Diritto penale e reati culturalmente motivati: la morsa della scelta alternativa per le c.d. “vite di scarto”

Diritto penale e reati culturalmente motivati: la morsa della scelta alternativa per le c.d. “vite di scarto”

Il diritto penale ha la caratteristica di essere un diritto locale, creato all’interno di uno Stato funzionale, solo per quello Stato. Infatti, in ogni Stato troviamo singoli reati, sanzionati con determinate pene che possono non coincidere con quelle previste all’interno di altri Stati per le medesime fattispecie. Di fatto possiamo affermare che “ciò che è reato qui, potrebbe non esserlo in un altro luogo, o viceversa” [1].

Fino ad alcuni anni fa il diritto penale era fondato su alcuni principi che non venivano neanche enunciati e messi in discussione. Uno su tutti, il principio dell’unità del soggetto di diritto in base al quale tutti i soggetti dell’ordinamento hanno gli stessi diritti, obblighi, le stesse libertà e le stesse prerogative e quindi la stessa identica posizione giuridica nei confronti della legge penale [2]. In altre parole si tratta del principio di “irrilevanza delle caratteristiche individuali di fronte alla generalità e astrattezza della legge in generale” [2].

Per quanto riguarda l’immigrazione bisognerebbe spostare il focus su problemi molto più rilevanti perché stabilire se si hanno di fronte fenomeni migratori legali o meno, non sposta il fatto che si è di fronte a milioni di soggetti socialmente disadattati e privi di mezzi di sopravvivenza. Le c.d. “vite di scarto” di Zigmut Bauman [3].

Il fenomeno di provincializzazione del diritto penale sembra inevitabile essendo sempre in continuo movimento.

Sutherland parla di “Relatività del diritto penale”, ossia ciò che viene considerato reato qui può non esserlo in un altro Stato. Ad esempio “vendere monete agli stranieri o tenere oro in casa” possono essere considerati comportamenti che integrano fattispecie di reato in alcuni Stati e visti come un qualcosa del tutto normale in altri, sempre riprendendo gli esempi di Sutherland [4].

Per alcuni temi molto delicati come l’aborto, matrimoni omosessuali, eutanasia, prostituzione, stupefacenti ecc. poi, la disciplina cambia drasticamente a seconda dello Stato in cui ci si trova. “Il diritto è una manifestazione, un fenomeno della cultura”[5] mentre solo un ordinamento penale votato al suicidio non si interessa e non fa valutazioni culturali tra i destinatari delle sue norme [6].

Ci sono materie del diritto anche molto complesse come il diritto tributario che il cittadino rispetta proprio in virtù del principio dell’“ignorantia legis non excusat” (art.5 c.p.). Bisognerebbe, tuttavia, immedesimarsi nello straniero che entra nel nostro Paese con una cultura totalmente diversa che può non conoscere la Legge o conoscerla ed operare razionalizzazioni interpretative infondate ma che hanno una logica nel suo immaginario di provenienza. Conoscere effettivamente il diritto, presuppone la conoscenza del suo linguaggio e non si tratta solo di conoscere la lingua italiana perché le leggi presentano anche delle cd “parti mute”. Anche iniziative come il c.d. accordo di integrazione che prevede un esame per attestare la conoscenza della lingua italiana da parte dello straniero, non è sinonimo di un perfetto adattamento alla cultura italiana in toto.

Una legge spesso presuppone una cultura giuridica di base e lo straniero può facilmente violare una legge senza volerlo e senza aver capito tutto ciò che c’era effettivamente da capire. Un esempio calzante è dato dall’art. 624 del c.p. che punisce il furto ma che non tiene in considerazione che in alcune culture non esiste l’idea del possesso e quindi il soggetto non ha la consapevolezza di aver commesso un reato. La possibilità che scatti una sanzione per punire una colpa del non sapere culturale costituisce una sconfitta perché si è semplicemente inceppato un circuito comunicativo tra gli individui e le istituzioni [7]. Dovremmo sforzarci di immaginare la Legge come la punta di un iceberg: dietro tale legge vi sono una miriade di fattori, preconcetti che lo straniero probabilmente non conoscerà. Non bisogna chiudersi nella propria cultura ed escludere chi non riesce a leggere la nostra “normalità”. Il pericolo è che lo straniero tenda a voler cambiare Paese o che resti senza riuscire ad integrarsi mai. Il diritto penale non può collocarsi troppo distante dalle valutazioni culturali dei suoi destinatari, solo così una funzione rieducativa potrà essere percepita come tale piuttosto che come una pena ingiusta.

