Diritto amministrativo: fonti e principi
Amministrazione non è di per sé un concetto giuridico. Il termine, lessicalmente inteso, indica, la cura in concreto di interessi. Esso è riferibile dunque, ad un qualsiasi soggetto, persona giuridica, pubblica o privata, ovvero un individuo, che svolge un’attività rivolta alla soddisfazione di interessi correlati ai fini che il soggetto si propone di perseguire[1].
La pubblica amministrazione costituisce il complesso di tutte le strutture burocratiche, di una collettività organizzata in forma di stato.
Il diritto amministrativo è infatti, la disciplina giuridica della pubblica amministrazione nella sua organizzazione, nei beni e nell’attività ad esse peculiari e nei rapporti che, esercitando tale attività, si instaurano con gli altri soggetti dell’ordinamento.
Il termine amministrazione, infatti, può essere inteso secondo due accezioni: in senso oggettivo, esso sta ad indicare la funzione amministrativa, quale cura concreta degli interessi pubblici e regolata da norme giuridiche; in senso soggettivo, equivale, invece, ad esprimere la sede dell’attività amministrativa, ovvero l’attività posta in essere dalle persone giuridiche pubbliche e dagli organi che hanno competenza alla cura degli interessi dei soggetti pubblici[2].
La Costituzione fa riferimento al concetto di amministrazione in senso soggettivo per disciplinare, pur senza darne precise definizioni, la materia dell’organizzazione amministrativa.
L’organizzazione in senso soggettivo, rappresenta l’organizzazione amministrativa.
L’articolo 97 Cost., dispone che “i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo da assicurare il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”[3].
La necessità di introdurre nella Costituzione norme relative all’amministrazione pubblica è stata motivata dall’esigenza di garantire una certa indipendenza ai funzionari, finalizzata ad avere un’amministrazione obiettiva della cosa pubblica e non un’amministrazione di parte; creare un’organizzazione che giovasse alla individuazione delle responsabilità, nel senso che la responsabilità non fosse definita soltanto teoricamente ma in concreto precisata.
L’art. 97, per pacifica interpretazione, pone una riserva di legge relativa.
A supporto della relatività si utilizzano due argomenti: quello letterale, posto che l’art. 97 usa la formula “secondo disposizioni di legge”, ciò implicando che gli uffici non sono organizzati direttamente dalla legge, ma seguendo i criteri stabiliti dalla legge; ed uno di buon senso, perché non avrebbe pratica possibilità e sarebbe controproducente pretendere che anche le regole di organizzazione e di funzionamento più minute e particolari, più interne agli uffici, venissero tutte formulate dal Parlamento[4].
Il rapporto politica ed amministrazione costituisce l’aspetto fondamentale della vita pubblica, esistendo un inscindibile nesso tra volontà di governo e scelte dell’amministrazione. Un ordinamento è tanto più democratico, quanto più tali scelte condizionano in modo efficiente ed efficace l’azione pubblica, nel rispetto dei principi inviolabili di libertà e dei doveri inderogabili di solidarietà disciplinati in Costituzione. Tale stretta correlazione è confermata dall’introduzione del meccanismo dello spoil-system[5] (art. 19 d. lgs. n. 165/2001[6]), cioè della rimozione automatica, in caso di cambio di direzione politica, (introdotta anche ai livelli regionali) degli incarichi dirigenziali per la quale, proprio in nome dei principi di buon andamento ed imparzialità, si pretendono la conformità della relativa procedura al principio di legalità, il rispetto delle garanzie del giusto procedimento e la motivazione del provvedimento di rimozione: tutte garanzie indefettibili per evitare che la libertà nella scelta del personale dirigenziale operata dal potere politico sconfini nell’arbitrio, negli interessi di parte, nella discriminazione[7].
E’ evidente come da tale disposizione pone limiti anche al legislatore, il quale può incidere sull’amministrazione, solo dettando regole per la disciplina della sua organizzazione.
Dalle disposizioni costituzionali che riguardano, direttamente o indirettamente, la Pubblica Amministrazione, è possibile desumere l’esistenza di diversi modelli di amministrazione, nessuno dei quali può assumere il rango di modello principale.
Ai sensi dell’art. 98 Cost., infatti, l’amministrazione appare direttamente legata alla collettività nazionale, al cui servizio i suoi impiegati sono posti.
Il modello espresso dall’art. 5 Cost., sviluppa il disegno del decentramento amministrativo e della promozione delle autonomie locali, capaci pertanto di esperire un proprio indirizzo politico.
Ancora diverso, è lo schema presupposto dall’art. 97 Cost., che mira sottolineare un’immagine di amministrazione che non è braccio esecutivo del potere legislativo del governo, né quella di un’amministrazione completamente autonoma e acefala[8].
L’amministrazione, così delineata, è in netta antitesi rispetto al modello accentrato o, comunque, rispetto all’idea di amministrazione servente del governo che pare scaturire dall’art. 95[9] della Costituzione, ove si dispone che il Presidente del Consiglio dei Ministri dirige la politica generale del governo e ne è responsabile, mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri.
In particolare, il Governo, insieme al Parlamento, esprime un indirizzo, qualificato dall’art. 95 Cost., come indirizzo politico ed amministrativo.
