Discrezionalità dell’amministrazione, discrezionalità del giudice e merito amministrativo
La nuova concezione di giudizio amministrativo, non più operato sull’atto, ma divenuto sindacato sul rapporto, si inscrive in un contesto latamente innovativo o, se vogliamo, rivoluzionario.
Oggigiorno, infatti, il potere amministrativo non è più ritenuto espressione della assoluta autoritatività della P.A., ma è oggetto di una riconsiderazione sostanziale che ne impone una valutazione alla luce della norma.
Ne sono espressione i decorsi evolutivi legati al ruolo del provvedimento, inteso quale risultato finale dell’azione amministrativa; il procedimento amministrativo, cioè la serie di atti e azioni prodromiche alla emanazione del provvedimento stesso, sì come disciplinato dal d.lgs. n. 241/90; il processo amministrativo e le nuove azioni, secondo le regole dettate dal Codice del 2010.
Funzione pregnante, in tal senso, è stata svolta dal diritto sopra nazionale che, a tutela del giusto processo e della garanzia di una giustizia effettiva, non ha perso occasione per ammonire l’Italia, in ragione del fatto che un simile esercizio di diritti individuali finiva per essere frustrato in base alla pregressa concezione della Pubblica Amministrazione, delle sue regole e, soprattutto, del rapporto col cittadino.
Proprio in quest’ottica garantista, peraltro costituzionalmente orientata, si è giunti agli approdi attuali, caratterizzati dalla massima considerazione per il privato.
Il cittadino partecipa, oggi, al processo di formazione del provvedimento e la sua partecipazione è, anzi, ritenuta strumento nella disponibilità della P.A. per la miglior soddisfazione del pubblico interesse, da intendersi quale bilanciamento delle posizioni giuridiche contrapposte: l’interesse generale e quelle del singolo.
Il potere amministrativo, quindi, si declina variamente in base alla ampiezza che vi concede la legge.
La principale distinzione è quella tra potere vincolato e potere discrezionale della P.A.
Nel primo caso, la legge non lascia margine di valutazione alcuno alla Pubblica Amministrazione; questa compie la sola verifica di esistenza dei presupposti, tutti normativamente previsti, per il rilascio del provvedimento.
Ne è un esempio di scuola quello del permesso di costruire: riscontrata la sussistenza delle condizioni individuate ab origine dalla norma, la P.A. semplicemente autorizza il privato senza spendere alcun potere pubblicistico.
Si tratta di una sorta di ricognizione operata dall’organo pubblico sui presupposti individuati a monte ex lege, al fine del rilascio del provvedimento.
Diverso è il caso, invece, della discrezionalità amministrativa, la quale deve essere distinta in due tipologie.
Sussistono, infatti, una discrezionalità cosiddetta tecnica e una diversa, amministrativa stricto sensu.
Il potere pubblicistico che si realizzi in attuazione di una scelta tecnicamente discrezionale, si sostanzia in un giudizio compiuto alla stregua di ponderazioni connesse ad ambiti e settori cui si richiama il caso specifico sottoposto alla valutazione amministrativa.
Nella ricerca del modus con cui soddisfare il pubblico interesse, la cui cura è il fine dell’azione amministrativa, scopo sempre individuato dalla legge, l’organo pubblico può, anzi deve, compiere delle scelte all’esito di valutazioni operate secondo le preferibili leges artis.
Non sempre la decisione della P.A., che deve svolgere la propria attività secondo i parametri del buon andamento ai sensi dell’articolo 97 Cost., è di univoco approdo.
Spesso, infatti, le regole tecniche sottese all’esercizio del potere afferiscono a materie non governate da leggi scientifiche, quali le scienze sociali, su tutte, o le scienze mediche, in taluni casi.
In circostanze consimili, quindi, la scelta compiuta dalla amministrazione nell’adozione del provvedimento sarà sempre opinabile, poiché non solo non vincolata dalla legge, ma risultante da una scelta astrattamente sostituibile, aderendo a teorie od opinioni diverse da quella adottata in concreto.
Il caso, invece, della discrezionalità amministrativa attiene al potere prettamente politico della P.A.: a parità di scelte possibili, tutte legittime, essa decide sul caso concreto, spendendo la propria legittimazione democratica e compiendo, così, lo scopo funditus della Amministrazione.
La discrezionalità amministrativa, quindi, esprime la quiddità della funzione pubblica, consistente nella determinazione politica del complessivo impianto istituzionale; voce del popolo, in rappresentanza dello stesso, come sancito dalla Carta Costituzionale, secondo le regole della democrazia rappresentativa.