Storica sentenza fu emanata in Italia dalla Corte Costituzionale sull’art. 5 del codice penale che recita: “Nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale”; la Corte affermò che: “tra i doveri costituzionali dello Stato figura anche il dovere di formulare norme che possano essere percepite anche in funzione di norme extra-penali di civiltà effettivamente vigenti nell’ambiente sociale in cui operano”.

L’art. 5 citato è stato al centro di profondi dibattiti dottrinali. Originariamente essa, in via assoluta, non permetteva che l’ignoranza (cioè assenza di rappresentazione di una data realtà) ovvero l’errore (cioè divergenza tra rappresentazione soggettiva e realtà oggettiva) in relazione alla legge penale, potessero essere causa di esclusione della responsabilità penale. Si trattava di un’impostazione decisamente rigorosa che secondo parte della dottrina risultava contrastante con il principio di colpevolezza sancito nell’art. 27 Cost. che afferma: “1. La responsabilità penale è personale. 2. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. 3. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. 4. Non è ammessa la pena di morte”.

Si potrà parlare di colpevolezza del soggetto agente solo quando vi sia la conoscenza o, quanto meno, la possibilità di conoscenza dell’antigiuridicità del fatto, soprattutto in relazione agli illeciti penali rientranti nella categoria dei reati di mera creazione legislativa.

Al fine di porre certezza ed accogliendo le istanze di giurisprudenza e dottrina, la Corte Costituzionale, con sentenza 24 marzo 1988, n. 364, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 5 «nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità della ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile». Ciò significa che il soggetto può considerarsi colpevole solo quando la conoscenza della norma penale sia stata possibile, ovviamente fermo restando il generale principio di solidarietà sancito nell’art. 2 Cost. che pone a carico di ciascun consociato un dovere strumentale di informazione e conoscenza della legge penale. Ne consegue che il soggetto deve considerarsi responsabile ogni qualvolta l’ignoranza della legge penale derivi dalla violazione di quel dovere di informazione. Non sarà così, invece, qualora, pur adempiendo al proprio dovere di informazione, si ravvisi una situazione di ignoranza inevitabile, cioè insuperabile da chiunque altro si fosse trovato nella medesima situazione. L’errore di diritto scusabile, in quanto dovuto ad ignoranza inevitabile, è configurabile solo in presenza di una oggettiva e insuperabile
oscurità della norma o del complesso di norme da cui deriva il precetto penalmente sanzionato.[8] Accade infatti di sovente che ci si trovi di fronte ad una materia oscura vista l’eccessiva proliferazione di norme e leggi a volte incomprensibili. Di codici penali avvolti da insuccesso sono molteplici. Tra le motivazioni troviamo spesso quelle legate al fatto che avessero un contenuto culturale molto distante rispetto al popolo cui era destinato (es: il codice penale che si voleva imporre alla colonia Eritrea sin dal 1908).[9]

Il nostro diritto penale è pieno di elementi culturali basti pensare al “comune sentimento del pudore” quando il legislatore parla di “atti osceni” (art. 529 comma 1 c.p.), il “vilipendio” che compare in vari delitti come i reati previsti dagli art. 290,291,292, 403 e 404 del c.p., “il pubblico scandalo”, la “morale famigliare”, la “pubblica decenza”, il “fatto ingiusto altrui” come circostanza attenuante della provocazione previsto dall’art. 62 n.2 c.p., la “giusta causa” la “proporzionalità”, i concetti di: “onore”, “decoro”, “reputazione” ecc. Anche la definizione di “atto sessuale” è un elemento impregnato di cultura, basti pensare che un bacio sulla bocca può essere tranquillamente considerato su una zona erogena ma ad esempio in Russia può essere visto semplicemente come un modo per salutarsi o all’interno di contesti famigliari è visto come un segno di affetto.[10] Si pensi inoltre al concetto di colpa, la “prima” colpa non è forse quella di Adamo ed Eva che, mangiando dall’albero della conoscenza, macchiarono l’uomo con il peccato originale? Si consideri ancora la pena, essa non è forse quella patita da Cristo per redimere l’umanità?[11]