L’indirizzo politico può definirsi come la direzione politica dello Stato, e quindi, come quel complesso di manifestazioni di volontà in funzione del conseguimento di un fine unico, le quali comportano la determinazione di un impulso unitario e di coordinazione, affinché i vari compiti statali si svolgano in modo armonico, mentre l’indirizzo amministrativo, che deve comunque essere stabilito nel rispetto dell’indirizzo politico, consiste nella prefissione di obiettivi dell’azione amministrativa.
I diversi modelli di amministrazione delineati dalla Carta costituzionale sono tutti riconducibili al rapporto tra amministrazione, governo e politica.
Sebbene il momento amministrativo, non sia totalmente estraneo al governo, non sempre appare netta la linea di demarcazione tra apparato amministrativo e politico.
La pubblica amministrazione, a sua volta, non può essere disegnata come mero strumento di attuazione delle direttive del Governo: difatti, l’amministrazione deve essere orientata al raggiungimento dei fini delineati in sede politica e, allo stesso tempo, sottratta ai condizionamenti di tipo politico, dal momento che essa è tenuta ad agire secondo criteri di imparzialità, buon andamento e trasparenza.
Lo stato, come istituzione, si autolegittima e sopravvive per il perseguimento di determinati fini, aventi carattere generale, comuni a tutta la collettività che di esso fa parte.
La realizzazione dei suddetti fini avviene attraverso varie fasi, comprendenti l’individuazione di essi (funzione politica), il loro riconoscimento tra gli scopi dell’attività statale (funzione legislativa), la loro concreta attuazione (funzione amministrativa) e, infine, la loro tutela (funzione giurisdizionale). Pertanto, mentre l’individuazione dei fini generali dello stato, in un determinato contesto storico, sociale e politico, costituisce oggetto della funzione politica, viceversa la realizzazione concreta di questi obiettivi individuati dal potere politico è affidata alla funzione amministrativa.
L’attività amministrativa, inoltre, è caratterizzata da una discrezionalità più limitata rispetto a quella che caratterizza la funzione politica, la quale incontra l’unico limite delle previsioni costituzionali.
La funzione amministrativa deve essere svolta non solo nel rispetto dei principi costituzionali, ma anche in armonia con la legge ordinaria e gli atti ad essa equiparati, e nell’esercizio di tale funzione i soggetti pubblici emanano gli atti amministrativi. La funzione politica, invece, viene realizzata attraverso atti politici o di governo, che, per la loro natura, sono gli atti di suprema direzione dello stato, liberi nel fine e non assimilabili alla categoria degli atti amministrativi.
Posizioni giuridiche. Il diritto amministrativo si occupa di regolare l’organizzazione, i mezzi e le forme delle attività della Pubblica Amministrazione, nonché i rapporti tra quest’ultima e gli altri soggetti dell’ordinamento, sia nel caso in cui la pubblica amministrazione agisca come autorità, spendendo potere autoritativo e sia quando la pubblica amministrazione agisca come un qualsiasi soggetto privato[10].
In un rapporto giuridico, vi è un soggetto attivo titolare di una posizione di vantaggio che può essere un diritto soggettivo, diritto potestativo o interesse legittimo, e quello passivo titolare di una situazione soggettiva passiva come, ad esempio un obbligo, dovere, onere, soggezione.
Le posizioni che un soggetto assume all’interno di un rapporto giuridico sono le situazioni giuridiche soggettive.
Tra queste situazioni giuridiche soggettive del diritto amministrativo, troviamo il diritto soggettivo, posizione giuridica soggettiva di vantaggio che l’ordinamento attribuisce ad un soggetto, riconoscendogli determinate utilità in ordine ad un bene, nonché tutela degli interessi afferenti al bene stesso in modo pieno ed immediato.
La tutela del diritto soggettivo è affidata al giudice ordinario, così come sancito dall’art. 24 della Costituzione[11], e solo in alcune materie al giudice amministrativo, in base all’art.103 della Costituzione che prevede la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in riferimento alla possibilità di impugnare gli atti della pubblica amministrazione, dinanzi alla giurisdizione ordinaria o amministrativa.
L’interesse legittimo è una situazione giuridica individuale che ha trovato riconoscimento nel nostro ordinamento, con la legge n. 5992/1889 istitutiva della IV sezione del Consiglio di Stato.
Infine nell’art. 103 della Costituzione che afferma, che gli organi della giustizia amministrativa hanno giurisdizione “per la tutela degli interessi legittimi“.
La dottrina si è occupata di dare un’espressa definizione del significato di interesse legittimo.
Secondo il Casetta, esso può configurarsi come quella “situazione giuridica di vantaggio, costituita dalla protezione giuridica di interessi finali che si attua non direttamente e autonomamente, ma attraverso la protezione indissolubile e intermediata di un altro interesse del soggetto, meramente strumentale, alla legittimità dell’atto amministrativo e soltanto nei limiti della realizzazione di tale interesse strumentale[12]“.
Mentre il diritto soggettivo è una posizione autonoma in quanto prevista compiutamente da una previsione di legge, l’interesse legittimo, può essere espresso in termini di posizione, non autonomia: l’utilità sperata dal titolare di questa posizione, dipende dall’intermediazione provvedimentale dell’amministrazione pubblica.
