Diritto del paziente a rifiutare le cure
In ambito sanitario, è molto importante sottolineare il principio di autodeterminazione, il quale si esprime con il consenso o il rifiuto al trattamento medico. Il paziente, quindi, è libero di scegliere se sottoporsi alle cure di cui necessita, o meno.
Nel primo caso, cioè se il paziente acconsente alle cure mediche, il trattamento sanitario è avvenuto con il consenso informato del paziente, il che esclude la colposità del medico, il quale si è attenuto alle legis artis e ciò scongiura anche una eventuale colpa nel caso di esito infausto di un intervento.
Nell’ipotesi in cui, il paziente, invece, rifiuti di essere curato, si è aperto un dibattito tra dottrina e giurisprudenza circa la responsabilità del sanitario.
Ebbene, l’articolo 32 Cost. prevede che a ciascuno spetta il diritto fondamentale di scegliere se curarsi o no, anche se le cure sono finalizzate alla sopravvivenza. Sono quindi vietati i trattamenti sanitari obbligatori, perchè risulta ormai preminente dare importanza al consenso informato del paziente e alla sua volontà.
E’ chiaro che, nel caso in cui il paziente decida di non voler proseguire le cure necessarie alla sua sopravvivenza, l’equipe medica dovrà accertarsi che quella decisione è presa con sicurezza e fermezza.
Ci sono stati episodi che si sono succeduti nel tempo, che hanno trattato il tema di rifiuto al continuare le cure (aiuto al suicidio), come il caso Welby e Englaro.
Piergiorgio Welby era affetto da un gravissimo stato morboso degenerativo, la sua sopravvivenza era assicurata esclusivamente per mezzo del respiratore automatico al quale era stato collegato.
I trattamenti sanitari praticati sulla sua persona non erano in grado di arrestare in alcun modo il decorso della malattia avendo quindi quale unico scopo, quello di prolungare nel tempo l’ormai certo esito infausto, semplicemente prolungando le funzioni essenziali alla sopravvivenza biologica ed il gravissimo stato patologico in cui Welby versava.
Welby, in considerazione del suo grave e sofferto stato di malattia, in fase irreversibilmente terminale, dopo essere stato debitamente informato dai propri medici in ordine ai vari stadi di evoluzione della sua patologia, nonché in merito ai trattamenti sanitari che gli venivano somministrati, chiedeva al medico dal quale era professionalmente assistito, di non essere ulteriormente sottoposto alle terapie di sostentamento che erano in atto e di ricevere assistenza solamente per lenire le sofferenze fisiche.
Chiese ufficialmente la propria morte nel 2006 (era attaccato alle macchine dal 1997).
Il caso di Welby è stato definito caso di eutanasia, precisamente eutanasia passiva o rifiuto dell’accanimento terapeutico, o ancora diritto all’autodeterminazione.
Il 16 dicembre 2006 il tribunale di Roma respinse la richiesta dei legali di Welby di porre fine all’accanimento terapeutico, dichiarandola «inammissibile», per via del vuoto legislativo su questa materia.
Fu un percorso lungo e travagliato, fino a quando, lo stesso giorno, verso le ore 23.00, secondo la sua volontà, è stato sedato e gli è stato staccato il respiratore. La morte venne dichiarata alle 23.45.
Eluana Englaro, invece, a seguito di un incidente stradale, ha vissuto in stato vegetativo per 17 anni, fino alla morte per cause naturali sopraggiunta a seguito dell’interruzione della nutrizione artificiale. Anche questo caso, è stato non privo di lungaggini e difficoltà legate a dibattiti sulla questione “fine vita” o “accanimento terapeutico”.
Ebbene, la legge n. 219 del 2017, ha ribadito il concetto, sottolineando che “ogni persona capace di agire” ha diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario, pur se necessario alla propria sopravvivenza, inclusi, quindi, i trattamenti di nutrizione e idratazione artificiale.
Quello che si crea tra medico e paziente, è una sorta di rapporto di fiducia: il sanitario dovrà prospettare al paziente tutte le conseguenze del caso e le possibilità che ha di fronte, in modo da poter far si che scelga liberamente cosa fare, anche avvalendosi di un supporto psicologico, oltre che di quello dei suoi familiari.
Se il sanitario si è attenuto a queste regole, e ha portato avanti la volontà del paziente, sia in un senso che nell’altro, sarà esente da responsabilità penale.
Il medico potrà, inoltre, con il consenso del paziente, ricorrere alla cosiddetta sedazione palliativa profonda, ovvero il paziente ha diritto a sospendere i trattamenti di sostegno vitale, quali la nutrizione artificiale e la ventilazione e l’idratazione, il cui esito, non rapido, porta alla morte. In giurisprudenza si parla di diritto al lasciarsi morire (cosiddetto aiuto al suicidio).
E’ importante sottolineare, che al malato, non viene riconosciuto il diritto di morire o di essere aiutato a morire, ma solo un diritto-mezzo per realizzare un fine (morire con dignità) per porre fine alle sue sofferenze.
Questo rimane un tema molto delicato, perchè il nostro sistema tende a tutelare in primis il diritto alla vita, ma allo stesso tempo, ad aiutare le persone che vogliono porre fine alle sofferenze che hanno quotidianamente perchè affette da patologie irreversibili, fonte di sofferenze fisiche e psichiche intollerabili, e la cui vita sia portata avanti attraverso trattamenti di sostegno vitale. Inoltre, il nostro sistema, vuole tutelare la figura del medico, che ha agito secondo le legis artis e secondo la volontà accertata del paziente, motivo per cui, dovrebbe essere esente da responsabilità.
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Avv. Federica Malvani
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