecnici, in cui l’individuazione del fatto necessita della mediazione di concetti giuridici extrapenali, i quali possono addirittura assurgere ad elemento costitutivo del fatto tipico.

Nella sistematica del codice Rocco assumono una posizione di preminenza le categorie giuridiche provenienti dall’ordinamento amministrativo. A conferma di ciò, sia sufficiente notare che i delitti offensivi dei beni giuridici “generici” della pubblica amministrazione (per tali intendendosi il buon andamento, l’imparzialità, il prestigio, l’immagine) sono collocati nel titolo II del libro II, quindi immediatamente dopo, in ottica di decrescente rilevanza del bene offeso, rispetto ai delitti contro la personalità dello Stato: bene giuridico, quest’ultimo, in posizione di primazia agli occhi del legislatore autoritario.

Ne consegue che molte fattispecie delittuose sono descritte attraverso il riferimento a concetti giuridici amministrativi: in quest’ambito, terreno elettivo di indagine è rappresentato dai delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A., di cui al capo I (artt. 314 ss. c.p.).

Preliminare è, allora, l’individuazione della portata che le nozioni amministrative assumono nell’ ordinamento penale rispetto a quello di provenienza. A tali fini, sono state prospettate diverse interpretazioni. Secondo un primo orientamento, il diritto penale assolverebbe una funzione meramente sanzionatoria di illeciti che sono già tali negli altri settori dell’ordinamento; conseguentemente, i concetti extrapenali richiamati dalla fattispecie legale assumono l’identico significato che li connota nell’ ordinamento di provenienza. Alla teoria sanzionatoria, criticata soprattutto in punto di disconoscimento dell’autonomia del sistema penale, si è contrapposto l’orientamento autonomista, secondo cui il diritto penale non sarebbe influenzato dal significato attribuito ai concetti giuridici dagli altri settori dell’ordinamento. Il giudice penale disporrebbe, invero, di strumenti autonomi di interpretazione, e il rinvio ad altri sistemi sarebbe meramente formale.

Dottrina e giurisprudenza maggioritarie hanno mostrato di privilegiare una soluzione eclettica, secondo cui i concetti mutuati dagli altri sistemi (e, in particolare, per quel che qui interessa, dall’ ordinamento amministrativo) non vengono assunti tali e quali nel diritto penale, ma vengono sottoposti ad una verifica di compatibilità ed eventualmente plasmati ed adattati alle esigenze di criminalizzazione.

Tanto premesso, le principali categorie amministrative che vengono in gioco sono tre: la nozione di pubblica amministrazione, la qualifica di pubblico ufficiale e la nozione di atto amministrativo.

Quanto alla prima, nel codice penale essa non si riferisce alla sola titolarità di funzioni amministrative stricto sensu ma si estende a tutte le pubbliche funzioni imputabili allo Stato o ad altro ente pubblico. In quest’ambito un quesito interessante attiene alla possibilità (o meno) di considerare P.A. in senso penalistico, con applicazione del relativo regime, anche il cd. organismo di diritto pubblico: trattasi di ente che, pur potendo avere veste societaria e conseguentemente essere valutato alla stregua di soggetto privato alla luce del diritto interno, è comunque tenuto alla procedimentalizzazione dell’attività secondo le regole dell’evidenza pubblica, se e nella misura in cui sia munito di personalità giuridica, soddisfi un interesse generale non commerciale od industriale e sia sottoposto a controllo e/o finanziamento da parte dello Stato od altro ente pubblico.

La tesi prevalente fa leva sulla nozione cangiante e sostanziale di P.A. per ammettere l’assoggettabilità allo statuto penale dell’organismo di diritto pubblico, anche allorquando esso assuma veste privatistica, ma limitatamente all’attività espletata in veste di stazione appaltante; per ogni altro ed eventuale profilo l’ente de quo sarà considerato, invece, soggetto privato.

Quanto alla nozione di pubblico ufficiale rispetto all’ attività propriamente amministrativa, nell’ art. 357 c.p. il legislatore ha mostrato di privilegiare una concezione oggettiva di pubblica funzione amministrativa, incentrata sull’ esercizio di poteri autoritativi e a prescindere dal rapporto di immedesimazione organica con l’ente di appartenenza. Ciò che rileva è che, dal punto di vista esterno, l’attività in parola sia retta da norme di diritto pubblico; in prospettiva interna, che essa implichi l’esercizio di poteri deliberativi, certificativi e autoritativi.