Una delle caratteristiche dell’interesse legittimo è la differenziazione, il titolare di questa posizione giuridica individuale è colui che, nei confronti dell’esercizio del potere pubblico, si trova in una situazione differenziata rispetto ad altri soggetti.
L’interesse legittimo può inoltre definirsi una situazione qualificata in quanto la norma che disciplina l’esercizio del potere pubblico prende in considerazione indirettamente l’interesse legittimo individuale, che coincide con quello pubblico[13].
La dottrina ha elaborato vari criteri distinti tra interessi legittimi e diritti soggettivi.
Un primo criterio, elaborato dal Guicciardi, si basa sulla natura della norma.
La tesi parte dal presupposto che le norme si dividano in due categorie: norme di relazione che, attraverso un giudizio di relazione tra interessi diversi dei soggetti dell’ordinamento, tracciano una netta linea di demarcazione, tra sfera giuridica dell’amministrazione e la sfera giuridica dei privati. Verrà a configurarsi violazione di un diritto soggettivo, nel caso in cui la Pubblica Amministrazione, violi quella linea di demarcazione invadendo la sfera del privato.
Le norme di azione invece, regolano l’esercizio di un potere dell’Amministrazione (precedentemente attribuito attraverso le norme di relazione). Si avrà violazione di un interesse legittimo nel caso in cui la P.A. violi questo tipo di norme[14].
Il secondo criterio, si fonda sulla natura vincolata o discrezionale dell’attività esercitata. Nei confronti di un’attività vincolata, il privato vanterà un diritto soggettivo. Al contrario, nel caso di attività discrezionale, il cittadino può vantare solo un interesse legittimo.
L’ultimo criterio è basato sula distinzione tra carenza di potere o cattivo esercizio del potere: tutte le volte in cui si lamenti un cattivo uso del potere, si farà valere un interesse legittimo. Mentre nel caso in cui si voglia contestare l’esistenza stessa del potere in capo all’amministrazione, si farà valere un diritto soggettivo[15].
L’interesse legittimo è una situazione giuridica soggettiva individuale che ha trovato riconoscimento nel nostro ordinamento con la L. 5992/1889, istitutiva della IV sezione del Consiglio di stato, quale giudice di quegli interessi sostanziali diversi dai diritti soggettivi che fino ad allora erano rimasti del tutto sforniti di tutela.
In particolare, l’interesse legittimo si definisce come la situazione soggettiva di vantaggio, costituita dalla protezione giuridica di interessi finali che si attua non direttamente ed autonomamente, ma attraverso la protezione indissolubile ed immediata di un altro interesse del soggetto, meramente strumentale, alla legittimità dell’atto amministrativo e soltanto nei limiti della realizzazione di tale interesse strumentale.
L’interesse legittimo, inoltre, concerne anche la pretesa alla legittimità dell’attività amministrativa, riconosciuta a quel soggetto che, rispetto ad un dato potere della Pubblica Amministrazione, si trovi in una particolare posizione differenziata rispetto agli altri soggetti (cd. posizione legittimante).
I caratteri che contraddistinguono la figura dell’interesse legittimo sono: la differenziazione, cioè è titolare di un interesse legittimo colui che, rispetto all’esercizio di un potere pubblico, si trovi in una posizione differenziata rispetto a quella della generalità degli altri soggetti; la qualificazione, nel senso che la norma preordinata a disciplinare l’esercizio del potere dell’Amministrazione, per il perseguimento dell’interesse pubblico primario ha indirettamente preso in considerazione, e quindi protetto, un interesse sostanziale individuale connesso o coincidente con l’interesse pubblico.
L’interesse legittimo concreta, quindi, una posizione giuridica in quanto si sostanzia in un potere giuridico avente la struttura della pretesa; soggettiva, in quanto riconosciuta al singolo soggetto a tutela di un suo interesse materiale; sostanziale, in quanto preesiste alla eventuale lesione di essa; autonoma rispetto all’azione giurisdizionale derivante dall’eventuale lesione.
La tematica della risarcibilità o meno degli interessi legittimi è stata, per lungo tempo, oggetto di controversia sia in ambito dottrinario che giurisprudenziale.
A fronte delle prime teorie che negavano la possibilità di risarcire gli interessi legittimi lesi, la dottrina e la giurisprudenza più recenti hanno modificato il precedente orientamento evidenziando che l’art. 2043 c.c. non fa espresso riferimento alle posizioni giuridiche tutelate, e che si può comunque configurare una volontarietà pur nel compimento di un’attività amministrativa.
La Corte di Cassazione con la sentenza n. 500 del 1999, ha precisato che per ottenere il risarcimento è necessario che la lesione dell’interesse legittimo riguardi un bene della vita meritevole di tutela alla luce dell’ordinamento positivo, e successivamente del legislatore.
In particolare, con l’art. 7 della L. 205/2000[16], si è affidata alla giurisdizione del giudice amministrativo, sia esclusiva che di legittimità, la cognizione di tutte le controversie risarcitorie, nonché quelle relative agli altri diritti patrimoniali consequenziali.
La questione, a seguito della emanazione del Codice del processo amministrativo, d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, ha trovato un rinnovato assetto, attraverso la previsione di cui all’art. 30 del Codice, che disciplina l’azione di condanna innanzi al giudice amministrativo. In particolare, l’art. 30 disciplina specificamente, nell’ambito dell’azione di condanna, l’azione risarcitoria esperibile contro la P.A. per danni da illegittimo esercizio dell’azione amministrativa nonché, nei casi di giurisdizione esclusiva, per danni da lesione di diritti soggettivi.