La cultura arriva, inoltre, ad influenzare l’interpretazione delle norme. Il localismo dunque crea i presupposti per la commissione da parte degli immigrati dei reati culturalmente motivati. Quando parliamo di reati culturalmente motivati, si fa riferimento ad un comportamento realizzato da un soggetto appartenente ad un gruppo culturale di minoranza, che è considerato reato dall’ordinamento giuridico del gruppo culturale di maggioranza. Questo stesso comportamento, tuttavia, all’interno del gruppo culturale del soggetto agente è condonato, o accettato come comportamento normale, o approvato, o addirittura è incoraggiato o imposto.[12]

In alcuni casi il soggetto è chiamato simultaneamente a ubbidire a due norme tra loro antitetiche, trovandosi così costretto nella morsa di una scelta alternativa. Per un verso egli potrà uniformarsi alle norme contenute nell’ordinamento giuridico del paese d’accoglienza, tradendo cosi gli imperativi propri del suo gruppo d’origine; dall’altro, potrà aderire alle norme della propria cultura ignorando i divieti imposti dalla legislazione vigente nel paese di approdo ma rischiando di integrare condotte penalmente rilevanti.[13]

A ben vedere, quale che sia l’opzione attuata dal soggetto egli risulterà comunque soccombente. Le ricadute della sua scelta saranno certamente differenti, in quanto diversa è la fonte da cui promana il comando violato: – nella prima ipotesi, il soggetto vivrà la probabile eiezione dal suo gruppo culturale; – nella seconda incomberà su di lui la pena prevista dalla fattispecie incriminatrice per chi contravviene alle leggi dello stato.[14]

Volendo analizzare le risposte date dagli ordinamenti (dati dalle risposte dei giudici e dei legislatori) in relazione ai fatti commessi dai soggetti “culturalmente diversi” possiamo rinvenire tre approcci diversi: 1) Risposte improntate sulla tolleranza; 2) risposte improntate sull’indifferenza; 3) risposte improntate sull’intolleranza.[15]

1) Esempi di risposte improntate sulla tolleranza possono consistere:

– nella previsione di veri e propri ordinamenti penali e processual-penali paralleli basati sui costumi propri dei soggetti culturalmente diversi ed applicabili solo a questi ultimi esattamente come è avvenuto in Perù con l’introduzione della “Ley de comunidades campesinas” del 1987 ossia di apposite procedure sanzionatorie a carattere consuetudinario attivabili per le differenti popolazioni aborigene.[16]

– nella non applicazione di alcune norme penali ad alcuni individui appartenenti a gruppi etnico-culturali come
avviene in molti Paesi tra cui quelli anglosassoni nei quali, ad esempio, a gruppi pellerossa, indios e aborigeni è
consentito di cacciare specie di animali altrimenti severamente protette o come avviene in Regno Unito che consente agli ebrei di aprire i loro negozi la Domenica senza essere sanzionati con lo Shops Act del 1950.[17]

– nella previsione di norme a carattere generale che riconoscono che, in caso di violazione di norme penali, la colpevolezza dei membri culturali possa in talune ipotesi risultare scemata o addirittura del tutto esclusa.[18]

2) Risposte improntate sull’indifferenza significano non essere in grado di distinguere fra i soggetti attivi del reato e quelli che appartengono o meno alla cultura dominante di quel luogo.[19] Spesso questa tendenza la ritroviamo in Europa in cui vi sono molti Stati che fino a qualche decennio fa non avevano gruppi etnici culturali profondamente diversi e quindi non si erano mai posti questo problema.