La nozione oggettiva si rinviene anche nella definizione dell’incaricato di pubblico servizio, che ex art. 358 svolge compiti e attività disciplinati nelle stesse forme della pubblica funzione seppur in assenza di poteri autoritativi o certificativi. È nozione residuale, e la relativa qualifica può essere rivestita anche da soggetti privati.

Ma è soprattutto intorno alla categoria dell’atto amministrativo che sono ricostruite molte delle norme di parte speciale. Occorre premettere che il legislatore penale fa riferimento, talvolta, al provvedimento (es. art. 650); talaltra all’ atto (art. 319); ancora, infine, genericamente alle pubbliche funzioni esercitate (art.323). Da tanto emerge che nell’ ordinamento penale la nozione di atto è ben più estesa rispetto al corrispondente significato amministrativo, perché indicativa di qualunque attività amministrativa, anche interinale; non solo, dunque, quella che è diretta espressione di potere autoritativo, ma altresì quella intermedia e finanche quella paritetica (purché connessa all’ interesse pubblico).

Nella costruzione delle fattispecie incriminatrici, l’atto amministrativo può assumere rilevanza esterna od interna. Nel primo caso, viene in considerazione come fonte sublegislativa che integra il contenuto precettivo delle norme penali in bianco, oltre che come requisito di procedibilità dell’azione penale o causa di estinzione del reato. Nel secondo caso, l’atto può rappresentare la fonte di una situazione scriminante, una circostanza ovvero (ed è questa l’ipotesi di gran lunga più importante) un elemento della fattispecie di reato.

In quest’ultimo caso, è possibile effettuare un ulteriore distinguo a seconda del ruolo che l’atto svolge nella fattispecie incriminatrice. Invero, l’atto è elemento costitutivo del fatto tipico nei cd. reati d’atto, rappresentando esso stesso la condotta delittuosa o una modalità della stessa. Può, altresì, costituire l’oggetto del reato (reati su atto): il classico esempio è rappresentato dai delitti di falso. L’atto può, infine, essere un presupposto del fatto tipico: negativo, se la fattispecie incriminatrice è integrata solo ove l’atto sia assente (l’esempio emblematico è dato dalla costruzione edilizia in assenza di permesso per costruire); positivo, se l’atto deve essere stato emanato perché sia configurabile il reato (ad esempio, in ipotesi di inosservanza del provvedimento dell’autorità).

Orbene: posto che in tutti questi casi l’atto entra nella fattispecie, occorre esaminare le conseguenze della patologia dell’atto amministrativo, in punto di configurabilità del reato nel caso concreto; conseguenze che, a ben vedere, saranno diverse a seconda del tipo di vizio che viene in considerazione. Giova premettere che l’indagine si incentrerà soprattutto sui reati d’atto, ove l’atto illegittimo, rappresentando un elemento costitutivo del fatto, è oggetto dell’accertamento da parte del giudice. Viceversa, nei reati su atto che si sostanziano nei delitti di falso, l’atto viene in considerazione non in quanto illegittimo, bensì perché oggetto di falsificazione (immutatio veri): illegittimità e falsificazione operano su due piani diversi. Infine, i reati su presupposto d’atto non saranno oggetto dell’odierna trattazione, atteso che qui il tema dell’illegittimità si interseca con l’istituto della disapplicazione: in estrema sintesi, la giurisprudenza ne ha escluso la predicabilità ai casi di presupposto negativo, per l’inevitabile effetto in malam partem che ne conseguirebbe. Residua, invero, un limitato margine di applicazione nei casi in cui l’atto sia presupposto positivo della condotta: il caso è quello contemplato dall’art. 650, in cui la legittimità dell’atto (la norma richiede che il provvedimento sia stato “legalmente dato dall’Autorità”) è elemento costitutivo della fattispecie, che può essere valutato dal giudice penale senza indebita interferenza in spazi riservati alla P.A.

Tanto premesso, occorre precisare che la patologia dell’inesistenza non crea particolari problemi interpretativi: l’atto inesistente è affetto da un vizio talmente grave da impedirne la qualificazione giuridica e la sussunzione nel modello legale.