Alla luce dei tratteggiati caratteri del potere della P.A., può chiarirsi il ruolo dell’Organo giudiziario nel caso di contestazione del provvedimento o del comportamento amministrativo, ferme le regole di riparto della giurisdizione.
Mette conto premettere, in considerazione del sindacato del giudice, che una decisa propulsione nel senso della sostituibilità della decisione giudiziale a quella compiuta dalla amministrazione si deve alla modifica del processo amministrativo, cui va di pari passo.
L’abbandono, infatti, della tutela esclusivamente caducatoria e la previsione della condanna pubblicistica, su tutte, consente al giudice di sostituirsi alla P.A. nella valutazione d’esistenza dei parametri di legge e di condannarla, all’esito, all’adozione del provvedimento.
Non presenta particolari rilievi, alla luce degli articoli 30 e 31, comma 3 C.P.A., l’approdo a mente del quale, in relazione a poteri vincolati della amministrazione o a circostanze in cui lo stesso si sia esaurito in concreto, il giudice possa condannare la P.A. all’adozione del provvedimento nelle forme e nei modi da esso indicati, poiché espressione della volontà della legge, di cui sono mera attuazione.
Il sindacato giudiziale, cioè, è di tipo sostitutivo, potendo peraltro il privato ricorrere al giudizio per l’ottemperanza, ai sensi degli articoli 112 e seguenti C.P.A., nel caso in cui l’amministrazione non si conformi alle statuizioni processuali.
A tale esito pare non potersi pervenire nel caso in cui sussista un potere discrezionale della Pubblica Amministrazione e nella medesima direzione volge la giurisprudenza in senso pressoché totale.
Trattandosi di discrezionalità, infatti, la legge riconosce alla P.A. il potere di valutazione della opportunità tecnica o della opportunità politica del provvedimento.
Nel rispetto dell’articolo 113 della Costituzione, che garantisce il diritto alla tutela giurisdizionale contro gli atti della Pubblica Amministrazione, e in conformità alla giurisprudenza europea che interpreta il giusto processo come diritto a una giustizia effettiva, dovendo la stessa consistere nella possibilità riconosciuta al privato di ottenere una rivalutazione del caso da parte di un organo terzo e imparziale, quale è quello giudiziario, si ammette ormai pacificamente la cosiddetta full jurisdiction.
Il giudicato è, quindi, intrinseco e non fermo a una valutazione estrinseca operata sulle statuizioni amministrative, di mera legittimità; piuttosto, integra un controllo che si spinge addentro al potere: il giudice ha un pieno accesso al fatto, ripete la azione amministrativa, potendo all’uopo, altresì, ricorrere alla consulenza tecnica d’ufficio, così come disposto dall’articolo 19 C.P.A.
Il giudice realizza una sorta di contrarius actus esoamministrativo; si pone al posto della amministrazione, sostituendosi a essa nella considerazione del caso concreto, operando il giudizio di esistenza dei presupposti nell’attuazione del vincolo eslege.
Questo sindacato intrinseco, corroborato ormai anche dalla giurisprudenza, trova un limite nella discrezionalità che ne impedisce un addentellato applicativo di tipo cosiddetto forte, sostitutivo, nel caso di situazioni in cui il potere amministrativo persista.
Il giudice, cioè, verifica e controlla il modo in cui è stato esercitato il potere amministrativo, ma non può ingerirsi nella decisione presa dalla P.A., poiché a parità di scelte tutte legittime, l’opportunità, e tecnica e amministrativa, risponde alla funzione stessa dell’Organo pubblicistico e ciò non è rinunciabile, a meno di una compressione di principi fondanti dello Stato di diritto, quale quello della divisione dei poteri.
Una rilevante, tradizionale, dottrina individuava l’azione amministrativa in più cerchi concentrici, nucleo dei quali era il merito: la politica.
Questo spazio di assoluta insindacabilità ex lato iudice coincide totalmente con la discrezionalità amministrativa e, in parte qua, con la discrezionalità tecnica che sia espressione di scelte opinabili, ma legittime, esito di valutazioni condotte nell’esercizio altrettanto lecito del potere di determinarsi per una certa soluzione, piuttosto che per un’altra.
Deve darsi conto, tuttavia, che una dottrina d’avanguardia, seppur nettamente minoritaria, ritiene che non ogni caso di discrezionalità tecnica integri una valutazione di opportunità.
Ben potrebbero, difatti, sussistere situazioni in cui la scelta ratione materiae non possa essere ragionevolmente compiuta attraverso più vie alternative, ma, in considerazione del caso specifico, una e solo una sia la conclusione possibile, seppur non addivenendosi ad alcuna vincolatezza del potere, nemmeno in via di fatto.
