Diritto di accesso e inerzia del funzionario della p.a.
Ai sensi dell’art. 328, co. 2, c.p., rubricato “Rifiuto di atti di ufficio. Omissione”, è punito il fatto del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio che, entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse, non compie l’atto del suo ufficio senza rispondere per esporre le ragioni del ritardo.
Con l’introduzione dell’art. 328, co. 2, c.p. il legislatore ha voluto dettare disposizioni idonee a porre le premesse per l’instaurazione di un rapporto tra cittadini e pubblica amministrazione fondato su principi di trasparenza, correttezza e lealtà dell’operato dei pubblici poteri, riconoscendo ai privati un trattamento rispettoso dei diritti e degli interessi in modo che ognuno fosse in grado di conseguire, in tempi ragionevolmente brevi, l’emanazione di atti e provvedimenti dovuti dalla pubblica amministrazione, ovvero di conoscere le ragioni della mancata adozione dell’atto richiesto, al fine di soddisfare le legittime istanze e aspettative dei titolari di un interesse soggettivamente qualificato.
In tal modo i cittadini vengono sono in grado di sapere, eventualmente, in caso di ritardo nell’emissione, i motivi per cui il provvedimento non poteva essere emesso.
Tali considerazioni sono rafforzate dal fatto che lo stesso anno dell’ introduzione della riforma dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione fu varata la l. n. 241/1990 in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso agli atti amministrativi che rappresenta il primo tentativo del legislatore di fornire una risposta organica all’esigenza volta al consolidamento di una più incisiva tutela dei privati nei loro rapporti con la pubblica amministrazione.
La disciplina del silenzio in materia di accesso è destinata ad interferire con l’art. 328, co. 2, c.p. diretto a reprimere il comportamento inerte del funzionario della P.A.
Nello specifico, ci si è chiesto se la configurazione di un’ipotesi di silenzio significativo, cui sono connessi effetti equipollenti a quelli di un provvedimento espresso di diniego, può trascinare il comportamento inerte nell’area del penalmente irrilevante.
Le risposte della giurisprudenza e della Cassazione non sono state sempre univoche.
Secondo un primo orientamento, espresso da Cass. pen., sez. VI, n. 1672/1997, incorre nel reato di omissione di atti di ufficio il pubblico ufficiale che non adotti l’atto entro il termine di trenta giorni dalla richiesta o non esponga le ragioni del ritardo.
In particolare si è sostenuto, sent. Cass. Pen. sez. VI, n. 24567/2001, che gli artt. 328 c.p. e 25, co. 4, della l. n. 241/1990 sono preordinati ad assicurare il dispiegarsi del principio di trasparenza dell’azione amministrativa.
Può dirsi, infatti, che le due norme pur collocandosi su piani diversi di tutela convergono verso gli stessi scopi: da un lato vengono riconosciuti nuovi poteri di stimolo nei confronti della pubblica amministrazione da parte dei privati ai quali sono offerte nuove forme di garanzia, anche giurisdizionale, attraverso mezzi tipici dell’ordinamento amministrativo; dall’altro è introdotta una sanzione penale a carico dei pubblici amministratori che si rendano inadempienti agli obblighi richiamati.
Ne deriva che deve essere rigettata quella impostazione dottrinaria secondo cui la sanzione penale non sarebbe operante quando, decorso il termine di trenta giorni dalla richiesta, si viene a formare il silenzio rifiuto, avendo il privato già avuto surrettiziamente, in tal modo, una risposta idonea a promuove un giudizio davanti al giudice amministrativo con dissolvimento della tutela penale in quella amministrativa. Una tale chiave di lettura dell’art. 328, secondo comma, c.p. renderebbe del tutto inutile e pleonastica la presenza stessa della disposizione nell’ordinamento giuridico.
D’altra parte il giudice penale non è neppure autorizzato a sindacare il fondamento delle eccezioni sollevate dalla pubblica amministrazione per contestare il diritto del privato, essendo sufficiente per escludere il determinarsi dei presupposti necessari per la configurazione del reato di cui si discute che sia pacifica la pendenza del procedimento giurisdizionale.
Ed ancora, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 328, co. 2, c.p. la richiesta del privato deve fondarsi su una pretesa seria, volta cioè ad ottenere un provvedimento che riconosca un diritto certo del privato.
Su posizioni opposte si colloca un diverso orientamento espresso sempre dalla stessa Cass. pen, sez. VI, 6 ottobre 1998, n. 12977.
Alla strega di tale seconda tesi è da escludere la sussistenza del reato se, come nel caso della richiesta di accesso ai documenti disciplinata dall’art. 25 l. n. 241/1990, la mancata risposta alla richiesta del privato nello stesso termine previsto dalla norma penale di trenta giorni dia luogo a silenzio-diniego.
Quest’ultimo equivale al compimento dell’atto e determina una situazione concettuale incompatibile con l’inerzia della Pubblica amministrazione, essendo il privato posto in grado di apprezzare concretamente il risultato dell’attività amministrativa al quale è interessato ed al quale mirava con la richiesta e di assumere le eventuali iniziative del caso.
Nello specifico, ai fini della configurabilità del reato di rifiuto di atti d’ufficio, nell’ipotesi prevista dall’art. 328, co. 2, c.p., occorre che l’atto d’ufficio non compiuto ed in relazione al quale non vengano fornite nel termine di legge, a specifica richiesta della parte interessata, le ragioni del ritardo, sia un atto dovuto, e quindi idoneo ad esprimere utilmente, e non in modo ultroneo e superfluo, la posizione della p.a. nel rapporto con il privato.