Gli interessi superindividuali, poi si distinguono in interessi collettivi e interessi diffusi. In particolare: gli interessi diffusi sono quelli comuni a tutti gli individui di una formazione sociale non organizzata e non individuabile autonomamente ed attengono a beni non suscettibili di fruizione differenziata; gli interessi collettivi sono, invece, quelli che hanno come portatore un ente esponenziale di un gruppo non occasionale, della più varia natura giuridica[17], ma autonomamente individuabile.
L’interesse collettivo è differenziato, in quanto fa capo ad un soggetto individuato e cioè ad una organizzazione di tipo associativo che si distingue tanto dalla collettività che dai singoli partecipanti; da ciò consegue che la lesione dell’interesse collettivo legittima al ricorso solo l’organizzazione e non i singoli che di essa fanno parte; qualificato, nel senso che, è previsto e considerato, sia pure indirettamente, dal diritto oggettivo. La proliferazione sempre maggiore di nuovi gruppi organizzati e di associazioni di tipo internazionale ha notevolmente contribuito alla graduale trasformazione, in interessi collettivi, di alcuni diritti.
3. Le fonti del diritto amministrativo. I principi della pubblica amministrazione. L’ordinamento accoglie una pluralità di fonti del diritto. Prima dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana era abbastanza agevole operare una classificazione di tali fonti, potendo essere fondamentalmente ricondotte a poche tipologie, che peraltro trovano una esplicita elencazione nell’art. 1 delle “disposizioni sulla legge in generale[18]”, poste a premessa del Codice civile del 1942.
Con l’espressione fonte del diritto si fa riferimento alla sorgente da cui ha origine la norma giuridica; le fonti, infatti, possono essere definite come gli atti e i fatti abilitati dall’ordinamento a produrre diritto.
Il sistema delle fonti si articola secondo un’organizzazione gerarchica che, al vertice, vede la Costituzione e le leggi costituzionali, le fonti primarie, cioè la legge e gli atti aventi forza di legge, nonché le leggi delle Regioni; le fonti secondarie, comprendenti i regolamenti, tenuti a rispettare le disposizioni di rango superiore, che sono atti formalmente amministrativi, in quanto emanati da organi del Governo, ma sostanzialmente normativi, poiché contengono norme destinate ad innovare l’ordinamento giuridico, e le ordinanze, le quali per essere fonti del diritto, devono creare statuizioni normative generali e astratte, da ultimo le fonti determinate da fatti sociali o naturali considerati idonei a produrre diritto (fonti non scritte), o le consuetudini. L’ordinamento italiano, inoltre, a seguito dell’adesione all’Unione Europea, permette l’ingresso di fonti esterne, come gli atti dell’Unione Europea e le norme del diritto internazionale.
Vige il principio della preferenza comunitaria, in base al quale le norme europee vengono considerate superiori rispetto alle norme interne.
Sono fonti del diritto amministrativo quindi, non solo quelle di diritto nazionale, ma anche quelle di diritto europeo; emanate dagli organi dell’Unione europea sulla base delle regole di produzione normativa proprie di quell’ordinamento secondo il Trattato istitutivo della Comunità Europea.
Nel vigente ordinamento convivono, pertanto, norme giuridiche derivanti dalle fonti di due ordinamenti separati, quello nazionale e quello europeo; convivenza, fondata su un riparto di materie mobile (anche per effetto dell’art. 352 TFUE[19]), nell’ambito della quale in caso di conflitto è assicurata la prevalenza della normazione europea.
Nel sistema italiano, il fondamento della vincolatività delle fonti comunitarie è stato a lungo individuato nell’ art. 11 Cost., lo Stato consente, infatti, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento, che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”.
Fondamento esplicito si trova nell’ art. 117 Cost., che individua negli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione, un vincolo all’esercizio della potestà legislativa statale e regionale.
L’adesione al Trattato istitutivo della Comunità Europea ha determinato importanti ripercussioni sul sistema delle fonti interne, il diritto comunitario prevale sulle norme interne di livello anche costituzionale, con i soli limiti dei principi fondamentali e dei diritti dell’uomo.
Questa prevalenza è assicurata mediante la disapplicazione della norma nazionale incompatibile con il diritto comunitario[20].
Le fonti comunitarie comprendono, oltre al Trattato istitutivo con le sue modifiche, le fonti di diritto derivato, regolamenti e direttive.
I regolamenti di cui all’art. 288 del TFUE hanno portata generale, sono obbligatori in tutti i loro elementi e direttamente applicabili in ciascuno degli stati membri e quindi dalle Pubbliche Amministrazioni, ciò implica l’automatico adattamento dell’ordinamento nazionale al regolamento senza bisogno di un atto interno di recepimento.
Il regolamento prevale sulle normative difformi vigenti negli stati membri e si sostituisce ad esse nella disciplina della materia.
La diretta applicabilità non esclude, però che in alcuni casi il regolamento necessiti provvedimenti interni di natura integrativa, senza i quali non potrebbe trovare applicazione.