In tal caso, il reato d’atto (ma analoghe conclusione possono estendersi ai reati su atto) è inconfigurabile. Occorre, a tal fine, far leva sul disposto dell’art. 49 c.2 c.p.: la punibilità è esclusa per l’impossibilità dell’evento dannoso o pericoloso, dovuta all’inidoneità dell’azione (nei reati d’atto) ovvero all’inesistenza dell’oggetto (nei reati su atto). Ma l’inconfigurabilità del reato può essere, altresì, spiegata sul presupposto che l’atto, proprio perché materialmente inesistente, appare radicalmente inidoneo a fondare una manifestazione della volontà della P.A.

Il discorso si complica nelle ipotesi in cui l’atto amministrativo sia affetto da nullità: poiché l’atto nullo esiste, a rigore dovrebbe conseguirne la configurabilità del reato.

Invero, una soluzione di tal fatta è ostacolata dal principio quod nullum est, nullum producuit effectum; occorre, altresì, considerare che la nullità può derivare da vizi particolarmente gravi, quali il difetto assoluto di attribuzione o la mancanza di elementi essenziali, che prima della riforma della L. 241/1990 (con l’inserimento dell’art. 21 septies) venivano considerati vizi di inesistenza dell’atto.

A ben vedere, l’atto nullo produce sempre, in quanto materialmente esistente, un’efficacia reale, anche in ipotesi di inefficacia giuridica nell’ordinamento di provenienza. La soluzione al problema non può, allora, essere aprioristica: occorre, cioè, valutare se detta efficacia materiale sia idonea a ledere il bene giuridico protetto dalla fattispecie incriminatrice. L’idoneità offensiva sarà tendenzialmente più evidente in ipotesi di provvedimenti restrittivi, capaci di arrecare un danno al privato in virtù della semplice emanazione (si pensi ad un ordine di demolizione). Ma non può escludersi un’efficacia materiale anche per il provvedimento ampliativo nullo, attesa la sua idoneità ad attribuire un vantaggio.

La nullità non rileva, invece, nei reati su atto, sebbene un temperamento a detta irrilevanza proviene dalla giurisprudenza di legittimità, con riferimento alla figura del falso innocuo: in tal caso, la falsità è inidonea a ledere gli interessi connessi alla fede pubblica, con conseguente applicazione dell’art. 49 c. 2 c.p.

Infine, per quanto attiene all’annullabilità, nulla quaestio: il provvedimento annullabile è pur sempre produttivo di effetti, quindi il vizio non incide sulla configurabilità del reato. Ipotesi peculiare è quella dell’illegittimità non invalidante ex art. 21 octies c. 2, L. 241/90: il giudice penale, pur non potendo invocare la diretta applicazione della disposizione de qua, considererà il reato inconfigurabile se il vizio meramente formale di cui sia affetto l’atto lo renda, in concreto, inidoneo a ledere il bene giuridico tutelato dalla fattispecie incriminatrice.

Nell’attuale panorama normativo la tematica dei reati d’atto e del ruolo che l’atto amministrativo riveste nelle fattispecie delittuose ha assunto un rilievo preminente. Il riferimento è, in particolare, ai delitti di concussione e corruzione, modificati dalla L. 190/2012, cd. legge anticorruzione. La riforma è indicativa della presa d’atto da parte del legislatore (sulla scorta, altresì, delle indicazioni europee) del cambiamento che, nel tempo, ha interessato i fenomeni concussivi e corruttivi: la tradizionale “compravendita” degli atti della P.A. è stata, progressivamente, sostituita da un’antigiuridicità diffusa, meno evidente ma più penetrante; si consideri, inoltre, il proliferare di situazioni di sempre maggiore e allarmante inclinazione dei privati a trarre benefici dai fallimenti del sistema.

La ratio della riforma è, allora, evidente: reprimere i fenomeni di deviazione dell’attività amministrativa dall’interesse pubblico, non solo quando questa si sostanzi nell’adozione di atti illegittimi bensì, in generale, ogniqualvolta la pubblica funzione venga asservita all’interesse egoistico.

Giova premettere che tanto per la concussione, quanto per la corruzione, la categoria che viene in considerazione è quella dei reati d’atto: in entrambi i casi l’atto rappresenta una modalità della condotta.