3) Infine, vi possono essere risposte improntate sull’intolleranza nei confronti di soggetti culturalmente diversi da parte di Stati che mirano ad ostacolare/scoraggiare con leggi ad hoc ad esempio l’uso del burqa o di altri simboli religiosi. Le religioni sono molto legate anche alla simbologia che rappresenta proprio la relazione tra l’umano e il sovraumano e molto spesso l’uomo cerca un significato a tali simboli ma un simbolo non significa piuttosto evoca e focalizza una pluralità di sensi[20]. Il simbolo non è altro che un tipo di segno: un oggetto, un’espressione grafica o semplicemente un comportamento che, essendo del tutto svincolati dal linguaggio, hanno la grande forza di veicolare significati in maniera semplice, universale e immediata.[21]

Per affrontare con successo l’avanzare del cambiamento bisogna integrarlo con la normalità democratica. La storia punisce senza sconti chi è in ritardo.[22] Il problema, a mio avviso, è che invece il rispetto per le diversità sta creando eccezioni anziché un rimodellamento culturale del diverso.

 

 

 

 

 


[1] “Basile, Immigrazione e reati culturalmente motivati, il diritto penale nelle società multiculturali fa riferimento a MEZGER che nel suo libro: Kriminologie. Ein Studienbuch, München-Berlin, 1951 sottolinea la variabilità del diritto penale nello spazio, nello stesso passaggio ne sottolineava anche la variabilità nel tempo. La citazione completa è, infatti, la seguente: ciò che “è reato qui e oggi, potrebbe non esserlo domani o in un altro luogo, o viceversa”.
[2] De Maglie Cristina, I reati culturalmente motivati “ideologie e modelli penali”, Edizioni ETS, 2010 cit. pag. 1 cap. 1: “ culture e diritto penale, premesse metodologiche”.
[2] Idem cit.
[3] Bauman Z, Vite di scarto, trad. it. 2005 a cura di M. Astrologo.
[4] Sutherland-Cressey, Criminology, IX ed., Santa Barbara, 1974, tradotto in italiano a cura di ZANCHETTI, Criminologia, Milano, 1996.
[5] Principio enunciato da Radbruch secondo cui appunto “Recht ist Kulturerscheinung”.
[6] Beccaria definiva come “inutili e per conseguenza dannose tutte le leggi che si oppongono ai naturali sentimenti dell’uomo. Accade ad esse ciò che agli argini opposti direttamente al corso di un fiume: o sono immediatamente abbattuti e soverchiati, o un vortice formato da loro stessi gli corrode e gli mina sensibilmente”.
[7] Pantheon, Ricca “Agenda della laicità interculturale”, Torri del vento edizioni. Palermo 2012. Capitolo 6: “esprimersi, comunicare e simboleggiare” da pag. 203.
[8] Note dell’art. 5 del c.p. del sito www.brocardi.it alla seguente pagina: https://www.brocardi.it/codice penale/libro-primo/titolo-i/art5.html ove nella nota 47 spiega l’ignoranza inevitabile e il ruolo della Corte Costituzionale con sentenza 24 marzo 1988, n. 364.
[9] F. Basile, Immigrazione e reati culturalmente motivati, il diritto penale nelle società
multiculturali.
[10] F. Basile, Immigrazione e reati culturalmente motivati, il diritto penale nelle società
multiculturali.
[11] Articolo di Del Vecchio Marco intitolato “Lo straniero errante Il kirpan e le ragioni dell’“errore” dei Sikh” dalla rivista online CALUMET, intercultural law and humanities review.
[12] Basile Fabio, Immigrazione e reati culturalmente motivati, il diritto penale nelle società
multiculturali pag. 42.
[13] Articolo di Del Vecchio Marco intitolato “Lo straniero errante Il kirpan e le ragioni dell’“errore” dei Sikh” dalla rivista online CALUMET . intercultural law and humanities review cit. pag. 80.
[14] Idem.
[15] Bernardi Alessandro, Il “fattore culturale” nel sistema penale, Giappichelli editore, Torino
2010 cit. pag. 9.
[16] Bernardi Alessandro, Il “fattore culturale” nel sistema penale.
[17] Idem.
[18] Bernardi Alessandro, Il “fattore culturale” nel sistema penale.
[19] Ibidem pag. 12.
[20] René Alleau, La scienza dei simboli, Sansoni Editore 1983, Firenze.
[21] Fucillo Antonio, Diritto, religioni e culure: il fattore religioso nell’esperienza giuridica, Giappichelli, 2017.
[22] Pantheon, Ricca “Agenda della laicità interculturale”, Torri del vento edizioni. Palermo 2012.

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