Le direttive, previste all’art. 288 TFUE sono rivolte agli stati membri, vincolandoli in ordine al risultato da raggiungere, ferma restando la competenza degli organi nazionali quanto all’individuazione della forma e dei mezzi da impiegare.
Chiedono un atto interno di recepimento, senza il quale non possono trovare applicazione, prive pertanto di diretta applicabilità.
Ogni direttiva indica un termine entro il quale gli stati devono provvedere alla sua attuazione: se lo stato non recepisce la direttiva entro tale termine, è inadempiente e si espone a possibili conseguenze risarcitorie per danni causati ai singoli.
La giurisprudenza comunitaria ammette, infatti che, scaduto comunque il termine di attuazione, le direttive producono effetti diretti nell’ordinamento interno, purché dotate di sufficiente precisione ed incondizionatezza: si tratta delle direttive self-executing, le quali, essendo dettagliate, non necessitano di un atto interno di recepimento, ma la loro efficacia diretta si esplica solo nei rapporti che coinvolgono uno o più soggetti privati e le Amministrazioni di uno stato membro[21].
Le decisioni, inoltre, sono atti obbligatori in tutti i loro elementi per i destinatari da esse designati (art. 288 TFUE).
A differenza delle direttive che possono essere indirizzate solo agli stati, le decisioni possono avere come destinatari anche i singoli.
Non si tratta di vere fonti del diritto, ma di atti amministrativi di competenza delle istituzioni comunitarie, non richiedono un atto di adeguamento dell’ordinamento nazionale, essendo efficaci ed obbligatorie per il soggetto che ne è destinatario.
Il diritto amministrativo, come disciplina giuridica dell’organizzazione e dell’azione concreta dei pubblici poteri, si esprime oltre che in un sistema assai articolato e complesso di norme, anche attraverso principi, alcuni dei quali formulati espressamente dal legislatore, altri ricavabili dall’interprete, segnatamente in sede giurisprudenziale, dal complesso dell’ordinamento positivo (art. 12 preleggi).
È noto che, in sede di interpretazione, ove una controversia non possa essere decisa in base ad una precisa disposizione normativa, si fa ricorso, secondo il criterio dell’analogia, alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe (analogia legis).
Ove questo non sia sufficiente, si fa ricorso ai principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato (cd. analogia iuris).
Anche i principi, espressi o non, sono norme giuridiche, tuttavia differenziate da quelle particolari, per una maggiore generalità delle relative fattispecie, nonché per la funzione che essi svolgono, connettiva di tutto l’ordinamento giuridico.
I principi, la cui evidenziazione è sempre opera dell’interprete e in ultima analisi della giurisprudenza delle magistrature supreme, sono fondati sulle fonti più diverse.
A volte essi sono ricavati da una singola norma positiva, a volte trovano la loro fonte nell’essenza stessa dell’ordinamento, nei suoi valori supremi, negli indirizzi politico-ideologici che ne hanno ispirato la formazione o una sua decisiva svolta, i c.d. principi istituzionali[22].
Nel vigente ordinamento, una parte significativa dei principi della nostra disciplina trova esplicita enunciazione direttamente in Costituzione.
In diritto amministrativo, mancando una disciplina legislativa di parte generale l’importanza dei principi generali nell’applicazione del diritto, come s’è avvertito, è decisamente prevalente. Questa particolarità rende il diritto amministrativo fondamentalmente, un diritto giurisprudenziale, nel quale invero il ruolo della giurisprudenza, viene esaltato in tale sua qualità, sino a configurare la giurisprudenza stessa, come fonte dell’ordinamento amministrativo[23].
Occorre pertanto esaminare per intero la Costituzione al fine di individuare principi cui l’amministrazione pubblica è tenuta necessariamente ad uniformarsi: principi e valori che ne conformano sia l’organizzazione che l’attività, ossia i due profili fondamentali della sua particolare morfologia.
A livello espositivo, e proprio in considerazioni alle finalità didattiche qui perseguite, i principi costituzionali sulla Pubblica Amministrazione possono essere suddivisi in due grandi categorie: i principi dal contenuto ampio e generale e i principi dal contenuto particolare e o settoriale.
Uguaglianza, democraticità e solidarietà sociale, costituiscono la prima categoria da considerare.
Il principio di uguaglianza impone all’amministrazione di non porre in essere trattamenti discriminatori, disciplinando in modo diverso situazioni uguali e in modo uguale situazioni diverse.
Come ha più volte chiarito il Giudice costituzionale, sul punto ampiamente ripreso dalla giurisprudenza amministrativa, ritiene che l’applicazione del principio di uguaglianza, non si esprime attraverso la “concettualizzazione di una categoria astratta”, cioè “staticamente elaborata in funzione di un valore immanente dal quale l’ordinamento non può prescindere”, al contrario, essa definisce un “giudizio di relazione che, come tale, assume un risalto necessariamente dinamico[24]”.
L’eguaglianza pertanto postula, a fronte di una gamma di variabili tanto estesa quante sono le imprevedibili situazioni che in concreto possono ricorrere, un armonico trattamento dei destinatari, in grado di scongiurare l’intrusione di elementi arbitrariamente discriminatori.
Nell’ordinamento italiano, il compito di contemperare armonicamente fra loro interessi e situazioni diverse, in base al principio di uguaglianza, spetta soprattutto all’amministrazione pubblica, e poi, solo successivamente, ed eventualmente, previo ricorso, all’organo giurisdizionale[25].