Si procederà esaminando, preliminarmente, la struttura dei reati de quibus, onde successivamente procedere ad individuare il rilievo dell’atto e delle sue patologie sulla relativa configurabilità.

Il reato di concussione è stato oggetto di penetranti modifiche: dal perimetro dell’art. 317 è stato espunto il riferimento all’abuso induttivo, il quale costituisce ora una figura autonoma di reato (art. 319 quater, “Induzione indebita a dare o promettere utilità”), in cui il privato assume le vesti di correo.

L’attuale formulazione dell’art. 317 contempla, allora, il solo “abuso costrittivo” del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio: dalla littera legis traspare che tra l’abuso di qualità o poteri e la costrizione sussiste un rapporto di causa ad effetto, mentre la promessa o dazione indebita di denaro o altra utilità rappresenta il risultato della condotta. In tale contesto, sia il privato che la P.A. assumono la qualità di persone offese dal reato: si tratta di un reato plurioffensivo, lesivo al contempo dell’imparzialità della P.A. e della libertà di autodeterminazione (oltre che del patrimonio) del privato.

Sebbene l’art. 317 non menzioni espressamente l’atto amministrativo, esso viene comunque in considerazione nel perimetro delittuoso nel senso di attività posta in essere dal pubblico ufficiale al fine di costringere il privato alla dazione (o promessa): l’atto è, in definitiva, lo strumento con cui il pubblico ufficiale assoggetta il privato al proprio volere. Non trattandosi di atto giuridico stricto sensu ma di attività, il profilo della patologia non può rilevare: più che di illegittimità appare allora più corretto parlare di illegalità dell’atto, consistente nell’asservimento della pubblica funzione all’interesse egoistico del pubblico ufficiale.

Le fattispecie corruttive configurano, invece, un reato a concorso necessario, in cui oggetto di sanzione è il pactum sceleris , cioè il mercimonio della pubblica funzione. Il bene giuridico tutelato è anche qui l’imparzialità (oltre che il buon andamento) della P.A., nel senso di terzietà ed equidistanza dagli interessi privati.

Il codice disegna due ipotesi di corruzione: impropria (art. 318) e propria (art. 319).

L’art. 318 è stato oggetto di una profonda modifica ad opera della L. 190/12: la vecchia corruzione per un atto conforme ai doveri d’ufficio è stata sostituita dall’attuale “corruzione per l’esercizio della funzione”. La nuova formulazione vale a mettere in luce il fatto che il disvalore non s’innesta tanto sull’atto dell’ufficio, quanto sull’accordo corruttivo che manifesta l’asservimento della funzione ad interessi settoriali (quand’anche coincidenti con quello pubblico). La fattispecie è, allora, sganciata dall’individuazione di un atto oggetto di mercimonio, con conseguente estensione dell’area della punibilità alle fattispecie corruttive in cui l’atto non sia individuabile.

In tale contesto, non viene in considerazione la patologia dell’atto amministrativo (la cui presenza è solo eventuale) che è, in ogni caso, coerente con le disposizioni legali.

Non così per l’ipotesi di corruzione propria ex art. 319 c.p., in cui l’accordo corruttivo ha ad oggetto il compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio, ovvero l’omissione o il ritardo nell’adozione di un atto doveroso. Giova rilevare che, ad oggi, risulta essere maggioritaria l’interpretazione estensiva della “contrarietà” ai doveri d’ufficio: vi rientra non solo la violazione di legge o regolamento ma, altresì, la violazione dei doveri di imparzialità, terzietà, buon andamento che informano l’agere amministrativo.

La patologia dell’atto, in via generale, non assume rilevanza: è il mercimonio della pubblica funzione l’oggetto di disvalore, non l’adozione dell’atto in sé, la cui invalidità non potrebbe per ciò solo incidere –escludendola- sulla configurabilità del reato. Piuttosto, l’illegittimità vale ad aggravare il trattamento sanzionatorio rispetto alle vecchie ipotesi di corruzione propria.

Ciononostante, dalla formula “atto del suo ufficio” utilizzata dal legislatore si desume che il pubblico ufficiale deve essere investito del potere di adottare l’atto, e in ogni caso appartenere all’ente avente competenza a tal fine. Ne consegue che l’insussistenza del potere di adozione dell’atto, traducendosi in difetto assoluto di attribuzione, renderebbe inconfigurabile il reato, poiché la pubblica funzione non potrebbe essere compromessa.