Tale tesi distingue l’opportunità dalla mera opinabilità, ritenendo questa seconda classificazione vincibile sul piano del giudicato: in siffatte circostanze, per rispettare il vincolo di scopo imposto dalla norma e in considerazione ulteriore degli interessi in gioco, dovrebbe concedersi al giudice un sindacato sostitutivo, oltre che pieno.
Il rischio, però, è quello ben individuato dalla dottrina contraria e maggioritaria, per vero, che riconosce nella suddetta teoria lo spostamento di competenza dalla amministrazione in capo al giudice, che finirebbe, così, per assolvere un ruolo cui non è chiamato, quello di governo.
Diversa, invece, la posizione di alcuni giudici dissenzienti nelle pronunce della Grande Camera della Corte EDU che, relativamente a casi vertenti sulla discrezionalità del giudice in presenza di potere amministrativo, hanno posto l’attenzione sulla ineffettività sostanziale della tutela dovuta al diniego di sindacabilità giudiziale.
Non consentire all’organo terzo e imparziale di poter sostituire la propria decisone a quella dell’organo pubblicistico, ingerendosi nel potere, non garantirebbe, infatti, una reale attuazione del diritto del singolo che rimarrebbe, invero, assoggettato alle determinazioni amministrative, dunque parziali, rappresentando la P.A. in modo necessario un interesse contrapposto a quello del privato ricorrente.
A mente di questa dissenting opinion, infatti, l’amministrazione, nonostante tutte le innovative misure volte a imporre la tenuta in considerazione degli interessi privatistici venuti in gioco, sarebbe ontologicamente avversa alle posizioni giuridiche soggettive del singolo che, dunque devono trovare la propria protezione in organi imparziali, da essa diversi.
Questa posizione, tuttavia, resta isolata e non seguita certamente dalla giurisprudenza né europea né nazionale, dove prevale l’indirizzo secondo cui il giudicato, a fronte del potere, deve essere sempre intrinseco, ma mai sostitutivo.
Ne costituisce esempio applicativo l’istituto del remand.
In forza di questa misura, il giudice, nel rito cautelare amministrativo, attraverso un pieno accesso al fatto, qualora reputi che le decisioni prese dalla Pubblica Amministrazione siano illegittime, rimette alla stessa la decisione, chiedendole di valutare nuovamente il caso concreto, nel rispetto del potere riconosciutole dalla legge.
Può, quindi, concludersi che a fronte del potere vincolato, di diritto o di fatto, della amministrazione, il sindacato del giudice è intrinseco e forte, potendo egli sostituire la propria decisione a quella della P.A. procedente, come dimostrato dalla possibilità di condanna a un facere specifico, prevista dal C.P.A.
In tal caso, infatti, non sussiste alcun potere amministrativo, ma l’Organo pubblicistico è chiamato a compiere una mera ricognizione dei presupposti di legge, secondo lo schema norma-fatto-effetto.
Nel caso, invece, della discrezionalità amministrativa, a natura ancipite, nonostante qualche isolata posizione dottrinaria volga in senso contrario, può ammettersi esclusivamente un sindacato debole del giudice, non sostitutivo.
Questi, infatti, ha un pieno accesso al fatto, sì che il controllo è full, intrinseco; tuttavia, persiste il potere pubblicistico demandato, entro i limiti del vincolo funzionale o di scopo, alla sola amministrazione.
Mentre la discrezionalità tecnica, quindi, si esplica nella determinazione del modus di perseguimento dello scopo eslege posto, rispondendo allo schema norma-fatto-potere-effetto, la discrezionalità amministrativa incide sull’an del potere stesso, secondo la regola norma-potere-fatto-effetto.
Ferma l’opportunità politica, quindi, insindacabile per via della legittimazione democratica di cui l’apparato amministrativo gode, è oggi consentito un controllo pieno sull’esercizio del potere.
Ciò in via di netta rottura con la tradizionale concezione di una P.A. detentrice di un’autoritatività incondizionata.
Oggi il giudizio sul rapporto fa perdere centralità all’atto provvedimentale amministrativo, in ragione di un processo, rectius: procedimento, il cui elemento cardine è la posizione giuridica soggettiva coinvolta: un’Amministrazione che è a servizio del singolo, il cui interesse deve tutelare, al pari e in quanto costitutivo del generale interesse alla cui soddisfazione e cura è finalizzata l’attività amministrativa stessa.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
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