In questo senso merita qui richiamare l’art. 6 bis della legge n. 241/1990, che fissa un obbligo di astensione dei funzionari amministrativi qualora gli stessi si trovino in conflitto di interessi nello svolgimento dei propri compiti.
Riguardo al principio di democraticità, occorre ricordare la disposizione di cui all’art. 1 Cost., secondo cui la Repubblica si ispira ai principi della democrazia.
Tale disposizione è riassuntiva dei caratteri essenziali dello Stato, poiché rappresenta la sintesi delle previsioni costituzionali, poste a garanzia dei privati nei confronti delle autorità statali. Tramite il principio indicato si riconoscono dunque una serie di garanzie che investono il rapporto fra privato e amministrazione.
Infine, il rispetto del principio di democraticità, sempre sotto forma di garanzia dei valori sopraindicati, s’impone anche all’interno delle singole Pubbliche Amministrazioni.
Ed ancora, mentre il riparto della legislazione è fondato sulla distinzione delle materie, il riparto dell’amministrazione è fondato sulla dimensione degli interessi nell’ambito delle diverse materie.
Il primo significato del principio di sussidiarietà, che acquista un rilievo centrale nel nuovo sistema costituzionale, è dato dalla dislocazione delle funzioni amministrative tra i diversi livelli di governo nei quali si articola la Repubblica, che deve essere disposta imputando le funzioni stesse al livello di governo più prossimo, in termini territoriali, ai portatori degli interessi amministrati.
Il principio infatti impone, ad ogni livello di governo di dimensione superiore, di intervenire con la propria azione e con il proprio sostegno, nell’ambito di funzioni e compiti di competenza del livello inferiore, laddove questo non disponga di forza e capacità, anche finanziaria, sufficiente.
Nondimeno il principio di sussidiarietà non può comportare uno spostamento dell’ordine delle competenze relativamente alla titolarità dei poteri amministrativi in senso tecnico che, sulla base del principio di legalità, devono trovare, infatti, la loro fonte in una norma che determini la competenza in ordine alla titolarità del potere.
Il principio di differenziazione, impone poi, al legislatore, con riferimento a questa realtà di fatto, di tenere conto nella imputazione delle funzioni amministrative ai diversi enti anche della medesima categoria, della rispettiva capacità di governo, che dipende dalle dimensioni organizzative, dall’entità dei mezzi e del personale, dal numero degli abitanti e così via.
Il principio di adeguatezza, presente a partire dalle leggi c.d. Bassanini (L. 59/1997, art. 1,3,4; d. lgs. 112/1998, art. 2) costituisce un’ulteriore declinazione del principio di differenziazione, imponendo al legislatore di attribuire le diverse funzioni ai diversi enti del governo territoriale. L’attuazione del principio di adeguatezza rende necessario l’esercizio associato delle principali funzioni comunali, da parte dei Comuni di più piccole dimensioni.
L’analisi prende avvio dal principio di legalità.
Fra i diversi e molteplici significati che il principio in parola assume nel diritto amministrativo , il più ricorrente, ed allo stesso tempo più direttamente percepibile, va nel senso della riconducibilità alla legge, ossia alla sua disciplina, dell’intera organizzazione ed attività amministrativa. Dunque, legalità come soggezione dell’amministrazione alla legge, nel senso che la legge è fondamento e misura del relativo potere amministrativo.
Il principio di legalità ha raggiunto questa notevole portata applicativa attraverso un’interpretazione estensiva dello stesso nella parte in cui l’art. 97 cit. stabilisce che “i pubblici uffici sono organizzati secondo diposizioni di legge”.
Infatti, sul piano meramente letterale, la disposizione sembrerebbe riferita alla sola organizzazione amministrativa.
Tuttavia, come già rilevato, l’orientamento, pressoché unanime, riconosce un’efficacia estesa anche all’attività amministrativa del principio di legalità.
Ciò precisato, merita ulteriormente osservare, che il rispetto del principio di legalità non riguarda esclusivamente la conformità alla legge in senso formale dell’organizzazione e dell’attività della P.A., ma include anche la soggezione ad una serie molto più ampia di atti di rango e natura diversa: regolamenti, piani, atti amministrativi generali e, non da ultimo, fonti sovranazionali. Dunque, l’amministrazione esercita poteri ed opera con strumenti previsti e disciplinati dalla legge. Espressione da intendersi in senso ampio, ossia come qualsiasi fonte normativa in grado di vincolare la P.A., piuttosto che come legge in senso tecnico[26].
Il principio d’imparzialità, previsto nell’art. 97 Cost., oltre che nell’art. 1, legge n. 241/1990, costituisce una particolare specificazione del principio di uguaglianza.
In entrambe i casi si è dinanzi ad un principio che impone un limite, ma anche un obbiettivo, all’esercizio del pubblico potere: l’imparzialità, come l’uguaglianza, postula infatti che la pubblica amministrazione non possa porre in essere discriminazioni, anche avvantaggiando taluni in modo arbitrario.
Giurisprudenza recente ha chiarito che l’imparzialità deve inderogabilmente permeare l’attività amministrativa in ogni suo svolgimento.