È stato, infine, rilevato come anche le nullità macroscopiche possano incidere sulla configurabilità del reato, atteso che potrebbero far dubitare della serietà dell’accordo corruttivo.

Da quanto premesso, consegue che il discrimine tra le fattispecie corruttive e quelle di concussione può essere rinvenuto su due piani distinti. Il primo, individuato dalla giurisprudenza di legittimità, è quello del rapporto tra il soggetto pubblico ed il soggetto privato: nella concussione il privato si trova in posizione di soggezione rispetto al potere abusivo del pubblico ufficiale, il quale ultimo attraverso violenza o (più spesso) minaccia pone il suo interlocutore davanti all’alternativa secca di subire il male minacciato o dare (o promettere di dare) quanto richiesto. È evidente la forte compressione della libertà di autodeterminazione, pur se non del tutto annullata.

La corruzione è, invece, contraddistinta dalla par condicio contractualis: le parti si trovano in posizione paritaria e liberamente addivengono alla negoziazione del contenuto dell’accordo criminoso.

Il secondo elemento di differenziazione tra art. 317 da un lato e artt. 318-319 dall’altro, attiene al ruolo dell’atto amministrativo nella fattispecie criminosa. Invero, nella concussione non rileva l’atto bensì l’attività; nella corruzione l’atto rileva ma unicamente in via secondaria, come oggetto dell’accordo delittuoso, non come condotta in sè. In altri termini: l’atto non entra nella struttura del reato poiché il disvalore si incentra sul pactum sceleris, e con la sua conclusione coincide il momento consumativo. Cionondimeno, essendo l’atto una proiezione di quell’accordo, esso appare idoneo a spostare in avanti il momento consumativo del delitto (cd. Reati a consumazione prolungata).

In conclusione, si rileva come l’intento del legislatore della riforma sia stato quello di reprimere la corruzione dilagante nel nostro Paese attraverso un inasprimento del trattamento sanzionatorio. Emblematica è stata la riforma della corruzione propria ma, soprattutto, la previsione della punibilità del privato nell’induzione indebita a dare o promettere utilità, che senza dubbio è una delle novità di maggior rilievo. A tal proposito, pare che il legislatore abbia voluto costruire una fattispecie “ibrida”, una sorta di situazione mediana tra i delitti di corruzione e concussione. La stessa collocazione sistematica della disposizione è indicativa in tal senso: la nuova induzione non è stata collocata dopo l’art. 317 (in cui pur in precedenza era contemplata) bensì a seguito delle fattispecie corruttive. Ciononostante, resta l’elemento dell’abuso di qualità o poteri, di per sé inconciliabile con la corruzione, in cui opera la par condicio contractualis; abuso che risulta parimenti incompatibile con la punibilità del privato, prevista dal co. 2 art. 319 quater. 

La giurisprudenza di legittimità invoca, al tal fine, la prospettiva di ottenere un vantaggio indebito, che animerebbe il privato nel delitto di cui all’art. 319 quater e che ne giustificherebbe la sanzione; ma di questo non c’è traccia nella norma in esame.

Altra incongruenza attiene al trattamento sanzionatorio del riformato delitto di corruzione impropria. Nel momento in cui la fattispecie di reato viene sganciata dal compimento del singolo atto, essa viene integrata dall’ asservimento della funzione all’interesse di parte, quindi una forma di disponibilità futura e indiscriminata, generica perché non collegata ad uno specifico atto da compiere e dunque ben più insidiosa rispetto alla condotta di chi promette di compiere un unico e specifico atto, seppur contrario ai doveri d’ufficio. Nondimeno, la pena comminata per il delitto che, agli occhi di chi scrive, pare essere di maggior disvalore è di gran lunga inferiore rispetto alla corruzione propria: basti pensare che il massimo edittale di cui all’art. 318 coincide con il minimo edittale comminato nell’ipotesi di cui all’art. 319.

Pare, allora, che gli interventi normativi succedutisi nel tempo, e miranti unicamente ad inasprire il trattamento sanzionatorio o ad incrementare il numero delle fattispecie delittuose esistenti, non siano stati idonei a rimediare alle diverse antinomie già presenti in subiecta materia; anzi, avrebbero contribuito ad accentuarle.


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