Ne consegue che non ogni richiesta di atto da parte del privato è idonea ad attivare il meccanismo che può dar luogo alla configurabilità del reato “de quo”, dovendosi tale idoneità riconoscere solo a quelle richieste che siano funzionali ad un effettivo e doveroso dinamismo della p.a.
Il reato è poi da escludere quando, come nel caso della richiesta di accesso a documenti disciplinati dall’art. 25 d.l. n. 241 del 1990, la mancata risposta alla richiesta del privato nel medesimo termine previsto dalla norma penale di trenta giorni, dia luogo a silenzio-rifiuto perché quest’ultimo equivale, sia pure per presunzione, al compimento dell’atto e viene comunque a determinare una situazione concettuale incompatibile con l’inerzia della p.a. e con la necessità, quindi, di una messa in mora della stessa da parte del privato, il quale è invece posto in grado di apprezzare concretamente il risultato dell’attività amministrativa alla quale è interessato e di assumere le eventuali iniziative del caso.
Con riferimento al delitto di omissione di atti d’ufficio il bene giuridico alla cui tutela è preordinatala norma incriminatrice va individuato non nella salvaguardia meramente formale della organizzazione amministrativa in quanto tale, vista nel suo aspetto statico, bensì nell’esigenza di garantire la corretta e doverosa estrinsecazione dell’attività amministrativa, quale momento dinamico destinato a concretizzarsi in atti amministrativi, aventi, direttamente o indirettamente, un riflesso significativo rispetto al perseguimento dei fini che la Pubblica Amministrazione deve realizzare per suo dovere istituzionale.
In particolare, con la previsione di cui al co. 2 dell’art. 328 c.p.., il legislatore ha inteso “attivare l’iniziativa dell’utente“, nel senso che chi ha interesse al compimento dell’atto lo richiede, perché intende ottenere un risultato utile ai fini del rapporto amministrativo tra lui e la P.A., non perché con il compimento dell’atto sia adempiuto un dovere funzionale dell’intraneo.
Sono sanzionati, infatti, sia l’omissione dell’atto decorso il periodo di giorni trenta dalla richiesta, sia l’omissione della comunicazione dei motivi del ritardo.
Tale comunicazione, infatti, se effettuata evita l’incriminazione dell’intraneo.
Da ciò, si evince specificamente che, nel caso in cui alla richiesta segua il compimento dell’atto, l’interesse protetto è pur sempre il risultato della attività amministrativa, mentre, nel caso in cui l’atto non sia compiuto e l’intraneo risponda per esporre le ragioni del ritardo, l’interesse coincide con il dovere di attivarsi in sé e per sé, indipendentemente dall’incidenza di questo sull’atto richiesto, cioè a dire con il dovere di correttezza come mezzo attraverso il quale concretizzare l’interesse alla trasparenza dell’attività amministrativa.
Come si è detto, la legge punisce l’intraneo che, entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse, non compie l’atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo.
L’atto di ufficio è l’atto dovuto dalla P.A., è l’effetto positivamente apprezzabile del dovere di agire per la realizzazione dei fini istituzionali dell’ente.
Deve trattarsi di un atto al cui compimento l’intraneo sia obbligato per legge, per ordine dell’autorità o in forza del rapporto d’ufficio e che sia, pertanto, idoneo a esprimere utilmente, e non in modo ultroneo e superfluo, la posizione della P.A. nel rapporto amministrativo coi privati.
Si vuole, in sostanza, sottolineare che non ogni richiesta di atto che il privato sollecita alla P.A. ha idoneità ad attivare il reato ex art. 328, co. 2, c.p., ma solo quelle richieste che siano funzionali ad un effettivo e doveroso dinamismo della P.A., sia se questo deve estrinsecarsi in atti facoltativi o in atti vincolati o in atti che comportino una certa discrezionalità, tutti comunque espressione di un preciso dovere legale del pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio.
Rimangono al di fuori della tutela legale quelle richieste che sollecitano alla P.A. un’attività superflua e non doverosa, la quale non è destinata a spiegare alcuna necessaria incidenza sul rapporto amministrativo, già ben definito nei suoi contorni essenziali, con l’estraneo.
Un discorso particolare, poi, va fatto per l’atto di ufficio che si concreta nel silenzio della P.A., come accade nel caso di richiesta di accesso ai documenti amministrativi, disciplinato dallo art. 25 della legge n. 241/1990.
In questo caso, coincidendo il termine di trenta giorni dalla richiesta dell’interessato, formulata ex art. 328, co. 2, c.p., con il termine stabilito per il maturarsi del silenzio rifiuto, ex art. 25 della legge n. 241-90, deve escludersi la configurabilità del reato in esame se il pubblico ufficiale non compie l’atto richiesto e non risponde al richiedente, perché con il silenzio rifiuto, sia pure per una presunzione, si ha il compimento dell’atto e viene comunque a determinarsi una situazione che è concettualmente incompatibile con l’inerzia della P.A., con la conseguenza che la “messa in mora” di questa finisce per raggiungere il suo effetto, a tutela della posizione soggettiva dell’extraneus, che è posto nella condizione di apprezzare concretamente, sia pure per una presunzione legale, il risultato dell’attività amministrativa alla quale è interessata e di assumere le eventuali iniziative del caso.
Si tratta di un’impostazione ritenuta più coerente con la riformulazione dell’art. 25 co. 4 della l. n. 241/1990, per effetto della quale, decorsi invano i trenta giorni dalla presentazione dell’istanza ostensiva, la stessa deve intendersi non “rifiutata”, bensì “respinta”.
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Silvia Causa
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