La disciplina sul diritto di accesso ai documenti amministrativi costituisce una significativa applicazione del principio d’imparzialità, come il diritto di chiunque di accedere a dati e/o documenti detenuti dalla P.A., senza dover motivare o dimostrare alcun interesse specifico.
Infine, il principio di buon andamento (di cui all’art. 97 Cost.) si lega ai principi di economicità ed efficacia previsti all’art. 1, legge n. 241/1990.
Il buon andamento sotto forma di ragionevole rapporto fra costi sostenuti e obiettivi conseguiti.
Con riferimento ai principi dell’ordinamento comunitario, anch’essi richiamati all’art. 1[27], legge n. 241/1990, e come tali applicabili alla P.A., l’analisi prende avvio dal principio di precauzione. Si tratta di un principio che può essere applicato ogni qual volta sia ragionevolmente ipotizzabile l’esistenza di un rischio non tollerabile, per l’integrità delle persone o delle cose.
Soprattutto in campo ambientale e sanitario, l’applicazione di tale principio impone l’obbligo di assicurare un elevato livello di tutela mediante l’adozione delle migliori tecnologie disponibili. Nella prassi la precauzione comporta che l’Amministrazione, ma ancor prima il Legislatore, debba adottare misure finalizzate a prevenire, o comunque limitare i rischi per gli interessi sensibili minacciati, facendo prevalere queste esigenze di tutela sugli interessi economici antagonisti.
Come quello di precauzione, anche il principio di proporzionalità ha origine comunitaria.
Infatti, secondo la giurisprudenza amministrativa nazionale esso assume nell’ordinamento interno lo stesso significato che ha nell’ordinamento comunitario, ossia quello di imporre all’amministrazione, specialmente nel caso di provvedimenti svantaggiosi, l’adozione della misura più mite possibile con riguardo agli interessi antagonisti coinvolti nell’azione.
Così, nel caso in cui la Pubblica Amministrazione richieda ad un privato di provvedere alla bonifica di un sito che ha inquinato, sussiste violazione del principio di proporzionalità solo nel caso in cui si dimostri che altre misure, meno costose, avrebbero permesso di ottenere lo stesso risultato, che l’amministrazione ha inteso perseguire con il provvedimento impugnato. Merita precisare che, nell’ambito del relativo controllo giurisdizionale, il principio di proporzionalità si articola in tre distinti profili.
Il primo è la c.d. idoneità, vale a dire il rapporto tra il mezzo adoperato e l’obiettivo perseguito. In virtù di tale parametro, l’esercizio del potere è legittimo solo se la soluzione adottata consente di raggiungere l’obiettivo.
Il secondo profilo è la c.d. necessarietà, vale a dire l’assenza di qualsiasi altro mezzo idoneo, tale da incidere in misura minore sulla sfera del singolo. In virtù di tale parametro la scelta tra tutti i mezzi astrattamente idonei deve cadere su quello che comporti il minor sacrificio.
Il terzo, infine, è la adeguatezza, vale a dire la tollerabilità della restrizione.
In virtù di tale parametro l’esercizio del potere, pur idoneo e necessario, è legittimo solo se rispecchia una ponderazione armonizzata e bilanciata degli interessi. In caso contrario la scelta andrebbe rimessa in discussione.
[1] CASETTA E., Manuale di diritto amministrativo, Giuffrè Editore, 2018.
[2] LICCIARDELLO S., Istituzioni di diritto amministrativo, Giappichelli Editore, 2017.
[3] La disposizione si riferisce al concetto di pubblica amministrazione in senso soggettivo intesa, cioè, quale insieme degli apparati (uffici, organi ecc.) cui è demandata la funzione di soddisfare gli interessi della collettività. Quest’ultima, a sua volta, esprime il profilo oggettivo della nozione. In senso soggettivo la P.A. consta di apparati sia statali (i ministeri) che locali, nonché di soggetti che solo indirettamente le fanno capo, come gli enti pubblici o le autorità indipendenti.
[4] CARIDA’ R., Principi Costituzionali e Pubblica Amministrazione, Consulta on-line, 2014.
[5] La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 233/2006, ha in particolare stabilito che “la previsione di un meccanismo di valutazione tecnica della professionalità e competenza dei nominati, non si configura come misura costituzionalmente vincolata”, atteso che la regola per cui le cariche affidate intuitu personae dagli organi politici cessano all’atto dell’insediamento di nuovi organi politici, mira a consentire a questi ultimi la possibilità di rinnovarle, scegliendo soggetti idonei a garantire proprio l’efficienza e il buon andamento dell’azione amministrativa.
[6] Art. 19, Incarichi di funzioni dirigenziali, “Ai fini del conferimento di ciascun incarico di funzione dirigenziale si tiene conto, in relazione alla natura e alle caratteristiche degli obiettivi prefissati ed alla complessità della struttura interessata, delle attitudini e delle capacità professionali del singolo dirigente, dei risultati conseguiti in precedenza nell’amministrazione di appartenenza e della relativa valutazione, delle specifiche competenze organizzative possedute, nonché delle esperienze di direzione eventualmente maturate all’estero, presso il settore privato o presso altre amministrazioni pubbliche, purché attinenti al conferimento dell’incarico. Al conferimento degli incarichi e al passaggio ad incarichi diversi non si applica l’articolo 2103 del codice civile.”
[7] CARIDA’ R., Amministrazione Pubblica e responsabilità, Plus Editore, 2011.
[8] CASETTA E., Compendio di Diritto Amministrativo, Giuffrè Editore, 2011.
[9] Art. 95 Cost: “Il Presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri.
I ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei ministri, e individualmente degli atti dei loro dicasteri.
La legge provvede all’ordinamento della Presidenza del Consiglio e determina il numero, le attribuzioni e l’organizzazione dei ministeri.”
[10] Art.1-bis L. n. 241/1990: “La pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente”.
[11] Art. 24 Cost: “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”.
[12] CASETTA E., Manuale di diritto amministrativo, Giuffrè Editore, 2018.
[13] Si pensi all’esempio di un concorso pubblico: nel caso in cui la P.A. violi le disposizioni che regolano l’esercizio del potere (norme di azione) attribuendo un punteggio inferiore ad un concorrente che non verrà quindi inserito nella graduatoria, questo soggetto può ricorrere al giudice amministrativo per avere l’annullamento dell’atto illegittimo. Dall’eliminazione dell’atto illegittimo (interesse primario alla legalità dell’azione amministrativa), consegue l’utilità che avrà il candidato una volta che, annullato l’atto illegittimo, verrà inserito nella graduatoria (interesse secondario). Questo soggetto sarà il titolare di un interesse legittimo pretensivo, di una situazione sostanziale individuale che si sostanzia in una pretesa del privato (nel caso di specie il soggetto esercita la pretesa di essere ammesso in graduatoria a fronte dell’eliminazione dell’atto illegittimo) e interessi legittimo oppositivi in cui il soggetto titolare si oppone all’adozione di determinati atti pregiudizievoli per la propria sfera giuridica, come nel caso del soggetto espropriato che si oppone al provvedimento di esproprio.
[14] IUDICA G., Il conflitto di interessi nel diritto amministrativo, G. Giappichelli Editore, 2017.
[15] CASSESE S., Il diritto amministrativo storia e prospettive, Giuffrè Editore, 2010.
[16] Art. 7 L. 205/2000: “Sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie in materia di pubblici servizi, ivi compresi quelli afferenti alla vigilanza sul credito, sulle assicurazioni e sul mercato mobiliare, al servizio farmaceutico, ai trasporti, alle telecomunicazioni e ai servizi di cui alla legge 14 novembre 1995, n. 481.”
[17] Es. ordini professionali, associazioni private riconosciute, associazioni di fatto.
[18] Sono fonti del diritto: le leggi i regolamenti, gli usi.
[19] L’articolo 352 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) contiene una disposizione che consente all’UE di adottare atti necessari a raggiungere gli obiettivi fissati dai trattati, salvo che i trattati non abbiano previsto poteri di azione a tal fine.
In altri termini, l’articolo 352 del TFUE può servire come base giuridica unicamente quando sono soddisfatte le seguenti condizioni: l’azione prevista è necessaria per raggiungere, nell’ambito delle politiche definite dai trattati (ad eccezione della politica estera e di sicurezza comune), uno degli scopi dell’Unione; non esiste alcuna disposizione del trattato che preveda un’azione per il raggiungimento di tale scopo; l’azione prevista non deve condurre all’estensione delle competenze dell’UE al di là di quanto previsto dai trattati.
Su proposta della Commissione, il Consiglio dell’UE adotta atti all’unanimità sulla base dell’articolo 352 del TFUE, previo consenso da parte del Parlamento europeo.
La Commissione europea, utilizzando la procedura relativa al controllo del rispetto del principio di sussidiarietà prevista dall’articolo 5 del trattato sull’Unione europea (TUE) e dal protocollo 2 del trattato di Lisbona, deve indirizzare l’attenzione dei parlamenti nazionali, verso le iniziative prese sulla base dell’articolo 352 del TFUE.
[20] Le condizioni che devono sussistere perché vi sia responsabilità dello stato sono tre: che la normativa comunitaria violata attribuisca un diritto a favore del singolo; che la violazione sia grave e manifesta; che vi sia un nesso di causalità fra la violazione della norma e il danno subito dal singolo.
[21] Quindi se una direttiva inattuata (con i requisiti di precisione e incondizionatezza) attribuisce ad un soggetto un diritto da far valere nei confronti della P.A, questo diritto può essere esercitato anche davanti all’autorità giudiziaria. Se invece il diritto conferito dalla direttiva deve essere fatto valere nei confronti di un altro soggetto privato, il titolare non può direttamente esercitarlo né richiederne tutela in sede giurisdizionale, ma può solo ottenere l’azione risarcitoria da esperire nei confronti dello stato, per violazione del diritto comunitario.
[22] Corte Cost. n. 6/1956.
[23] ROSSI G., Principi di diritto amministrativo, Giappichelli Editore, 2017.
[24] Corte Costituzionale sentenza n. 241/2014.
[25] JUSO R., Lineamenti di Giustizia Amministrativa, Giuffrè Editore, 2012.
[26] CERULLI IRELLI V., Lineamenti di diritto amministrativo, Giappichelli Editore, 2017.
[27] Art. 1 L. 241/90, “L’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza, secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai princípi dell’ordinamento comunitario.”
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Ilaria Pugliese
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